Estasi in Baozhi | @Elegantstork

di ElegantStork

La musa che ha ispirato questo racconto è Polimnia, musa della danza rituale. Le opere che lo hanno ispirato sono la fotografia indicata di seguito e il brano riportato.

Estasi in Baozhi (宝志村的狂喜)

Il seguente racconto contiene scene e temi disturbanti e adatti a un pubblico maturo.
La fotografia che ha ispirato la scrittura di questo racconto non è idonea alla pubblicazione su questa piattaforma secondo le linee guida per i contenuti multimediali di Wattpad, pertanto non è disponibile in questa pagina. Può essere visualizzata al link https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Supplice_Fou-Tchou-Li.jpg. Attenzione! L'immagine è una fotografia storica che raffigura una scena di violenza cruda e reale, pertanto non è adatta a chi sia facilmente impressionabile. Si avvisa anche che questo racconto non concorrerà per alcun premio ed è unicamente un'aggiunta a questa raccolta di storie scritta per il gusto di partecipare senza concorrere. Detto questo, buona lettura

"Le jeune et séduisant Chinois (...) livré au travail du bourreau, je l'aimais d'un amour où l'instinct sadique n'avait pas sa part : il me communiquait sa douleur ou plutôt l'excès de sa douleur et c'était ce que justement je cherchais, non pour en jouir, mais pour ruiner en moi ce qui s'oppose à la ruine" – Georges Bataille

Le lenzuola erano come veli traslucidi nella stanza da letto e proiettavano ombre sottili sulle pareti illuminate dalla luce delle lanterne cinesi. Il frinire delle cicale sovrastava gli ansiti dei due individui intrecciati lì sotto, i corpi intrecciati in una penetrazione ritmica e imbarazzata. Sembravano immaginare che la pelle dell'altro fosse la superficie di un vaso di porcellana, estranei al vento della passione che fa ghermire la carne e schioccare i muscoli. Anche i loro gemiti erano più simili a dei fiati trattenuti. Più che un rapito atto d'amore, in quel letto sembrava essere in corso un accoppiamento tra insetti, tra rettili silenziosi e sconosciuti. Ma quest'immagine non era ciò che Claude stava immaginando. No, i movimenti ritmici delle lenzuola gli riportavano alla memoria un'altra scena, distraendo la sua mente dalla scialba marea di dopamina già intenta a placarsi nelle sue vene. L'immagine era celebre, quasi iconica: il momento esatto in cui la diga di Tanajisagar, nel 1961, era collassata sterminando gli abitanti del remoto villaggio di Pune, nel cuore dell'India Settentrionale. Bastiaan van Ossenrijk si trovava lì proprio in quei giorni, impegnato nella missione di fotografare una particolare specie: il raro e bellissimo Uccello delle tempeste di Swinhoe continentale. Com'è noto questo volatile si riproduce nell'isola di Verkhovsky o nelle isole dell'arcipelago giapponese, ma quell'anno al Deutsche Ornithologen-Gesellschaft erano giunte delle anonime e sfocate fotografie che ne suggerivano la presenza anche nella regione del Maharashtra, vicino alle scogliere nebbiose dell'Oceano Indiano. Dopo diversi giorni di pioggia, immobile come un airone e immerso in una pazienza predatoria, van Ossenrijk aveva visto il cemento gonfiarsi e pulsare senza preavviso. Mosso da curiosità, egli si era spostato su un crinale poco distante per avere la miglior visuale possibile della diga. I suoi muscoli si erano fatti rigidi quando egli aveva avvertito un tremolio nell'aria, il presentimento che una tragedia era in procinto di consumarsi, e il suo dito aveva preso a fremere sopra il pulsante di scatto finché un boato assordante aveva riempito valle. L'otturatore della camera si era aperto esattamente nel momento in cui le pareti della diga erano esplose all'unisono, frammenti di una granata colossale scaraventati in alto nel cielo plumbeo. Il gigantesco muro d'acqua, una massa solida e senza spume, fu immortalato per sempre nella pellicola, cristallizzato in quell'istante di stasi prima della catastrofe. Un massiccio acqueo che emergeva dalla pioggia e dalla nebbia, un titano di venti metri che si liberava dal proprio guscio di cemento in una mirabolante manifestazione della somma autorità della natura.
Fu così che van Ossenrijk vinse il suo primo pulitzer per la fotografia. La fatalità di quel momento era incomprensibile, quasi miracolosa. Quante erano le probabilità di immortalare con simile precisione quell'attimo prima della catastrofe? Quello era il tipo di fortuna che un fotografo poteva sperare di avere una volta nella vita, forse meno. Per questo motivo la stampa rimase sbalordita quando van Ossenrijk l'anno seguente presentò alla medesima giuria la foto di cinque iene intente a sbranare il generale Silva Diogo tra le fiamme di un elicottero militare schiantatosi nella savana. Il bagliore accecante del fuoco nel bianco e nero della pellicola gettava una luce infernale sulle fronde delle acacie e sulle fauci sporche di sangue delle belve maculate. La faccia del generale era impossibile da riconoscere nel buio della notte africana, ma le medaglie sull'uniforme brillavano arroventate, bianche come gli occhi degli animali intenti a divorarlo. Van Ossenrijk si era recato in Angola per documentare la guerra d'indipendenza da poco scoppiata, ed era intento a vagare nelle pianure al largo del villaggio di Xangongo quando aveva visto l'elicottero precipitare a pochi chilometri dal corso del fiume Kunene. Nessuno riusciva a spiegarsi com'era possibile che le iene avessero attaccato il generale nonostante la vicinanza alle fiamme, ma non c'era dubbio che la fotografia fosse autentica. Ecco, Claude riuscì a visualizzare chiaramente l'immagine mentre carezzava la pelle sudata sui fianchi di Daiyu, intenta a grattare via una ciocca di capelli rimastale incastrata all'angolo della bocca. Il premio Pulitzer andò di nuovo a van Ossenrijk, non senza un controverso dibattito vista la crudezza dell'immagine, ed egli divenne una leggenda nel mondo della fotografia. Con le lodi di Diane Arbus, Charles Moore, persino Jack Thornell, che ora conoscete per la leggendaria "The Shooting of James Meredith" e che nel '66 soffiò l'ambito premio a van Ossenrijk e alla sua foto di un operaio brasiliano segretamente colto in un atto sessuale con una gallina in una fattoria proprietà di McDonald's. Ben presto, van Ossenrijk venne ribattezzato "il fotografo maledetto", vista la sua capacità di immortalare gli atti più osceni e cruenti in maniera perfetta, quasi miracolosa. Ovunque andasse portava la tragedia con sé, come quando nel '68 fotografò i primi istanti del massacro di Tlatelolco in Messico (nonché uno studente in costume da guerriero giaguaro azteco colpito da una fucilata) e nel '66 immortalò l'immagine di due ufficiali dell'esercito kenyota intenti a smembrare dodicenne albino durante la Guerra degli Scifthà. Quest'ultima immagine causò molto scalpore, come si può immaginare, e fu censurata in diversi paesi. Un bagno gelido e improvviso di shock, una spietata rappresentazione dell'odio umano senza filtri e senza sottigliezze racchiusa nella perfetta cattura di un attimo: questo era lo stile consolidato e acclamato del maestro. Ormai era evidente: van Ossenrijk era un fotografo troppo fortunato per nascondere la fatalità della sua presenza come una coincidenza. Le voci dicevano che avesse stretto un patto col diavolo. Egli viaggiava sempre da solo, non rispondeva alle domande dei giornalisti e riusciva sempre a eludere ogni investigazione formale o esoterica. E chi l'aveva incontrato lo aveva descritto come una figura mistica, un individuo affascinato dal lato più marcio e oscuro dell'essere umano non con l'ottica di un curioso, ma con quella di un profeta.
