Das Erhabene

Das Erhabene*

"La sottile patina di nebbia, uno strato di molecole d'acqua sospese a mezz'aria, si estendeva davanti ai miei occhi, protendendosi fino a sfiorare le pendici dell'infinito.

Eravamo di nuovo lì, io e il vasto orizzonte che si apriva di fronte a me.

Come sempre, era uguale e diverso dalla volta precedente: sapevo di trovarmi ancora in quella Dimensione, ma mi sembrava completamente dissimile rispetto all'ultimo paesaggio in cui ero stata catapultata.

Non c'era più quell'aria lugubre e piangente; mancavano quegli alberi spezzati e graffianti; erano assenti i ruderi, che testimoniavano l'antico splendore di una cattedrale.

In quel momento c'erano solo il bianco e gli amari scogli che tentavano di fenderlo con la loro scura presenza."

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Osservo meglio il suolo, quasi invisibile sotto le coltri di nebbia. Eppure, sono certa che i miei piedi poggino su qualcosa di solido, così sollevo le lunghe gonne e inizio a camminare alla cieca, diretta verso una destinazione a me ignota.

So che funziona così: mi sveglio ogni volta in un luogo diverso e poi non devo fare altro che aspettare e pazientare, in attesa che accada qualcosa.

Mi guardo attorno, per capire cosa possa fare nell'attesa, e sulla mia sinistra intravedo un intersecato insieme di rocce che, con i loro angoli smussati, creano una costruzione a scala. Se voglio capire dove io sia finita, forse dovrei osservare l'ambiente dall'alto. Mi dirigo a passo misurato verso i massi, attenta a non inciampare nel tessuto pesante. Una volta mi è accaduto, di ferirmi durante una fuga. Erano orchi, o troll, non ricordo bene. Mi ero procurata un taglio zigzagato, di quelli dai margini irregolari e spaventosi: non avevo lasciato la ferita in questa Dimensione, come mi aspettavo, ma essa aveva viaggiato con me, accompagnandomi per oltre un mese. Dio solo sa quanto David mi abbia assistita, durante quei giorni di agonia. Da allora, presto attenzione a ogni singolo dettaglio, curandomi di essere quanto più prudente la situazione mi consenta.

In questo caso, scalare un'accozzaglia di rocce non mi pare un problema: l'ho fatto altre volte e la loro conformazione quasi regolare permette un'ascesa facilitata. Prima di procedere, decido di semplificarmi il compito: individuo, sul terreno compatto, un frammento di pietra abbastanza acuminato e, con un movimento deciso, recido di alcune spanne il primo strato della gonna di velluto cobalto, per poi passare alle sottovesti in cotone. Finito il lavoro, abbandono il tessuto in eccesso e mi appresto a posizionare le mani sulla parete porosa e umida. I palmi si ricoprono di un leggero strato di condensa, ma non vi presto attenzione, mentre con le braccia faccio leva verso l'alto e appoggio la punta del piede destro su un'escrescenza della roccia. Mi concedo alcuni attimi per valutare la situazione, decidendo mentalmente il percorso che dovrò seguire, poi inizio la mia scalata verso la cima.

Impiego qualche tempo, prima di riuscire ad allungare una mano sulla sommità: quando le dita non trovano più appigli, capisco di essere arrivata. Getto le braccia sulla roccia pianeggiante e, con un ultimo sforzo, trascino anche il mio corpo oltre la parete scoscesa. Gioisco internamente per avercela fatta, prima di rialzarmi e osservare dall'alto ciò che mi circonda, restandone delusa subito dopo.

É un mare di nebbia. Un infinito, diafano e impalpabile sciabordio di aria, che lambisce le rocce e la mia vista, senza permettere allo sguardo di penetrare attraverso il suo colore lattiginoso.

Cerco di riportare alla mente un panorama affine, visitato in un viaggio precedente, ma niente riesce ad associarsi a questa spaventosa estensione di nulla.

Faccio due passi avanti, sporgendo le punte dei piedi oltre il limitare della rupe. Se morissi, cosa accadrebbe al mio corpo? La mia mente vivrebbe eternamente in questa Dimensione?

Non faccio in tempo a elaborare una risposta plausibile, perché i miei occhi intercettano un movimento repentino. É facile scovare anche il più piccolo dettaglio fuori posto, in questo universo pallido e anestetico. Faccio due passi indietro, ritornando stabile e al sicuro, lontana dal vuoto, e individuo senza problemi l'oggetto che, navigando nel vapore aereo, si dirige proprio nella mia direzione. É un'ombra scura e leggiadra, quasi fosse parte della nebbia stessa.

