Spiriti della Notte

Spiriti della notte

Avvertenza: il testo contiene elementi forti – autolesionismo e suicidio – che ho cercato di trattare attraverso metafore, ma il significato è comunque esplicito. Se siete sensibili a questi temi consiglio di passare a qualcosa di più leggero e spensierato, perché questa non è una storia felice. (Vi sfido a trovare sul mio profilo una storia che non sia triste -.-)



Non era la prima volta che camminava per la città di notte. Anya pensava che quando si hanno problemi di insonnia, vivere il lato nascosto del luogo in cui si abita potesse tenere molta più compagnia di un film o di un buon libro. Soprattutto, ogni volta le pareva disarmante passeggiare per luoghi che di solito erano pieni delle grida dei turisti e del calore insopportabile del sole che batte sulla pietra. Da quando aveva iniziato a vivere Verona di notte, si era ritrovata a desiderare che le tenebre calassero in fretta e l'alba tardasse ad arrivare.

Usciva ormai tutte le sere, con i pantaloni del pigiama e una maglia sformata nascosta sotto la giacca pesante per contrastare il freddo di fine autunno. Di solito prediligeva sempre lo stesso percorso, camminando da casa fino all'Arena e poi, ancora, arrivando a Castel San Pietro, per godere di tutta la sua città dall'alto. Ma, quella sera, una forza recondita la spinse a cambiare percorso.

Non seppe nemmeno lei il perché, di solito era una persona molto abitudinaria: forse era semplicemente troppo stanca per salire l'infinita scalinata fino al Castello. Le sue gambe, autonomamente, preferirono portarla attraverso via Mazzini: senza turisti e gente mossa dalla frenesia dello shopping sembrava quasi banale, insignificante. La percorse strascicando i piedi sul lastricato di marmo lucido e velato dall'umidità notturna, fino ad arrivare a Piazza delle Erbe. Attraversò il luogo deserto senza staccare gli occhi dal cielo nuvoloso e dopo pochi minuti giunse a Piazza dei Signori, la sua preferita. La statua di Dante, poeta che da sempre amava, svettava là, sotto le stelle nascoste da coltri di smog. Le piaceva compiere un intero giro della fiera figura e sorridere alla sua espressione severa: di solito si predilige la statua di Giulietta in via Cappello, ma, fin dal primo anno in cui aveva iniziato a vivere a Verona, aveva sempre preferito la tranquillità che regna ai piedi del grande poeta italiano. Si lasciò Dante alle spalle, non dopo aver accarezzato il marmo freddo con la punta delle dita, diretta verso l'Adige che scorre lemme e divide la città in due poli di interesse.

Il fluire dell'acqua, sempre uguale e monotono, non l'aveva mai entusiasmata più di tanto. Anche quella notte era più interessata ad attraversare Ponte Pietra per arrivare al negozio di krapfen aperto fino all'alba in zona universitaria, piuttosto che soffermarsi sul passaggio dell'acqua.

Poi, però, lo vide. Eretto come la statua di Dante – una sagoma pallida stagliata contro il cielo plumbeo – se ne stava in piedi sul parapetto, con il mento abbassato sul torace come in contemplazione dell'Adige sotto di lui. Si fermò prima di mettere piede sul ponte, insicura sulla mossa da fare. Se si fosse avvicinata avrebbe di sicuro spaventato l'uomo, a cui sarebbe bastato il minimo movimento per scivolare verso l'acqua. D'altro canto, se avesse fatto dietro front avrebbe convissuto per sempre con il rimorso e con il dubbio. Sospettava, infatti, che non fosse solo in contemplazione dell'acqua impetuosa del fiume. Forse avrebbe semplicemente dovuto chiamare il 118 e lasciare che fossero loro a gestire la situazione dicendole cosa fare, ma l'urgenza di vedere l'uomo al sicuro ebbe la meglio.

Cercò di arrestare il tremolio delle mani dovuto all'agitazione e attraversò la strada, per trovarsi sullo stesso lato dell'uomo. Iniziò poi ad avvicinarsi cautamente, cercando di fargli percepire la sua presenza.