L'orgasmo distrasse Claude dalle sue fantasie giornalistiche. Non ci furono urletti o gemiti, solo un sospiro svogliato da parte di Daiyu per segnalargli che l'obiettivo era stato raggiunto. Claude guardò il suo volto: era del tutto inespressivo, a malapena inacidito da qualche pensiero cinico nascosto dietro gli occhi a mandorla.
«Stavi pensando a un'altra» disse Daiyu, scavallando le gambe.
Claude non poté fare a meno di riderle in faccia, sgarbatamente.
«Sei disgustoso»
«È proprio vero, lo ammetto. Stavo pensando a Pat Nixon. Sai, ancora non riesco a perdonarmelo di farmi scopare da scolarette comuniste e l'unica possibile penitenza è immaginare il severo viso della first lady che mi rimprovera perché non sono fuori a distribuire riso ai poveri cinesini. God bless America!»
Daiyu lo colpì al volto con un cuscino, facendogli cadere gli occhiali sul materasso.
«Ferma, cazzo! Me li rompi!»
«Certo che voi francesi non siete tanto bravi come dicono, a scopare» disse la donna, senza nascondere la propria stizza.
«Sono stressato, Daiyu. Non dormo da giorni. Mi dispiace se non ho soddisfatto le tue aspettative»
«Mi hai guardata come se fossi trasparente...»
Claude scese dal letto, facendo scricchiolare il materasso che puzzava di sudore. Si infilò un paio di boxer che il sole non era aveva asciugato del tutto, indossò le ciabatte e si gettò svogliatamente sulla sedia di fronte alla scrivania. Daiyu lo seguì con sguardo perplesso, ancora sdraiata sul letto con i lunghi capelli che le coprivano i seni, e sollevò il sopracciglio quando lo vide prendere la macchina da scrivere.
«Che fai? Scrivi?» domandò.
«Sì, credo mi sia venuta l'ispirazione. Ho l'articolo fresco in mente, non posso lasciarmelo sfuggire» rispose Claude, armeggiando goffamente con i fogli inumiditi dall'afa. Ne incastrò uno nella macchina da scrivere e iniziò subito a picchiettare sui tasti. Le narici di Daiyu si dilatarono in segno di disgusto.
«Stavi pensando a lui?»
«Cazzo, sì» Claude non si girò, rimanendo chino sulla scrivania «fra qualche ora dovrò incontrarlo e non sono mai stato così nervoso in vita mia. Immagina se tu dovessi incontrare il tuo mitico Mao Zedong all'alba: ecco, è così che mi sento. È da ieri che cerco di scrivere l'introduzione all'articolo ma non ci riesco, vorrei fare un lavoro decente stavolta»
«Sei patetico» Daiyu si voltò dall'altra parte, infastidita dalla vista dei nei sulla schiena dell'uomo «anche quando scopi l'unico modo che hai di eccitarti è pensare a quelle schifezze»
«Ma che stai dicendo...»
«Lo sai anche tu. Lo sai che hai raggiunto l'orgasmo solo perché hai pensato a quella foto del congolese che osserva le mani tagliate del figlio durante il regime di Leopoldo II. O alla foto dei due coniugi in riva al mare che cercano il bimbo scomparso tra le onde, quella che mi hai mostrato l'altro ieri. Te l'ho visto in faccia»
«John Gaunt. 1955. Tragedy by the Sea. Ci sei andata vicina, lo ammetto»
«Non negarlo, la tua fissazione per le tragedie umane non è diversa dalla masturbazione. Per questo sei così ossessionato da quel tipo»
«Ossessionato?»
«Ossessionato, sì. Non fai altro che parlarmi di lui. La tua è un'ossessione»
«E di che dovremmo parlare? Di comunismo? Facciamo un po' a turno, un'argomento di conversazione lo scegli tu e uno io?»
«Sei uno stronzo»
«Perché invece tu sei il volto della compassione, ti prodighi così tanto per questi poveretti! Ringraziamo il nostro glorioso leader Mao per il Down to the Countryside Movement e per aver finalmente sciolto il cuore di ghiaccio della brillante studentessa di Nanchino con l'affetto dei contadini dello Yunnan»
«Faccio la mia parte» il tono di Daiyu si fece più serio. Non aveva voglia di scherzare. Si vedeva che era stanca di quella conversazione. Claude smise di picchiettare sui tasti e si voltò per rivolgerle un'occhiata di rimprovero.
«Prendo il mio lavoro molto seriamente, ecco tutto» disse «la verità è che tutti questi viaggi mi rendono distaccato, apatico. Non me ne frega niente di tutti questi villici, hanno avuto sfortuna ma la loro condizione non è peggiore di quella di altri due miliardi di persone. Li compatisco, certo, ma non sono qui per fare il buon samaritano. Sono qui per documentare la realtà dei fatti e nulla di più»
«Lo sai che non è così, tu sei attratto da questo schifo» ribatté Daiyu.
«Guarda che inizi a farmi incazzare»
Improvvisamente qualcuno bussò alla porta e Daiyu nascose fulminea le proprie parti intime sotto le coperte.
«Alla larga!» sbraitò Claude. Dall'altra parte della porta giunse una voce in cinese, piuttosto nervosa, e l'uomo restò interdetto. Che motivo c'era di disturbarlo a quell'ora della notte?
«Rivestiti, svelta» Claude porse camicia, gonna e calze a Daiyu, dopodiché si infilò sbrigativamente una camicia hawaiiana e si pettinò i capelli sudati; «Arrivo!» esclamò, sperando di far tacere il cinese che aveva iniziato a martellare pugni sulla porta.
Quando aprì, si ritrovò davanti il viso scavato e arcigno del capovillaggio. L'uomo aveva un'espressione minacciosa ed era circondato da una dozzina di villici armati, tra cui due miliziani che brandivano un moschetto della guerra civile e tre membri del comitato del villaggio.
«Claude Lefèvre!» sbraitò il capovillaggio, storpiando il suo nome con quel suo accento nasale, dopodiché iniziò a parlare in cinese con un tono aggressivo. Attraversò la soglia, piantandosi di fronte al fotografo, e rivolse uno sguardo colmo di disprezzo a Daiyu quando la vide seduta sul letto.
«Che sta dicendo?» domandò Claude.
«Sta dicendo che c'è stato un omicidio» rispose la donna, la fronte aggrottata «giù al granaio, vicino alle macerie della mensa. Uno della milizia è stato trovato morto»
«E che vogliono da me? Che ci scriva un articolo?»
«No. Dicono che un testimone ti ha visto sulla scena del crimine. Devi venire con loro»

«Chiede dove sei stato questa sera» Daiyu tradusse le parole con un'ombra di tentennamento nella voce. Claude fissò il membro della milizia dritto nelle orbite scavate, assicurandosi che l'individuo potesse studiargli il volto mentre rispondeva. Dopo il terremoto, qualsiasi influenza dell'Esercito Popolare di Liberazione si era dissolta nel nulla, come se i crepacci tra le colline e le risaie avessero separato lo Yunnan dal resto del paese. Pertanto, quei villici giocavano a impersonare le forze dell'ordine senza la minima preparazione civile e burocratica ed era indispensabile evitare qualsiasi mossa azzardata che potesse insospettire quel tizio.
