Antefatto
Qualcuno doveva avergli parlato di me, perché quella mattina, nonostante la mia scarsa importanza, fui convocato dallo Scienziato.
All'epoca, nella ristretta comunità degli antropoprobabilisti, il mio nome, Thomas Precht, era conosciuto e rispettato. Eravamo pochi però, una decina di esperti sparsi nel mondo e solo una ventina di collaboratori, nonché unici ammiratori del nostro lavoro, e li conoscevo tutti. Almeno così credevo. Accettavo quindi con serena rassegnazione il fatto che, nonostante il mio impegno, non ci fosse rivista disposta a intervistarmi, associazione che mi considerasse per un premio qualunque o fondazione che volesse finanziarmi. Fuori da quella ristretta cerchia, ero un signor nessuno.
Come i miei colleghi, conducevo i miei studi sulla scienza ibrida che era l'antropoprobabilità come attività secondaria, e vivevo di un mestiere molto più sicuro: ero analista per la Zenqvo. Era una multinazionale con ramificazioni più che estese e lo Scienziato era uno dei vertici mondiali. Io mi occupavo di traffico automobilistico, estraevo, automaticamente s'intende, informazioni da ore e ore di filmati di telecamere stradali, di proprietà dell'azienda, e segnali gps di tutti i tipi, non certo un ruolo prestigioso, ma che mi lasciava tempo e concentrazione per dedicarmi ad altro. Era mio compito trarre conclusioni dai dati, scrivere noiose relazioni che suggerivano come migliorare la viabilità e che, previa controllo, sarebbero state mandate agli urbanisti della nostra metropoli.
Non avevo alcun potere decisionale e, ne ero convinto, alcune delle mie migliori analisi erano state mutilate, per non dire stravolte, prima di essere applicate dai vari comitati municipali e, a volte, anche prima di giungere a loro. Era infatti da tempo che i dati mi dicevano a gran voce che il supermercato Zero era situato troppo vicino alla stazione, e che non faceva che arricchire i tassisti che allungavano il percorso per evitarne le sempiterne code. Qualche anno prima, ingenuamente, ne avevo parlato con Hullit, il mio superiore. Egli mi aveva comunicato mellifluamente che tutti, alla Zenqvo, ammiravano le mie relazioni asciutte e precise, e che le correzioni effettuate prima dell'invio ai vari ingegneri del comune erano minime, solo di forma, praticamente. Nonostante la sua voce tradisse menzogna, avrei potuto anche credergli, visto che parlava sempre in questo modo, una tecnica come un'altra per impedire agli altri di capire quando stava mentendo. Probabilmente, però, mi aveva detto con aria affabile, gli urbanisti prendevano in conto anche altri aspetti della città, quelli antropologici, di cui io non potevo rendermi conto, passando la vita su immagini in bianco e nero di attraversamenti pedonali e percorsi di taxi.
Qui si sbagliava, come antropoprobabilista, avevo una solida cultura sull'uomo e sulle sue colorate azioni. Sapevo che il supermercato Zero non sarebbe mai stato spostato, perché con il suo slogan "Chilometro zero, emissioni zero", era diventato il fiore all'occhiello della città, e, arrivando dalla stazione, doveva essere la prima cosa da vedere, con la ciclabile intorno e il parcheggio sotterraneo invisibilmente pieno. Anzi, forse per mettermi a tacere, lungo le strade che vi arrivavano, erano stati piantati moltissimi alberi frondosi, che, non potendo comunque bilanciare le emissioni delle automobili, almeno nascondevano alla vista e ai miei occhi elettronici le colonne di veicoli. Fatica sprecata. Ormai avevo smesso di scriverne nelle mie relazioni, mossa rischiosa in un'azienda trasparente e impegnata, ma accettata e compresa alla Zenqvo, mi pareva.
Invece quella mattina, ero nella sala d'attesa dell'ufficio locale dello Scienziato, ormai da più di mezz'ora. Pochi, tra quelli che conoscevo, erano stati convocati da lui, ma, alla fine, era un dirigente come un altro: pretendeva spiegazioni. Forse era un po' più intelligente degli altri, e bisognava giustificarsi in modo più abile, ma lo scopo era sempre quello di mantenere il posto.
Pensai a cosa mi avrebbe potuto rimproverare: consegnavo le relazioni all'ultimo momento, suggerivo costantemente di aggiungere ciclabili, anche dove non si poteva, e trascuravo certe zone, come il Supermercato Zero. Per queste aree, non sarebbe bastato spiegare la mia frustrazione di uomo non ascoltato, da quando poteva essere una ragione di non fare il proprio lavoro, ma avrei potuto usare l'argomento di Hullit, magari riversare un po' di colpa su di lui, il superiore che mi aveva scoraggiato dal continuare le mie analisi. Oppure, se proprio avessi voluto fare il brillante, potevo usare l'antropoprobabilà. Sarebbe stato abbastanza inutile però: essa sviluppava formule e modelli per prevedere le conseguenze delle singole azioni umane, ma applicata a grosse decisioni, che supponevano l'accordo di migliaia di persone, come spostare un supermercato, dava risultati prevedibili da qualunque sociologo o politico con un minimo di senno.