L'uomo si accorse di lei quando Anya arrivò ai suoi piedi. Il suo sguardo si distolse subito dalle acque scure per passare fulmineo a quello della ragazza. Anya non poté non notare i vuoti occhi scuri, cerchiati da profonde occhiaie e appesantiti dalla barba incolta. Sotto la sua trasandatezza, accentuata dal cappotto sgualcito e dai capelli disordinati, la ragazza si rese conto di quanto fosse giovane. Potevano anche avere la stessa età, per quanto ne sapesse.

Si riscosse, cacciando con un movimento delle spalle un brivido di freddo che l'aveva artigliata.

«La notte è silenziosa» disse cauta, appoggiando la base della schiena al parapetto e lasciando vagare lo sguardo verso Castel San Pietro, alla sua destra.

Il ragazzo non ripose, così Anya alzò gli occhi su di lui. La stava guardando scioccato, quasi sorpreso che la sua solitudine fosse stata interrotta da un'altra presenza.

«Mi piace girovagare di notte, senza dovermi irritare perché le mandrie di turisti mi ostacolano la via. Di solito non incontro nessuno» continuò la ragazza, regalandogli un sorriso.

«Nemmeno io» le rispose dopo quella che parve un'eternità.

Anya sospirò, staccando la schiena dal suo sostegno e slacciandosi il giubbotto. Lo lasciò scivolare sulle braccia nude, ripiegandolo e appoggiandolo con cura a terra. Lui non disse nulla, ma continuò a guardarla in modo interrogativo. Non riusciva a spiegarsi cosa ci facesse lì una ragazza dai corti capelli scompigliati, vestita come se avesse appena abbandonato il calore del letto per prediligere i brividi del vento autunnale.

Quando Anya finì di riporre il cappotto, posò i palmi aperti sul parapetto e poi fece forza con le mani, sollevandosi fino ad appoggiare le ginocchia sulla pietra. Rimasi per un attimo in quella posizione, ricercando l'equilibrio, ma alla fine parve ripensarci e allungò una mano nella direzione del ragazzo.

«Mi aiuti? Non sono mai stata una brava funambola.»

Esitante, il ragazzo si abbassò verso Anya e le prese la mano. Le loro dita si intrecciarono con un movimento così naturale che sorprese entrambi. Anche lui aveva il palmo sudato, ma il gelo trasmesso dalla sua pelle non passò inosservato a Anya. Il ragazzo tirò leggermente e le permise di mettersi in piedi al suo fianco.

L'altezza non le era mai piaciuta, soprattutto se sotto ai piedi non c'era niente. Quando era andata sulla Tour Eiffel, qualche anno prima, aveva tenuto gli occhi chiusi tutto il tempo. E in quel momento era lì, a metà tra cielo e terra, su un ponte sospeso sopra l'Adige.

«Perché il cappotto?» le chiese il ragazzo, lasciando la sua mano e indicando con un cenno del mento il tessuto piegato ai loro piedi.

«Te l'ho detto, non sono una brava funambola» ripeté lei, stringendosi le braccia al corpo. Indicò con un dito l'acqua sotto di loro. «Se dovessi cadere, mi dispiacerebbe rovinarlo. È un regalo, presumo costoso, meglio lasciarlo al sicuro.»

Lo guardò annuire e poi spostare lo sguardo di fronte a lui. «Tu cos'hai lasciato al sicuro?» continuò, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni.

Il ragazzo si voltò di nuovo verso di lei, le sopracciglia sollevate e la bocca leggermente socchiusa.

«Non ho niente di prezioso.»

Anya scoppiò a ridere, scuotendo la testa: «Impossibile. Niente animali? Film preferiti, libri lasciati a metà?»

Lui alzò le spalle, noncurante: «Cose superficiali.»

«Le storie non sono superficiali, magari lo possono essere i libri in sé, o i DVD. Ma le storie sono quanto di più profondo l'Uomo abbia» lo rimproverò severa, eliminando ogni traccia di ilarità dalla voce.

«Non dirmi che sei una scrittrice» fu il commento del ragazzo, che usò un tono quasi sprezzante.