«Sono stato con la mia cortigiana Daiyu – la donna fece una smorfia di ribrezzo alla parola "cortigiana" – e sono stato alla scrivania fino a mezzanotte perché domani ho un'intervista importante, forse la più importante della mia vita. Non sono mai uscito dalla mia stanza»
Claude fece cenno a Daiyu di tradurre e il cinese aggrottò la fronte. Le rivolse una domanda, forse cercando conferma che la donna avesse davvero passato tutta la sera con quel verme occidentale, e lei rispose affermativamente. Nel frattempo, Claude girò la testa per osservare il disegno delle quattro bestie della Four Pests campaign appeso alla parete. L'interrogatorio stava avendo luogo nella classe della vecchia scuola elementare di Baozhi, uno dei pochi edifici rimasti parzialmente intatti dopo il terremoto di gennaio, e quel disegno era l'unico abbellimento in quel luogo squallido che non fosse un qualche poster di propaganda comunista o un ritratto di Mao con gli occhi imbrattati d'inchiostro. Vedere il passero trafitto dalla lama gli mise addosso una strana malinconia e un forte senso di disagio. Anche lì, in una classe frequentata qualche mese prima da bambini, lo seguiva quell'alienazione, quell'onnipresenza materna del dolore etnico. Porca puttana, quel passero era lui. Glielo vedeva nelle ali flosce e degli occhi neri e pieni di sconforto.
«Ti chiede a che ora sei entrato nella casa» disse Daiyu.
Claude fece per incrociare le braccia, ma si trattenne, rimanendo composto. «Circa alle diciannove» rispose.
«E che cos'hai fatto prima?»
«Sono andato a prendere la cena dalla mensa popolare e ho mangiato vicino ai resti della fabbrica. E prima ho scattato un po' di foto alle macerie e agli abitanti. Diversi di loro possono testimoniare»
Il miliziano annuì, dopodiché si alzò da tavola e si diresse verso la porta. Disse qualcosa in cinese mentre armeggiava con il chiavistello e la donna tradusse: «Ora faranno entrare il testimone che ti ha visto al granaio e che ha trovato il cadavere»
Claude percepì il sangue ribollirgli nelle vene a quella frase. C'era la possibilità che qualcuno degli abitanti avesse cospirato per rubare delle provviste dal granaio e poi incolpare lui: lo straniero occidentale. Questo almeno era ciò che il suo fiuto giornalistico suggeriva. L'idea che quei villici fossero pronti a scannarsi tra loro anche dopo la tragedia del terremoto gli faceva venire la nausea, ma non c'era da sorprendersi. Aveva già visto in passato ciò a cui portava l'autentica inedia, la fame che annebbiava la mente e ingialliva la pelle. Presto il membro della milizia rientrò dalla porta accompagnato da un bambino allampanato.
«Questo è Yan Shanyuan» Daiyu tradusse le parole dell'uomo «ed è lui che sostiene di averti visto»
Il ragazzino doveva avere poco meno di dodici anni. Aveva gli incisivi sporgenti e il viso scavato di chi non mangia da giorni, e fissò Claude negli occhi con un barlume di timoroso astio. Il giornalista non reagì, limitandosi a ricambiare lo sguardo con compostezza anche quando il bambino iniziò ad abbaiare in cinese indicandolo col dito rachitico.
«Dice di aver visto un occidentale con gli occhiali e i capelli ricci» disse Daiyu «che parlava con la guardia e camminava avanti e indietro. Non sa dire verso che ora, ma era sera. Poi, quando è tornato un'ora dopo, la guardia non c'era più. Allora l'ha cercata e l'ha trovata nel canale d'irrigazione con un coltello nella schiena»
«Non ero io. Non ho mai parlato con quell'uomo» replicò Claude, alzando la voce per sovrastare gli starnazzi isterici del bambino.
«Dice che avevi una macchina fotografica appesa al collo» continuò la donna, i muscoli a un tratto irrigiditi dall'inquietudine.
«Sta mentendo! È un piccolo bugiardo del cazzo!» Claude si alzò bruscamente dalla sedia e il membro della milizia si mise anch'egli a latrare, cercando di farlo sedere. Gli strilli del bambino, del soldato e di Claude si fusero in una livida cacofonia di insulti francesi, minacce cinesi e violenti colpi di tosse provenienti dalla laringe irritata del ragazzino. Daiyu smise di parlare, le labbra semiaperte per lo sbigottimento e le dita strette a ghermire l'orlo del maglione sporco di fango.
«Chiedigli di descrivere la macchina fotografica, avanti! Chiedi di farlo!» sbraitò Claude, rivolgendosi alla donna. Scintille di disperazione avevano iniziato a crepitargli in gola. Daiyu dovette ripetere la frase più volte per farsi sentire con tutto quel trambusto. Il bambino inizialmente finse di non capire, poi sembrò riflettere un attimo sotto gli occhi attenti del membro della milizia e infine disse che non se lo ricordava.
«Era molto buio» tradusse Daiyu.
«Va te faire foutre!» Claude picchiò il pugno sul tavolo «Diglielo, diglielo che sei stata con me! Questa è una pagliacciata! Quando il mio editore saprà che sono stato trattenuto contro le leggi di questo paese, arriverà in questo merdaio e lo raderà al suolo col bulldozer. Scriverò all'ambasciata francese, dirò ai vertici del Partito come voi schernite l'immagine del vostro leader e sarete messi a morte uno per uno. Non sono io quello morto di fame, pronto a uccidere per rubare un po' di cibo dal granaio, lo vedete? Dovreste indagare la famiglia di questo piccolo stronzetto bugiardo!»
Il membro della milizia fece segno a Claude di sedersi. Egli ubbidì con un grugnito spazientito e continuò a sostenere lo sguardo del bambino con profondo disprezzo. Daiyu stava per tradurre, il petto scosso da singulti di nervosismo, quando qualcuno bussò alla porta.
«Qǐng jìn»
Il capovillaggio entrò, il mantello in pelle di capra fradicio e gli occhi arrossiti dalla spossatezza. Fuori aveva iniziato a piovere. Fece un cenno di saluto al membro della milizia, senza degnarsi di guardare Daiyu, e gli sussurrò qualcosa all'orecchio. L'uomo ascoltò attentamente e corrugò la fronte, poi si rivolse verso Claude e mormorò qualcosa.
«Che ha detto?»
«Che per adesso puoi andare» disse Daiyu.
«Posso andare? Cazzo finalmente si ragiona» Claude si alzò dalla sedia e afferrò la giacca.
«Non potrai lasciare il villaggio, però. Almeno finché le indagini non saranno finite» Daiyu continuò a tradurre le frasi del capovillaggio.
«Indagini... è tutta una farsa» rispose il fotografo a denti stretti «non mi piace questa situazione»
Daiyu riferì al capovillaggio ed egli sembrò soddisfatto. Il membro della milizia si scostò per far passare Claude e l'uomo rivolse un ultimo sguardo pieno di rancore all'emaciato mostriciattolo che l'aveva accusato con tanta animosità. Non si sarebbe dimenticato quel volto.
«Coraggio, vieni» disse alla donna, che lo seguì fuori dalla classe sotto gli occhi diffidenti dei due uomini. Percorsero il corridoio in fretta, senza voltarsi indietro, e Claude si coprì la testa con la giacca prima di attraversare la soglia della scuola. La pioggia aveva reso le strade un pantano infernale ed egli dovette procedere a quattro zampe su per la scarpata per non sdrucciolare sul fango.