La sua velocità è sorprendente e in meno tempo di quanto mi potessi aspettare raggiunge la mia posizione. É un volatile, un animale dell'aria che si libra senza peso. E, inaspettatamente, punta in picchiata proprio su di me: mi abbasso un secondo prima che le sue ali mi sfiorino i capelli, salvandomi dalla collisione con il suo enorme corpo. Mi rialzo in fretta, curiosa di osservare da vicino lo strano animale, così diverso da qualsiasi essere io abbia mai visto. Il suo corpo è massiccio, ricoperto da una folta e scura peluria, e oltre alle ali piumate quattro zampe leonine fendono l'aria, seguite da una coda folta e scura, simile a quella di un lupo; il muso, dalle forme mostruose e contorte, somiglia a quello dei gargoyle di guardia ad alcune chiese gotiche, immobili nella loro maestosità. L'unica differenza è che questo non sta bloccato su un cornicione, in attesa della pioggia scrosciante e del sole che lo inaridirà, ma si destreggia in ampi cerchi sopra di me, quasi fosse in procinto di puntare di nuovo la sua preda.

Senza che abbia avuto il tempo di capire quello che ho di fronte agli occhi, il mostro emette un suono penetrante, baritonale e intermittente, che mi penetra nelle orecchie fino a far riverberare le ossa. Mi copro la testa con le mani, accucciandomi di nuovo a terra e proteggendomi come meglio posso. L'animale si lancia in picchiata, ma prima che possa anche solo sfiorarmi un altro corpo - sottile e veloce - squarcia l'aria. L'urlo della bestia viene interrotto a metà, sostituito dal suono del vento che si sposta fino a insinuarsi tra le mie braccia, ferendomi viso e occhi. Scosto le mani dal capo, per capire cosa stia succedendo: tutto ciò che vedo è la massa enorme del mostro che precipita verso il basso, attratto dalla forza di gravità che non può più contrastare a causa delle sue ali ormai inermi. Mi sporgo precipitosamente sul bordo della roccia, cercando di seguire con lo sguardo il corpo del mostro che, fendendo la nebbia, ha liberato la visuale sul suolo sottostante. Il volatile, dopo qualche altro secondo di caduta libera, si abbatte sulla terra, sollevando vortici di polvere e nebbia tutto intorno a lui. Resto ancora qualche secondo incantata a osservare la creatura, poi mi ridesto e inizio a scendere dall'altura, per raggiungere nuovamente il terreno e allontanarmi da altri possibili pericoli.

In poco tempo, ritorno con i piedi per terra e con il respiro pesante a gonfiarmi i polmoni. Pulisco le mani sul tessuto morbido della gonna, indecisa sul da farsi: e se non fosse morto? Vorrei avvicinarmi all'animale, per cercare di vederlo da vicino, ma temo che possa risvegliarsi da un momento all'altro.

"Non ti muovere" mi ordina una voce, proveniente da un luogo alle mie spalle.

D'istinto alzo le braccia sopra la testa, così da dimostrare che non sono armata.

"Non avvicinarti a quella carcassa" continua. Cerco di stabilire se la voce appartenga a un uomo o a una donna, ma il suono è ovattato e mi è impossibile identificarne la fonte.

Trattengo il respiro per la tensione e abbasso piano le mani, girandomi con cautela sulla mia destra. Con la coda dell'occhio individuo una sagoma umana posta in posizione di attacco: un piede è leggermente più avanti dell'altro e un braccio è allungato verso di me, mentre la corda di un arco è tesa grazie alla presa salda della mano destra. Metà del suo viso è coperto da un tessuto sottile e chiaro, ma riesco a identificare gli occhi violacei e i lineamenti eleganti di una ragazza.

"Non mi avvicino" la rassicuro, sostenendo il suo sguardo. Riconosco i suoi occhi, o per lo meno ne riconosco il colore. La ragazza rimane ancora per qualche secondo in posizione, poi con uno scatto fulmineo abbassa l'arco e si scosta il tessuto dal volto, avvicinandosi a me con tre falcate.

"Santo Cielo, Caroline! Stavo per ucciderti!" esclama, posizionando l'arco sulla spalla sinistra e afferrandomi un gomito. Ora che la mia attenzione non è catturata dalla punta acuminata della freccia che minacciava di trapassarmi da parte a parte, noto che è vestita completamente di bianco: molti tessuti leggeri si avvolgono intorno al suo corpo, che si confonde in questo modo con la nebbia che ci circonda.