Fu il turno di Anya di alzare le spalle. «Non lo sono. Vorrei esserlo, ma adesso è troppo tardi.»

«Ma scrivi.»

«Tutti lo facciamo, chi su carta e chi nella propria mente. Non dirmi che non ti sei mai perso a fantasticare su qualcosa.»

Il ragazzo non rispose e Anya si accorse che era tornato a fissare l'acqua. Evitò di seguire il suo sguardo, temendo che la paura avrebbe potuto farle perdere l'equilibrio.

«Le mie storie non sono mai a lieto fine» confessò il ragazzo, rompendo il silenzio.

«Non importa, nemmeno le mie. Ma servono proprio a questo.»

«A cosa?» le chiese, forse incuriosito dalla sua parlantina.

«A vivere esperienze che ci spaventano, senza rischiare niente. A crescere, a sperimentare emozioni negative per forgiarci e capire come affrontarle quando si presenteranno nel mondo reale.»

Il ragazzo sospirò pesantemente, forse stanco di una presenza non richiesta. Forse stanco della vita.

«Non ti conosco» disse alla fine.

«Oh, nemmeno io. Stavo solo passando di qui e ho voluto provare a vedere il mondo dalla tua prospettiva.»

«E cosa vedi?»

Anya ci pensò un attimo, prima di rispondere: «La mia città, piena di fantasmi. Vedo la notte quieta al posto del sole opprimente, il vuoto lasciato dall'assenza delle persone. Vedo il buio illuminato da stelle artificiali, che brillano alle finestre di chi non riesce a dormire. Sento il mormorio del fiume che di solito è sormontato dalla frenesia quotidiana. Percepisco l'odore leggero del pane appena sfornato e di brioche friabili, tipico solo di queste ore di transizione tra notte e mattino.» Si interruppe per lanciargli una fugace occhiata, accertandosi che la stesse ancora ascoltando. «Vedo tutti i problemi che mi affliggono di giorno sfumare verso le tonalità impalpabili della notte. Ci sono ancora, solo che li guardo da un'altra prospettiva.»

Il silenzio calò nuovamente tra di loro, fino a che la ragazza non decise di assicurarsi che l'altro fosse ancora lì. Quando Anya si accorse che cosa il ragazzo stesse osservando, era ormai troppo tardi. I suoi occhi vuoti erano incollati lì, sulle braccia di lei lasciate scoperte dalla maglietta a mezze maniche. A nulla serviva lo scudo che si era creata incrociandole sul petto, perché in quel momento niente gli avrebbe impedito di scorgere le profonde cicatrici che, dopo anni, ancora non si erano completamente rimarginate.

«Perché l'hai fatto?» le chiese, in un sussurro così leggero che Anya parve percepirlo a stento.

«Perché pensavo di avere tutte le ragioni per farlo» rispose evasiva, cercando di nascondere le braccia stringendole ancora di più sotto il seno.

Il ragazzo non si fece prendere da compassione, ma con un gesto autoritario le sfilò una mano dall'intreccio di carne che avevo creato e se la portò davanti agli occhi. Ammirò la linea frastagliata che decorava il ventre del polso della ragazza quasi come se si fosse trovato di fronte a un'opera d'arte. Il suo pollice sfiorò gentilmente la pelle di Anya, quasi in una carezza di comprensione.

«Ma ora sei qui» commentò alla fine. «Chi ti ha salvata?»

Anya decise di riprendere possesso del suo braccio. «Mi ha salvata un ricordo.»

«Che ricordo?»

«Un ricordo felice. Il primo» lo informò, guardando il cielo con un sorriso spontaneo. «Eravamo io e mio padre, alle prese con una bicicletta rossa. Lui insisteva che era arrivato il momento di togliere le rotelle, ma io avevo troppa paura. Alla fine lo fece senza che me ne accorgessi. Presi la bicicletta e, sorretta dalla sua mano sulla schiena, iniziai a pedalare. Stavo andando bene, fino a che non mi accorsi che né lui, né le rotelle mi stavano più sostenendo.»

«E cadesti» indovinò lui.