«Cortigiana... vaffanculo» disse Daiyu, la voce a malapena udibile sopra il fragore della pioggia.
«Dobbiamo fare le valigie non appena torniamo a casa tua» si limitò a rispondere Claude.
«E la tua preziosissima intervista?»
«Partiremo dopo l'intervista»
«Io non vado da nessuna parte con te» la voce di Daiyu era del tutto seria, come se un cenno di solennità potesse annacquare la stizza.
«Questi villici sono disperati, glielo vedo negli occhi. Mi faranno a pezzi quando questa storia sarà finita. Vogliono un Guy Fawkes da bruciare per le loro miserie, la fame li sta portando a cospirare contro di me. Vuoi lasciarmi da solo? Lo sai che il telefono funzionante più vicino è a Shanmen. Non avrei speranze»
«Loro non cospirano, sono solo stanchi e disperati. Parlerò io con Huang e gli spiegherò la situazione. Un omicidio qui non è cosa normale e lo sa anche lui che non hai alcun movente. Per quello ti ha lasciato andare»
«Non posso contattare la redazione o l'ambasciata, l'unica persona su cui posso fare affidamento sei te»
«Affidamento per cosa? Se provi a scappare peggiorerai solo le cose»
Una volta giunti sopra la collina, Claude si fermò e si voltò a ponente. Sgranò gli occhi, tentando di scorgere la sagoma del granaio attraverso il muro di pioggia. La folla a quanto pare se n'era già andata ed erano rimaste solo un paio di macchine agricole tra quelle degli abitanti che si erano offerti di trasportare la salma all'altare. Claude trasse un respiro profondo, cercando di calmare i nervi. Presto si sarebbe tutto sistemato, ma l'intervista era la cosa fondamentale. Non poteva mandare tutto a monte proprio ora.
I due individui continuarono lungo il sentiero attorniato da felci procedendo a tentoni. La sagoma delle macerie del villaggio era a malapena visibile nel buio della notte, ma Daiyu procedeva speditamente, avendo già percorso quella strada mille volte quando insegnava alla vecchia scuola. Claude non la ascoltava mai quando iniziava a parlare della vita lì a Baozhi prima del terremoto dello Yunnan. Le storie di povertà quotidiana erano ormai indigeste per lui, prive di novità o di stimoli che potessero stuzzicare la sua verve giornalistica. E la passiva ostilità degli abitanti del villaggio rendeva quelle cronache quasi fastidiose, come se Daiyu stesse cercando di giustificare in ogni modo la loro arroganza e il loro opportunismo. L'unica cosa che finora aveva salvato Claude era il fatto che quei villici sembrassero più irritati dal grande leader Mao Zedong che da lui. Dopo tutte le storie di fanatismo e devozione verso il presidente sentite, egli era rimasto parecchio sorpreso dall'indifferenza del villaggio verso la retorica del partito comunista. Certo, i miliziani stavano ben attenti a non dar mai l'impressione di mancare di rispetto al leader, ma una volta calata la notte i genitori raccontavano ai figli delle guerre della dinastia Ming e dei miti di Shangri-La. I canti tradizionali risuonavano talvolta dalle aie, echeggiando nel silenzio della valle e penetrando nelle crepe delle pareti a mezzogiorno; la bandiera della Cina, innalzata sull'asta di fronte alla vecchia dimora del capovillaggio, era ormai ridotta a uno straccio dilaniato dal vento e dai monsoni. Nessun membro dell'Esercito Popolare di Liberazione si sarebbe mai avventurato tra quei quattro ruderi sperduti nel nulla, in ogni caso, e l'innominabile sensazione era quella che il paese li avesse abbandonati lì a morire. Evidentemente van Ossenrijk aveva scelto un luogo davvero inusuale dove soggiornare.
Arrivato alla dimora di Daiyu, Claude controllò che nessun membro della milizia avesse frugato tra le carte, cambiò il rullino alla macchina fotografica e preparò in fretta e furia le valigie sotto lo sguardo distaccato della donna. Lei aveva finito le energie, stremata dal nervosismo, e si gettò a letto senza dire una parola. Claude, invece, non riuscì a chiudere occhio per tutta la notte. Ripeté mentalmente le domande dell'intervista, marchiandosele nel cervello e masticando il nervosismo che lo scuoteva all'idea di doverle recitare di fronte a van Ossenrijk in persona. Quando il suo professore di storia gli aveva mostrato quelle foto, al quarto anno di liceo, Claude non era rimasto solo impressionato, ma aveva sentito una vera e propria vocazione farsi strada nel suo cuore. Van Ossenrijk era il motivo per il quale si era fatto giornalista, per cui aveva attraversato quel merdaio del Vietnam insieme ai soldati dell'esercito americano in qualità di fotografo di guerra. Era stato in Cambogia, poi aveva sentito dell'arrivo di van Ossenrijk nello Yunnan e una settimana dopo c'era stato il terremoto. La tempestività di quell'uomo faceva venire i brividi. E ora, dopo quasi sette anni dall'ultima intervista pubblica, egli si era fatto convincere a incontrare qualcuno e svelare qualche segreto, qualche storia recondita che ne alimentasse l'aura mistica. Claude si gettò a letto, ma sapeva che non sarebbe riuscito a dormire. Restò tutto il tempo immerso in una nervosa contemplazione dell'oscurità che permeava la stanza. Un dormiveglia disturbato che lo costrinse a svegliarsi indolenzito, scalciando le lenzuola come un guscio mentre l'alba illuminava le rovine del villaggio. Ecco. L'ora era giunta.

L'alloggio di van Ossenrijk era piuttosto distante dal villaggio. Claude dovette camminare attraverso le risaie verso est e percorrere a piedi un lungo sentiero pietroso che saliva lungo le pendici della vallata. Il terreno era franato in diversi punti ed egli faticò ad attraversare i ghiaioni e i ruscelli che il terremoto aveva deviato con il pesante zaino sulle spalle. La giornata era piuttosto nebbiosa, il che dipingeva un paesaggio grigiastro e nebuloso reminiscente degli shan shui, ma Claude non scattò nemmeno una fotografia. Era troppo distratto dal pensiero dell'intervista per curarsi del panorama, e i suoi occhi restarono fissi sul sentiero finché il profilo del tetto della cascina non apparve dietro le guglie di roccia. Quando si avvicinò all'edificio, ansimando per la lunga ascesa, fu accolto dal remoto tintinnio di campanelle mosse dal vento e dal gorgoglio dei movimenti dei crepacci amplificato dalla conca. Claude trasse un ultimo sospiro profondo, pregustando quell'attimo di quiete. Provò a svuotare la mente in preparazione all'incontro che attendeva da mesi, dopodiché salì i gradini di legno sotto al portico e bussò alla porta.
Una ventina di secondi trascorse prima che il silenzio fosse rotto da un rumore di passi ovattati dalle pareti. I suoni su quel promontorio sembravano diversi, come se l'aria, appesantendoli, li rendesse gelidi miraggi acustici. Presto la maniglia si abbassò, la porta si aprì e il volto di un uomo sulla sessantina apparve oltre la soglia.
«Ah, lei dev'essere il signor Lefévre» disse l'individuo.
«Sì. E lei dev'essere Bastiaan van Ossenrijk» rispose Claude senza trattenere un singulto di eccitazione.