Confusa, mi allontano da lei staccando il braccio dalla sua presa: mi ha appena puntato un arco addosso, di sicuro non mi metterò a chiacchierare offrendole del tè come fosse una vecchia conoscente.

"Non mi sembra il modo migliore per accogliere una ragazza spaventata" la rimprovero, rassettandomi i resti della gonna. Rispetto a lei sembro una naufraga appena salvata dopo tre mesi di stenti, nonostante i suoi vestiti siano decisamente più stropicciati dei miei.

"Una ragazza spaventata" ripete, ridacchiando mentre mi supera. Si avvicina cauta all'animale, controllandolo da ogni direzione e infine toccando con la punta di un piede la massa accasciata nella nebbia. Accertatasi che sia definitivamente morto, mi fa cenno con la mano, ordinandomi tacitamente di avvicinarmi a lei.

"Dobbiamo andarcene, presto ne arriveranno altri attirati da questo qui" mi spiega, accompagnando le sue parole con un calcio ben assestato a una zampa leonina. Con facilità, si sporge sul manto scuro dell'animale e, inserendo un braccio tra le sue ali, strappa la freccia che si era infilata esattamente tra le scapole, penetrando presumibilmente fino a raggiungere il cuore.

"Io non vado da nessuna parte!" annuncio, incrociando le braccia e facendo due passi indietro, giusto per ribadire la mia posizione. La ragazza ridacchia di nuovo, pulendo la freccia sporca di una sostanza blu notte sulla pelliccia del mostro per poi posizionarla nella faretra.

"Ti chiami Caroline, giusto?" Annuisco, guardandola con curiosità per riuscire a capire se io conosca o meno lei. "Be', dovresti riconoscere i miei occhi. Sono sempre io, solo che mi hai dato un corpo diverso. Non so come fartelo entrare in quella tua testolina, ogni volta la stessa storia!" si lamenta, mentre lancia un ultimo sguardo rassegnato all'animale disteso a terra e poi a me.

"Ogni volta?" le chiedo, slacciando le braccia da sotto il petto e alzando le sopracciglia.

"Ogni volta, esatto. Mi hai detto che per convincerti devo solo parlarti di David e di quel posto dove ti porta sempre, Rüvan, o qualcosa del genere" mi spiega, muovendo una mano davanti al suo viso come se fossero argomenti di poca importanza.

"Rügen," la correggo, "le scogliere di Rügen."

Corrugo le sopracciglia, interdetta: non racconto a chiunque di me e David, né di tutto il tempo che mi costringe a passare sotto il vento freddo dell'isola. Forse questa ragazza dagli occhi viola sa davvero chi sono, se è a conoscenza di questi dettagli.

"Esatto, quello. Di solito impieghi meno a ricordare, questo posto deve averti sconvolta più degli altri."

Nel frattempo, ha iniziato a incamminarsi nella nebbia e, prima che la perda di vista, mi affretto a raggiungerla.

"C'è un'altra cosa che posso dirti, per conquistarmi la tua fiducia" mi confessa, non appena riesco ad affiancarla. Sembra conoscere a memoria ogni centimetro di questo luogo: mi ferma prima che possa inciampare su un masso, mi attira verso di lei giusto in tempo per evitarmi uno schianto e mi suggerisce di spostarmi al suo fianco per non cadere in un burrone. Tutto ciò, prima che possa chiederle che cosa intenda.

"Il tuo cognome" dice dopo che mi ha assicurata al suo fianco tenendomi per un braccio. Mi volto verso di lei, con le sopracciglia corrugate.

"Tutti conoscono il mio cognome" le faccio notare. La ragazza scuote la testa, come se si fosse aspettata questa risposta.

"No, sciocchina, il tuo cognome da nubile." Rimugino sulle sue parole: in pochi mi conoscono con il cognome di mio padre, soprattutto data la sua poca rilevanza nei circoli che frequento ora. "È Bommer, vero?"

Vero. Alla fine, non posso che credere alle sue parole. Dei viaggi precedenti ho ricordi velati, o almeno lo sono fino a che sto da questa parte: so che in un atro Mondo, quello reale, ricordo ogni dettaglio, fin nel minimo particolare.

"Cos'era quella cosa?" le chiedo, dopo troppo silenzio.

"Quale cosa?"

"Il... l'animale. Che hai ucciso."

La ragazza alza le spalle, quasi colpire a morte leoni-alati fosse per lei una quotidianità: "Non ne ho idea, l'hai creato tu."

"Io?" chiedo, basita: com'è possibile che abbia dato vita a una simile creatura?