Era nata da un racconto di Bradbury, in cui un uomo fa un viaggio nella preistoria, pesta una farfalla e, quando ritorna nel futuro, scopre che tutto il mondo è cambiato, per colpa sua. Noi antropoprobabilisti cercavamo di modellizzare questo effetto farfalla, in sistemi piccoli certo, o con grosse approssimazioni. Utilizzavamo strumenti che andavano dall'informatica teorica alla fisica quantistica, applicandoli a norme sociali, stati d'animo e contesti politici. Avevamo ottenuto dei buoni risultati, per esempio, applicando i nostri algoritmi in un acquario: i comportamenti dei pesci, nella loro vita minimalista, non erano poi così lontani da quelli umani e, dai movimenti di uno di loro, si riuscivano a prevedere quelli degli altri abbastanza accuratamente. Anche con grosse approssimazioni sugli abitanti della metropoli, che dividevamo in consumatori, politici e produttori, avevamo ricostruito non poche dinamiche attuali. Erano però tutte spiegabili con la logica e il fatto che ci fossimo arrivati con formule matematiche passava inosservato, si sospettava sempre il nostro intervento o il nostro pregiudizio.
Finalmente la vecchia segretaria, che mi faceva compagnia con il suo silenzio, mi rivolse la parola.
<<Mi dispiace per l'attesa, ora la faccio entrare>>
Mi alzai e le lasciai aprire la pesante porta in legno su cui avevo fissato gli occhi fino a un attimo prima. Entrai in un ufficio luminoso ma rivestito di un velluto scuro che stonava con computer nuovissimi e altre apparecchiature che faticavo a riconoscere. A una scrivania in vetro, sedeva lo Scienziato, uguale alle belle foto che circolavano in rete, su una poltrona confortevole e antica.
<<Prego, dottor Precht, si accomodi e mi scusi ancora per averla fatta aspettare>> disse con calma.
<<Finché si tratta di aspettare in dolce farniente durante l'orario di lavoro non c'è problema.>> scherzai, più per distendermi con un po' di ironia che per farlo ridere. Invece sorrise, e ciò mi tranquillizzò molto di più.
<<Mi ero dimenticato che la Zenqvo considerasse il suo lavoro così ripetitivo e noioso da darle un orario fisso, anche se so che non lei non fa mai gli straordinari>>. Aveva una voce calda e controllata, da attore teatrale, e il suo viso tradiva una passata bellezza.
<<Per fortuna, riesco sempre a terminare nei tempi, avete calcolato bene il mio ritmo di lavoro>>.
<<Non saprei>> Lasciò queste parole sospese e poi riprese.
<<Lei consegna sempre all'ultimo, e gli analisti della sezione tracciamento consumi alimentari sono più rapidi, pur avendo una mole di dati comparabile, eppure non credo siano più intelligenti. A proposito, ha rinunciato alla sua battaglia contro il Supermercato Zero?>>.
Egli dunque leggeva le mie relazioni da un certo tempo e conosceva la città tanto da accorgersi che non erano state prese misure per quelle mie indicazioni di anni fa.
<<In un certo senso sì, ho capito che ci sono dei fattori in più che bloccano il suo spostamento e, anche se non fanno parte del mio mestiere, so che sono più importanti>>
<<Dei fattori in più...>>.
Decisi di usare la carta di Hullit, anche se non mi sentivo minacciato dalle sue osservazioni. <<Hullit me l'ha spiegato più volte.>>
<<Non provi a farmi credere di aver bisogno di Hullit per capire che lo Zero deve restare dov'è, un antropoprobabilista padroneggia una quantità di "fattori", come dice lei, che Hullit non si immagina neanche.>>
Aveva ragione, nelle nostre simulazioni c'era sempre una quantità di parametri vertiginosa. Sorrisi io ora, sempre più interessato da questo personaggio che mi avrebbe poi cambiato la vita.
<<Conosce l'antropoprobabilità?>>
<<Sono lo Scienziato, ho interessi molto disparati. L'ho chiamata per conoscerla meglio, dottor Precht, e vorrei che lei abbandonasse il traffico per passare a un lavoro più soddisfacente, a cui spero dedicherà la sua attenzione indivisa, senza sprecare le risorse dell'azienda. Si tratta di correlazioni antropologiche.>>
Il resto, purtroppo, non è storia.
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