Le labbra dell'uomo si stirarono in un timido sorriso «In carne e ossa» mormorò, poi spalancò la porta e si fece da parte «entri, prego»
Claude esibì un inchino frettoloso e ubbidì. Guardandosi intorno, notò che l'arredamento del soggiorno era piuttosto spoglio. Solo una credenza, un mucchio di libri e delle ceste di vimini riempivano l'innaturale vuoto della stanza, circondando un tavolino e un mucchio di cuscini coperti di aghi di pino. Non era esattamente la casa da visionario che Claude aveva immaginato, ma era naturale dato che quello doveva essere solo un alloggio provvisorio.
«Dovete perdonare il disordine e il freddo. Mi ero dimenticato che avrei avuto degli ospiti e mi piace restare al freddo mentre medito» disse van Ossenrijk, dirigendosi verso la credenza. Ne aprì l'anta, facendo cigolare i giunti, e tirò fuori una bottiglia di scotch artigianale. «Conoscete l'Asubha Bhavana, signor Lefévre?»
«Purtroppo no, non ho familiarità con queste pratiche» rispose Claude, ancora intento a guardarsi intorno.
«È la meditazione sul corpo e sul suo decadimento che praticano i monaci buddhisti. La appresi in un monastero nelle giungle della Meghalaya molti anni fa. Il cuore dell'Asubha Bhavana è immaginare il proprio corpo, parte dopo parte, marcire e decomporsi finché non rimane soltanto polvere. È riflettere sui peggiori orrori dell'esistenza, sul marcio che permea le arterie della vita stessa, finché la completa assimilazione del dolore non si trasforma in illuminazione» van Ossenrijk strascicò i piedi verso la stufa e appiccò fuoco ai tozzi di legno con una candela tibetana, poi si voltò verso Claude e gli rivolse un sorriso malinconico. Claude si sedette sulla seggiola e socchiuse gli occhi per scrutare attentamente van Ossenrijk mentre quello stappava la bottiglia in silenzio. Nonostante l'età, non aveva molte rughe sul viso e la vecchiaia non aveva ancora sbiadito i suoi capelli ricci e disordinati. La sua espressione aveva un che di placido, una pacatezza da maestro di meditazione, ma allo stesso tempo gli angoli della bocca erano piegati in una sorta di sogghigno appena percettibile. I suoi occhi invece brillavano d'astuzia, di quella timida e umile intelligenza che accomuna tutti i genii e li rende subito riconoscibili. Non era molto diverso da come se l'era immaginato, pensò Claude, mentre armeggiava con la macchina fotografica.
«Oh, le chiedo cortesemente di non scattare fotografie del mio volto, se non le dispiace» disse van Ossenrijk.
«Chiedo scusa» Claude per un attimo si sentì mortificato.
«Non fa niente» il vecchio fotografo sorrise e versò il whisky nei due bicchieri polverosi «anche se ho dedicato la mia vita a questa arte, non mi piace esserne il soggetto»
«Posso chiederle il perché?»
«La fotografia diventa arte quando il soggetto non sa di essere fotografato, quando viene catturato con la massima naturalezza in un attimo che può racchiuderne l'essenza. Una vita condensata in un bagliore di luce, imprigionata in una pennellata di sali d'argento... è una riflessione sulla mortalità e su ciò che ci rende umani. Queste sono le uniche fotografie che concederò di me stesso, quelle di cui sarò all'oscuro e non potranno agire da cornice a un epitaffio» rispose van Ossenrijk «e per lei, invece, cos'è la fotografia?»
Claude fece cenno al fotografo di aspettare, estrasse un foglio dallo zaino e si appuntò tutto ciò che aveva detto. Dopodiché si schiarì la gola e si girò a osservare il paesaggio fuori dalla catapecchia.
«Non lo so» disse, corrugando la fronte «dovrei rifletterci per poter rispondere adeguatamente»
«Però lei ha insistito molto per vedermi. Ha studiato le mie foto, ha detto che l'ho ispirata a seguire le mie orme. Quindi deve aver inteso lo spirito che vi si cela dietro, ciò che va oltre la semplice documentazione dei fatti» van Ossenrijk alzò il bicchiere per brindare e Claude fece lo stesso. Il sapore acre del whisky gli scaldò la gola e un brivido gli scosse le vertebre.
«Suppongo di sì. Mentre aspettavo questo giorno ho scattato delle foto giù al villaggio. Ma non sono particolarmente entusiasmanti, non si avvicinano neanche lontanamente alla vostre. Purtroppo non ho avuto molta fortuna»
«Gli uomini audaci non sempre rincorrono la fortuna. Talvolta se la creano da sé» disse van Ossenrijk, le labbra ancora incrinate in quel mezzo sorriso. Claude aggrottò la fronte.
«Come ha detto?»
Van Ossenrijk sospirò «Avanti, procediamo con questa intervista. E beviamo! Fa un freddo cane qua dentro. Come dicono qui: gānbēi!»
Claude levò in alto il bicchiere, bevve di nuovo ed estrasse le domande che aveva battuto a macchina dalla cartella. Le rivolse a van Ossenrijk una alla volta, la voce ancora intirizzita dall'imbarazzo, ed egli rispose con incredibile e costante naturalezza. Sembrava si fosse preparato un discorso per ogni domanda, vista l'assenza di un qualsiasi tentennamento o dubbio. Claude ebbe l'impressione di essere di fronte a un perfetto maestro di vita, a un individuo che aveva imparato a padroneggiare se stesso e il mondo dopo anni a contatto con la realtà più oscura dell'uomo, e presto fu talmente assuefatto dalle parole di van Ossenrijk che smise di prendere appunti. Senza che Claude se ne accorgesse, l'intervista pian piano si trasformò in una conversazione più intima e profonda, e l'imbarazzo si dissolse dopo il quinto bicchiere di whisky. Van Ossenrijk iniziò a raccontare dei suoi viaggi con animo tanto vissuto che le scene d'orrore e violenza umana sembravano materializzarsi nella stanza, evocate dalle sue pacate movenze e dalla sua voce suadente.
«Vede, io sono stato perseguitato dalla censura perché alcune persone non apprezzano essere ricordate di ciò che accade lì fuori, in quello che chiamano il terzo mondo. Lo considerano una violazione, uno stupro dei sensi che li costringerà a passare una notte insonne o a fare i conti con la crudeltà insita nel nostro essere, e alcune persone proprio non possono sopportarlo. Ma poi ci sono persone diverse. Persone come noi, che invece credono nell'arte della cattura, della distillazione della violenza nella pellicola. Senza filtri, senza bisogno di un saggio di accompagnamento, perché l'immagine nella sua potenza sacrilega può parlare da sé. Alcuni ci accusano di curiosità morbosa, di provare piacere col brivido di uno shock, ma cosa c'è di morboso nella realtà? La differenza è proprio questa: non è una fantasia in cui perdersi, un mero escapismo, ma è uno schiaffo agli ideali che la nostra società civile ci inculca nel cranio. Uno scorcio dello stato di natura di Hobbes, del mondo fuori dalla caverna delle ombre, della morte di Dio. È filosofia. È vita, capite. È dolore. Il dolore è il più forte legame che abbiamo tra noi in quanto esseri umani. Assistere al dolore altrui ci rende meno soli, ci ricorda che non siamo gli unici a soffrire. La vita umana non è che una tragedia senza fine dalla quale non si può fuggire. Per questo tanto vale abbandonarsi al dolore come ci si abbandona all'amore, lasciando che ci permei finché non diventiamo parte di esso e lo accettiamo per ciò che è. E dolore e piacere non sono più distinti, perché l'assenza del dolore è piacere, e l'assenza del piacere è dolore. Non molti sanno che uno degli oggetti a cui Bataille, il grande filosofo, teneva di più al mondo era proprio una fotografia scattata qui in Cina, non lontano da questo villaggio. La foto di un uomo condannato al lungo supplizio del Leng Tch'e. Sai di che si tratta?»