Anya annuì. «Sì, caddi come un sacco di patate, sbucciandomi le ginocchia e i gomiti. Ma mio padre era lì, proprio dietro di me, pronto a porgermi la mano. Mi disse che ce l'avevo fatta, che avevo superato la sfida.»

Il ragazzo parve perplesso e aggrottò le sopracciglia, prima di dire: «Ma eri caduta.»

«Feci notare la stessa cosa a mio padre e lui rispose: "Era proprio questa la sfida: cadere e constatare che il terreno non è poi così duro. Ti sei fatta dei graffi, ma li possiamo medicare. Spesso quello che ci spaventa di più è molto meno peggio di quel che pensiamo". Mi disse che da quel momento avrei avuto meno paura di cadere e che, se anche fosse successo, qualcuno mi avrebbe sempre allungato una mano.»

«È un uomo saggio» constatò lui.

«Lo era. Mi ha insegnato a non avere paura di vivere e, quando sono caduta per la seconda volta, lui era lì per porgermi la mano. Come ha sempre fatto. Nonostante tutto.»

Senza aggiungere altro, Anya allungò la sua mano verso quella del ragazzo. «Mi aiuteresti a scendere? Il mio equilibrio richiede un po' d'aiuto e mi iniziano a far male le gambe.»

Il ragazzo la guardò assottigliando gli occhi, per poi lasciare vagare lo sguardo sulla mano che lei gli stava porgendo. Le dita pallide e sottili, il polso delicato e decorato da quella linea in rilievo, le vene verdastre visibili sotto la pelle quasi traslucida.

Sapeva che la sua pelle era ghiacciata, aveva già avuto occasione di assaporare il gelo che emanava quando l'aveva aiutata a salire lì sopra. Ma ora lei gliela porgeva, quasi fosse un tacito invito ad afferrarla e a tenersi stretto ad essa. Lo fece.

La aiutò ad abbassarsi, così che potesse sedersi sul parapetto, e anche lui imitò i movimenti della ragazza fino a che i loro fianchi non si sfiorarono. Due presenze silenziose nella notte scossa solo dai loro respiri. Anya lasciò volteggiare le gambe nel vuoto, non più troppo spaventata dall'altezza. Le loro mani, in tutto ciò, erano ancora intrecciate. Anya lo teneva per paura che si lasciasse scivolare via, lui la stringeva per paura dei suoi stessi pensieri.

«Sta arrivando l'alba, è quasi ora di andare» sussurrò la ragazza, lo sguardo rivolto al cielo infinito che si dipingeva sopra le loro teste.

«Sì, è quasi ora.» Senza aspettare risposta, il ragazzo strinse la presa sulla mano di Anya, prima di voltarsi e riportare i piedi sul ponte. Aiutò la ragazza a scendere dal parapetto e le porse il cappotto.

«Tieniti stretta le cose preziose» le ricordò, con un accenno di sorriso.

«Tieniti stretti i ricordi felici» rispose lei, allacciandosi il cappotto e godendo del calore datole dal tessuto pesante. Nessuno dei due si mosse per alcuni secondi, gli occhi intrecciati quasi avessero potuto scorgere l'uno l'anima dell'altra. Anya fu colta da un brivido che non era dovuto al freddo: le parve di riconoscere qualcosa in quello sguardo scuro che non si toglieva dal suo, aveva come la sensazione di averlo già incontrato, in un tempo lontano. Non poteva sapere che il ragazzo, perso negli occhi dalle tonalità marine di lei, stava avendo una sensazione simile.

La magia si spezzò quando un timido raggio di sole colpì i loro visi. La luce rosea dell'alba riportò entrambi su Ponte Pietra, due sconosciuti che avevano condiviso un pezzetto di notte. Era ora di tornare a casa.

Anya lo salutò con un sorriso, lasciandosi alle spalle gli occhi scuri del ragazzo che non abbandonarono la figura di lei fino a quando questa si perse nell'ombra dei palazzi.