«No» borbottò Claude, la mente ormai completamente offuscata dall'alcool e dalle parole dell'uomo.
«Il Leng Tch'e era un metodo di esecuzione che veniva usato nella Cina imperiale, una brutale punizione riservata solo ai peggiori crimini. I francesi la chiamavano "la morte dei mille tagli", perché la vittima veniva uccisa attraverso un lento e paziente calvario durante il quale venivano provocati una miriade di tagli superficiali sulla pelle. Col passare delle ore, il boia rendeva i tagli sempre più profondi, amputava le braccia e le gambe senza mai infliggere una ferita letale, e durante questo infinito supplizio il dolore pian piano si trasformava in qualcos'altro. Bataille credeva che l'espressione dell'uomo della foto, gli occhi rivolti al cielo e la bocca spalancata in un ghigno, non fosse una smorfia di dolore ma un sudario d'intensissima estasi. L'estasi di un uomo il cui dolore fisico è penetrato così in profondità nel suo essere, nel suo animo, da essersi trasformato in piacere. Fortunatamente, questo supplizio è stato bandito cinquanta anni fa e che io sappia non è più stato utilizzato, vista la rinnovata dignità del popolo cinese. Ora sembra quasi una leggenda»
Claude lanciò un'occhiata distratta all'orologio. Fuori si era fatto buio, forse erano passate più di sei o sette ore, ma per qualche ragione egli non riusciva a leggere le lancette. Era come se i numeri gli sfuggissero da sotto gli occhi, sgusciando via e perdendosi in una densa nebbia di pensieri e visioni. Le foto di van Ossenrijk si erano materializzate di fronte ai suoi occhi come un'infezione alla cornea ed egli non riusciva più a levarsele dalla testa. Anche i discorsi comunisti di Daiyu e tutti quegli incomprensibili ideogrammi cinesi continuavano a risuonargli nella mente come ritornelli stonati, al contempo ridicoli e inspiegabilmente terrificanti. Si sentiva molto confuso. Quando van Ossenrijk fece per versargli altro whisky, Claude lo fermò con un gesto brusco e goffo. Un gesto da ubriacone. Ma il fotografo non sembrò offendersi, perché ripose la bottiglia e si sedette compostamente, con eleganza. I suoi angoli della bocca ebbero un tremito.
«Caro Claude, è stato un immenso piacere rispondere alle sue domande e conversare con un mio pari. Finalmente sento di aver avuto l'onore di parlare con qualcuno che mi comprende davvero, che non si approfitta del mio tempo per una formalità ma che invece prova più riverenza per la mia arte che io stesso. In lei rivedo le medesime ambizioni che avevo da giovane, le fondazioni morali che la rendono un vero e proprio artista e non un giornalista qualunque. Per questo motivo la ammiro molto, e lo dico con la massima onestà. Mi chiedevo – e non ho mai rivolto questa proposta a nessuno – mi chiedo se lei volesse conoscere il mio segreto. Non è forse questo uno dei motivi per cui è qui?»
Gli occhi di Claude improvvisamente s'illuminarono «Io...» balbettò il fotografo «io non intendevo...»
«Non deve sentirsi imbarazzato» lo interruppe van Ossenrijk «so che su di me girano molte storie. Patti col diavolo e simili sciocchezze. Ma la realtà è molto più modesta, come forse già immaginava. Le andrebbe di starmi a sentire?»
Claude si strofinò le tempie per cercare di mantenersi lucido e fissò il fotografo negli occhi. La sua espressione era totalmente seria, quasi solenne, e le fiamme all'interno della stufa danzavano proiettando lunghe ombre sul suo viso spigoloso. Improvvisamente, Claude si sentì profondamente inquietato dalla figura di van Ossenrijk. Col calar della sera, l'accogliente luce nei suoi occhi era mutata in un bagliore più intenso, mefitico, e Claude ne era completamente assuefatto. Si sentiva inerme, indifeso, eppure grato di rispecchiarsi anche solo in un minuscolo frammento dell'animo che gli aveva concesso una conversazione sopra quel monte dove le voci echeggiavano per chilometri. Lui era come il passero della Four Pests Campaign, cazzo se era come lui, non poteva comprendere l'enormità dell'impresa che si celava dietro quel palo di metallo che lo trapassava da parte a parte. Per questo le sue labbra si aprirono quasi spontaneamente e sussurrarono un timoroso «sì», forse spronate dalle ultime gocce di ambizione giornalistica rimaste in seguito all'éveil pomeridiano.
«Vedi, Claude» la voce di van Ossenrijk era remota, offuscata «di certo gli ufficiali dell'esercito Kenyota non mi avrebbero lasciato fotografare i loro volti mentre mutilavano uno zeruzeru senza una bella somma di denaro. Abbastanza da garantire una vita agiata al di fuori di un paese così misero. Alcune persone riconoscono subito gli individui a cui non è possibile dire di no, che semplicemente sono sempre un passo avanti a te»
«Non capisco...»
«Non capite?» van Ossenrijk si alzò dal tavolo e si avvicinò alla stufa per osservare le fiamme che ardevano in silenzio «Se aspettassimo che i libri si scrivessero da soli, che la natura edificasse le nostre case in millenni di erosione, ora non saremmo mai arrivati a questo punto. È l'azione dell'uomo a generare l'arte, che sia anche solo spostare una pietra o uccidere un fratello. Si tratta solo di un gioco di prestigio, del grande gioco di prestigio che svela il mondo, perché l'unico modo di svelare il tranello del diavolo è volgergliene uno più arguto»
Le fiamme all'interno della stufa, ora l'unica fonte di luce nella stanza, danzavano senza sosta. Van Ossenrijk non sbatteva le palpebre da diversi minuti ormai, intento a fissarle nell'immobilità più totale. Anche gli occhi di Claude si posarono sulle fiamme, studiandone le aggraziate movenze e le piroette delle scintille che si dissolvevano come lucciole nell'aria. Il fuoco divorava il legno con la propria energia selvaggia, emettendo sbuffi e crepitii che presto risuonarono come un'arcana melodia nell'aria appesantita dall'umidità.
«S'immagini, Claude» disse van Ossenrijk «s'immagini delle fiamme come queste, ma alte fino al cielo, come un sole che illumina la notte nella pellicola. Gli abitanti che si precipitano a guardare, disperati, e si rotolano a terra affinché voi catturiate il loro dolore. Sono piccoli, microscopici di fronte all'immensità delle fiamme che divorano il legno e la paglia, la loro agonia moltiplicata per mille dopo la tragedia del terremoto. L'apice del dolore umano che non potrà essere replicato artificialmente, né ora, né fra mille anni, ma solo immortalato in una fotografia che ne testimonierà la grandezza»
Il fotografo aprì lentamente la stufa, lasciando che il calore delle fiamme baciasse i pori della pelle, e ne estrasse un tozzo di legno bruciacchiato. Alla sua estremità bruciava una fiammella e van Ossenrijk la osservò traballare per qualche secondo prima di chinarsi sopra una delle lanterne poggiate vicino alla credenza e accenderla. La porse quindi a Claude, il volto serio e inespressivo, e restò immerso in un freddo silenzio mentre l'ospite la accoglieva tra le proprie mani.
«Ora vada, Claude. È stato un immenso piacere incontrarla» disse.
Claude annuì, il labbro inferiore tremolante e gli occhi socchiusi nella penombra. Si alzò dalla sedia e ripose con cura i quaderni e la macchina fotografica nello zaino. Fuori dalla cascina non c'era un filo di vento, nemmeno il frinire delle cicale spezzava il silenzio delle montagne dello Yunnan. Claude ridiscese il sentiero in fretta, la lanterna stretta in mano in modo da illuminare i propri passi, e non si voltò indietro una sola volta mentre procedeva barcollando tra i dirupi e ruscelli notturni. Quando arrivò al villaggio era notte fonda. Gli abitanti non avevano ancora spostato le macchine agricole dal sentiero principale e il fango era ancora fresco intorno alle rovine delle fattorie collettive. Solo allora Claude si accorse di quanto freddo facesse e dovette stringersi nel cappotto. I suoi passi affondavano nella fanghiglia emettendo un rumore disgustoso e le sue dita si erano assiderate, ancora strette intorno all'anello di metallo della lanterna. Salì i quattro gradini che portavano all'alloggio di Daiyu, scavalcando il tetto della rimessa crollato durante il terremoto, ed entrò in silenzio.
«L'intervista è andata bene. Van Ossenrijk è una persona straordinaria» disse, fermandosi sulla soglia. La donna non rispose. Era avvinghiata al cuscino, completamente avvolta nelle coperte sporche di terriccio, e stava singhiozzando nel buio. Claude si fece avanti e alzò con delicatezza il lembo della coperta, facendola sussultare, poi poggiò la lanterna sul letto. La glabra schiena di Daiyu era coperta di lividi nerastri, orridi, coaguli di una recente violenza che pulsavano al ritmo dei suoi respiri ansimanti. Claude provò a sfiorarne uno e subito la donna emise un guaito di dolore.
«Hai mai ucciso un passero, Daiyu?»
«Ma che cazzo vuoi, Claude...» singhiozzò lei «mi hai lasciata da sola tutto il pomeriggio e tutta la sera, non dovevamo scappare?»
«Che ti hanno fatto?»
«Nulla» Daiyu provò a divincolarsi e coprire i lividi, ma Claude era seduto sopra le lenzuola e le impediva di coprirsi.
«Ti hanno picchiata» disse il fotografo con voce pacata «ti hanno anche... insomma...»
«No, laggiù non mi hanno toccato» rispose bruscamente lei.
«E chi di loro è stato?»
Daiyu schiuse le labbra, ma riuscì solo a emettere un singhiozzo soffocato. Nascose il viso più in profondità nel cuscino e la sua colonna vertebrale iniziò a palpitare con più forza sotto la pelle emaciata.
«Chi di loro?»
«Non toccherai nessuno di loro nemmeno con un dito, Claude...» mormorò lei, la voce incrinata dai singulti «Ora che la tua intervista di merda è finita puoi fare le valigie e andartene. Non voglio più vedere la tua faccia»
«Ont jeté ma perle aux cochons. Non posso lasciarti così»
«E invece sì. Invece prenderai le tue orrende fotografie e le tue camicie lercie e te ne andrai stanotte. E non rivolgerai mai più un solo pensiero né e me, né a Huang, né a nessuno di noi qui a Baozhi»
«È stato Huang?»
«Falla finita»
«Allora chi? Le tre guardie? Quella faccia di culo coi denti storti che mi ha interrogato?»
«Ho passato cinque anni della mia vita con queste persone. Ho passato cinque anni della mia vita a credere di far parte di una lenta marcia verso l'utopia, verso la conquista della felicità da parte dei miseri. Hanno abbandonato me, hanno abbandonato loro. Patetiche lettere di condoglianze, fotografie delle masse di Beijing in preghiera mentre noi marciamo e soffriamo la fame. E io, stupida, credevo che tu fossi una possibile risposta ai nostri problemi. Ma hai solo peggiorato le cose. Maledico questo terremoto ogni notte e maledico cento volte di più la mia mente per essere così volubile e cedevole»
«Daiyu... hai mai ucciso un passero? Su a Nanchino, prima di essere trasferita qui?»
Daiyu non rispose. Claude ripose la lanterna dietro di sé, illuminando la stanza di luce livida, poi estrasse la macchina fotografica e aprì l'otturatore senza fare il minimo rumore. Scoprì delicatamente l'intero corpo di Daiyu, tirando le lenzuola verso di sé finché non ne svelò le natiche sode, i fianchi graffiati e le gambe madide di sudore. Quindi scattò la foto. Il flash illuminò la stanza di un bianco accecante; Daiyu trasalì e scattò in piedi in un secondo.
«Vaffanculo, Claude! Degenerato del cazzo!» esclamò, spintonandolo via con forza. Claude si nascose la macchina fotografica dietro la schiena, fulmineo, e piantò i piedi per resistere agli spintoni. Quando Daiyu levò il braccio per tirargli uno schiaffo, egli riuscì ad afferrarle il polso e a contorcerlo per spingerla via. Un torrente di insulti in cinese si riversò fuori dalla bocca della donna mentre il fotografo lottava per allontanarla da sé, impedendole di raggiungere l'apparecchio che teneva saldamente dietro di sé. Daiyu provò a dargli pugni sull'avambraccio, a morsicargli i polsi e a sputargli negli occhi, ma Claude s'infilò la macchina fotografica nello zaino e la respinse con una serie di bruschi spintoni fino a farla cadere sul letto.
«Sei un pezzo di merda! Un pervertito schifoso!» sbraitò Daiyu, le lacrime e il muco che le colavano sulle labbra grigiastre.
Claude le rivolse un'ultima occhiata di avvertimento prima di voltarsi lentamente e dirigersi verso l'uscio. La donna aspettò che egli attraversasse la soglia, poi scattò in piedi e si fiondò a chiudere la porta.
«Non farti mai più vedere! Mai più!» riuscì a gridare, la voce ormai completamente stremata dal dolore. Claude la udì chiudere a chiave la porta tra i singhiozzi e si calò il cappuccio sulla testa. Dopodiché sistemò la lanterna, si assicurò che la macchina fotografica fosse ancora a posto e si avviò verso il granaio. Le guardie, forse spaventate dal recente omicidio o forse sazie di violenza dopo aver picchiato Daiyu, non erano in vista. Non c'era alcuna fonte di luce a illuminare le rovine intorno al granaio, né il bagliore di un focolare domestico né la brace di una sigaretta Chunghwa. Solo la lanterna di Claude, un tremolio giallastro che proiettava lunghe ombre sui pilastri crollati e sulle pile di giunche infestate da larve di mosca.
Il granaio era un edificio imponente, con mura a secco alte sette metri e un tetto composto di paglia e assi di legno impregnate di acqua piovana. Spiccava sui ruderi del paese come una chiesa in un villaggio di campagna francese, nonostante l'aspetto rudimentale. Claude sapeva che dentro lì venivano conservate non solo le provviste di Baozhi, ma anche quelle dei paesi vicini di Shanmen, Lishi e di altre zone periferiche che erano state colpite dal terremoto. Si guardò intorno un'ultima volta, assicurandosi che nessuno fosse nei paraggi, poi strinse le dita con forza intorno alla lanterna e trasse un respiro profondo. Doveva agire rapidamente e raggiungere in fretta la collina dietro la capanna del capovillaggio, nonché ricordarsi di spegnere il flash prima di scattare le foto. I villici si sarebbero precipitati fuori in un istante, dato che il loro sonno era leggero. La tempestività era tutto. Claude irrigidì i muscoli e trattenne l'aria nei polmoni ancora per qualche secondo. Poi, con un gesto preciso ed elegante, lanciò la lanterna sopra il tetto.