Anya percorse gli ultimi metri prima di rientrare nella casa ancora oscurata dagli ultimi rimasugli della notte. Si sfilò il cappotto, stringendolo a sé e poggiando una guancia sul tessuto morbido. Inspirò l'odore dell'oscurità che si era ancorato al capo, percepì la sentenza melmosa del fiume e le note corpose dell'umidità. Si diresse in bagno, dove una vasca di acqua bollente non aspettava altro che avvolgerla nelle sue spire per riempirla di calore.

Posò il cappotto su uno sgabello a fianco del lavandino, avendo cura di non farlo cadere sul pavimento. Glielo aveva regalato suo padre poco prima di morire e Anya aveva sempre pensato che stringersi addosso la lana del capo le ricordava un po' la sensazione di trovarsi tra le braccia paterne. Era il suo ricordo più prezioso e l'avrebbe accompagnata per l'eternità.

Infilò prima una gamba e poi l'altra nell'acqua.

Non si chiese perché il bagno fosse già pronto.

Non si chiese perché ai piedi non calzasse scarpe.

Non si chiese perché il suo corpo non producesse un'ombra, sotto i primi raggi del sole.

I vestiti furono i primi a impregnarsi, attaccandosi alla sua pelle come se fossero stati una parte di lei. I pantaloni si scurirono, passando dal lilla al viola intenso, e la maglietta diventò pesante, gravandole sulle spalle, sull'addome, sul cuore. Si immerse completamente nel caldo abbraccio dell'acqua, sforzandosi di tenere gli occhi aperti per osservare la realtà attraverso la superficie increspata e cristallina. Senza rendersene conto, stava dimenticando ancora una volta tutto quello che era accaduto durante la notte e tornò – con la mente e con il corpo – a un momento preciso della sua vita.

Riemerse solo quando il fiato iniziò a mancarle, decisa a ripetere di nuovo quello che doveva fare prima che il sole sorgesse del tutto. Si sporse alla sua destra con movimenti meccanici, fino a che le dita non entrarono in contatto con il cappotto e si infilarono nella tasca sinistra. Sfiorò il tessuto pesante e poi estrasse l'artefice del suo destino. Con gesti guidati da un'abitudine ormai insita in lei, anche quella notte non ebbe tentennamenti nell'accarezzare con il metallo sottile le vene che scorrevano sotto la sua pelle diafana.

Anya non sapeva che, mentre l'acqua si riempiva ancora una volta della sua scarlatta linfa vitale, poco lontano da lei un ragazzo senza nome si lasciava scivolare in un altro abbraccio, quello dell'acqua fredda dell'Adige.

Ma si sarebbero rincontrati, come tutte le notti, mentre i loro spiriti vagavano irrequieti per le vie della loro città, in cerca di consolazione e di una redenzione che non avrebbero mai trovato.







NdF Aaaah, queste note di spiegazione sempre più lunghe del testo in sé: scusate. Una mattina stavo andando a lezione, per la strada non c'era nessuno e mi sono ritrovata a chiedermi cosa avrei fatto se, malauguratamente, avessi visto qualcuno sporgersi troppo dal parapetto di Ponte Aleardi (lo so, la mia mente fa sempre pensieri felici). Non sono riuscita a tenere le dita ferme e, una volta arrivata in Università, ho iniziato a scrivere questa storia. All'inizio pensavo che i due protagonisti fossero normali persone e il finale prevedeva una scorpacciata di krapfen, ma poi come al solito ho iniziato a notare che senza volerlo avevo messo nel testo degli indizi (vi sfido a trovarli!) che hanno sorpreso me per prima: Anya e il ragazzo non devono sfuggire al suicidio, perché sono già fantasmi e ogni nuovo giorno, all'alba, rivivono la loro morte dimenticando di aver vagato per tutta notte. Ditemi che lo avevate capito >.<

(P.S. quando Anya dice di essere caduta la seconda volta e che il padre era lì per porgerle la mano non mente, perché il padre – già morto – c'era, anche se sotto forma di spirito: questo è l'unico pezzo che potrebbe non essere compreso.)

Curiosità Il nome della protagonista, Anya, ha diverse etimologie: dal greco "risorta", dall'ebraico "Dio ha avuto misericordia" e dal popolo Hopi degli indiani d'America Hania significa, appunto, "spirito".

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