Le fiamme impiegarono qualche istante ad avviluppare la paglia, ma presto crebbero e divamparono salendo in alto verso il cielo. L'aria si era già arroventata sopra l'edificio e il fumo grigiastro iniziò a tingersi di nero mentre le assi di legno ardevano in un fracasso di crepitii e schiocchi. In una manciata di secondi, il granaio divenne una ciclopica fiaccola, un faro che svettava sulle rovine del villaggio illuminandole di una luce giallastra e infernale. Claude avrebbe dovuto muoversi, invece restò pietrificato al centro della strada. Gli era impossibile distogliere lo sguardo da quello spettacolo, dalla danza sfrenata delle fiamme che ora si levavano maestose nella notte. Le sue dita tremarono, ancora irrigidite dal freddo, mentre egli alzava la macchina fotografica. Il calore delle fiamme e il loro boato stordivano il fotografo, penetrando attraverso la pelle fino a scaldargli le vene e arroventargli i nervi, ed egli sentì la propria ragione evaporare nei fumi di un'allucinata e terribile meraviglia. Tutto era fuoco, tutto era luce e ruggito di fiamma. Claude iniziò freneticamente a scattare fotografie, gli occhi sgranati e le gambe paralizzate come se si fossero fuse col fango della terra. Scattò foto fino a consumare mezzo rullino, imprimendo quelle volute di fuoco bianche sulla pellicola, esplosioni di energia che divoravano giunche, legno e persino la roccia. Quando ebbe finito, riuscì a trovare le energie per smuovere le gambe e voltare la testa per allontanarsi dalla strada. Fu solo allora che lo vide. Una figura indistinta, ferma sulla soglia di una delle capanne. Emaciata, con gli occhi spalancati dal terrore e le costole in rilievo attraverso la pelle livida. Era il bambino che lo aveva accusato dell'omicidio della guardia.
Claude vide la sua bocca aprirsi lentamente, come in un incubo. Gli strilli riempirono l'aria e le luci si accesero nelle capanne. Egli barcollò in avanti, confuso, mentre il tempo sembrava fermarsi. Presto i villici gli furono addosso e lo bloccarono a terra. Il suo viso affondò nel fango ed egli provò senza successo a divincolarsi. Le sue membra erano indolenzite, pesanti come macigni, e le percosse degli abitanti del villaggio iniziarono a formicolare mentre il dolore si propagava nel suo corpo. Bloccato dalla folla, Claude riuscì a malapena a ruotare la testa verso il granaio. Le fiamme erano ciclopiche, più grandi dell'onda di Tanajisagar e dell'elicottero di Silva Diogo. Erano bellissime.

Il boia incise un altro taglio sotto il costato, recidendo i capillari come fibre di erbe palustri, e il sangue provocò il solletico a Claude mentre colava sulla carne martoriata. Era una giornata molto ventosa, il che era strano dato che il giorno prima non c'era stato un filo di vento. L'incendio al granaio era stato spento anche grazie a questo, ma egli non aveva potuto assistere alla scena. Si domandò perché mai quegli zotici se la fossero presa così tanto, visto che i loro edifici erano comunque stati ridotti tutti in rovina dal terremoto e uno in più non faceva la differenza. Si morse le labbra quando una delle guardie lo colpì sul ventre, coagulando i fiotti di sangue che si riversavano fuori dalle sue vene, tra le costole. Le labbra erano l'unico punto rimasto davvero sensibile nel suo corpo, ora che le braccia gli erano state amputate. La folla era rimasta in silenzio durante la mutilazione, il che stonava con l'idea che Claude aveva delle esecuzioni pubbliche, ma quelle dannate guardie nelle loro orride uniformi verdastre sembravano davvero felici di colpirlo nei tessuti molli. Se avesse avuto della saliva in bocca e non fosse stato imbottito di oppio, gli avrebbe sputato dritto nei loro musi gialli. Ma presto avrebbe chiamato l'ambasciata francese, avrebbe detto di rivelare al governo centrale che nel merdoso villaggio di Baozhi predicavano ancora della dinastia Qing, che la procedura standard per i criminali era la fucilazione perché la Cina era un paese civilizzato e moderno. Allora sarebbe stato il suo turno di vestirsi da shìwèi e cantare mentre giustizia veniva compiuta sulla pubblica piazza. Mentre il boia continuava a incidere tagli sulla sua schiena, sui suoi fianchi e sulle gambe, provocandogli un'offuscata scarica di brividi, Claude scrutò i visi della folla. Gli era parso di scorgere il volto di Daiyu prima, seminascosto da uno scialle rosso e inzuppato di lacrime. Ma quando aveva sbattuto le palpebre, quel viso era scomparso. Forse era solo la sua mente che gli giocava brutti scherzi. Un altro taglio all'altezza delle ascelle fece sussultare Claude, che aspirò l'aria attraverso i denti e li sentì stridere alla radice. Quel brivido gli aveva dato una sensazione peculiare, straordinaria. Forse i suoi nervi si erano tanto stremati dal calvario da essersi confusi, forse la sua amigdala era gonfia come un tumore e non distingueva più le percezioni fisiche con chiarezza. Claude respirò profondamente, sentendo i polmoni fischiare mentre l'ossigeno che gli giungeva al cervello si faceva sempre più rado. La sua vista era offuscata, gli arti che gli avevano rimosso si contorcevano in posizioni impossibili, anguille spettrali di carne e sangue. La sua pelle, incrostata di sangue e sudore, era come una crosta di roccia che si staccava a scaglie. Il taglio seguente, all'altezza dei capezzoli già mutilati, fece gemere Claude. Ma non era un gemito di dolore, o almeno non ne era certo. Quando piangevano, i cinesi sembravano ridere, pensò. Era difficile capire la differenza. Daiyu aveva mai ucciso un passero? Il volto di Daiyu non era tra quelli della folle, ma Claude non ne era sicuro. Scandagliò tutti i volti intorno a lui, incrinando il collo a destra e a sinistra con le movenze di un cadavere scosso da scariche elettriche. I suoi occhi si fermarono quando notarono un volto occidentale tra la folla, diverso da tutte quelle facce addolorate. I capelli erano ricci, l'angolo della bocca sollevato e le pupille luccicanti di un bagliore diabolico, pregno di indifferente meraviglia. Claude lo vide sollevare la macchina fotografica e la folla lo lasciò passare. Alzò gli occhi al cielo. Immaginò le fiamme che il giorno prima lo avevano stregato, le immaginò salire fin sopra le montagne e fin sopra le nuvole. La faglia del Fiume Rosso che s'increspava generando montagne e immense crepe che inghiottivano intere città. E quando il boia inflisse un taglio all'altezza dell'inguine, le fiamme divamparono in un orgasmo sfocato ma intensissimo. Che titolo avrebbe potuto avere quello scatto, si domandò Claude. Avrebbe vinto il premio Pulitzer, se lo sentiva. Il titolo ce l'aveva in mente, era l'ultimo pensiero lucido che gli era rimasto mentre la realtà intorno a lui si sfaldava in un asfissiante vortice di piacere e dolore. Estasi in Baozhi.

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