"Be', sì, tu. Tutto qui è frutto della tua mente. Io, semplicemente, ci vivo e mi adatto" mi liquida lei, guardandosi intorno per cercare una via.

"Com'è possibile?" domando, più a me stessa che alla ragazza.

"Non ne ho idea" mi risponde comunque. "È come se fossi sempre vissuta qui, sai? E, contemporaneamente, ricordo tutti i Mondi delle mie vite passate: semplicemente, un giorno mi sveglio e sono in una realtà del tutto diversa, con un corpo diverso e nemici diversi. So solo che devo sopravvivere e, ogni tanto, arrivi a farmi visita."

"Dimensioni" sussurro, fermandomi in mezzo alla nebbia bianca. Sembriamo galleggiare sopra la superficie lattiginosa, quasi non avessimo i piedi.

"Cosa?" mi chiede, voltandosi verso di me e fermandosi a sua volta.

"Dimensioni, non Mondi," ripeto, "Io e David le chiamiamo così."

La ragazza alza di nuovo le spalle, non curante. "Come vuoi. Da questa parte."

Sospirando, la seguo. L'istinto mi dice di fidarmi di lei: la sua voce, le sue movenze e soprattutto i suoi occhi sono così familiari da far male. È la stessa sensazine di avere una parola sulla punta della lingua e non riuscire a pronunciarla: è come se fosse una parte di me e io l'avessi dimenticata. Nel frattempo, la ragazza mi indica una roccia a cui aggrapparmi; a quanto pare, dovremo scalare un'altra parete scoscesa. Provo a ignorare la nebbia per constatare quanto sia elevata l'altura, ma questa fastidiosa luce che riverbera in ogni direzione mi ostruisce la vista. Decido di dar retta alla ragazza e, con un profondo sospiro, comincio una nuova scalata verso l'alto, accompagnata dal leggero timore di incontrare nuovamente un leone-volante.

Una volta raggiunta la cima, mi accerto di essere stabile sulla roccia nuda, per poi osservare il panorama di fronte a noi: è immutato, rispetto a prima. Sta diventando noioso, tutto questo bianco. Lascio vagare lo sguardo verso l'orizzonte, per accertarmi che non ci siano animali da cui mettersi al riparo.

"Cosa succede ora?" le chiedo, quando anche lei mi raggiunge.

"Ti aiuto a tornare a casa."

Mi volto per guardarla in viso, con l'intento di capire se mi stia prendendo in giro o meno. Mi fissa tranquilla, con un leggero sorriso a decorarle le labbra e gli occhi socchiusi per schermarli dalla luce bianca.

"A casa? E come?"

La ragazza allunga una mano nella mia direzione, continuando a mantenere il leggero sorriso sul volto. Sembra far parte della nebbia stessa, con i tessuti sottili che svolazzano intorno alla sua figura, quasi fosse un tutt'uno con il paesaggio. Mi prendo un attimo per osservare i neri spuntoni che, con la loro imponenza, riescono a squarciare il velo bianco, creandosi uno spiraglio verso il cielo e rendendosi accessibili alla nostra vista. La contrapposizione tra i due colori, il primo così impalpabile e il secondo così scuro e arrogante, creano un connubio sublime e giusto, come se non potessero essere accostati in maniera diversa.

"Devi saltare."

Sento giungere queste parole alle mie orecchie e, prima che possa assimilarle, il mio copro agisce per me: mi sposto velocemente dalla ragazza, quasi temessi che da un momento all'altro mi possa spingere di sotto.

"Sei impazzita?! Morirei!" le faccio notare, allungando una mano a indicare il vuoto che ci circonda.

"Senti, ti ho dato tutti i motivi necessari per fidarti di me. Di solito resti di più, anche qualche giorno, ma adesso devi tornare a casa."

Guardo lei e poi il vuoto, dove banchi di nebbia continuano a spostarsi irrequieti, rivelando puntoni di scogli e nere profondità.

"Che cosa hai imparato, questa volta?" mi domanda la giovane, sedendosi su un piccolo masso poco distante e togliendosi arco e frecce dalle spalle, come se chiedere a una persona di buttarsi nel vuoto fosse qualcosa che fa tutti i giorni.

Ci penso un attimo, prima di rispondere: "Come ammazzare una chimera?"

La ragazza scuote la testa, quasi divertita. "È proprio questo, il punto: come fai a sapere che era una chimera?"

La guardo allibita, sbattendo le palpebre: "Non lo so, solo...mi sembrava una chimera."

"Sai cosa significa?"

Ci penso un attimo, recuperando dalla mia mente tutto ciò che ricordo sulle chimere: sono animali fantastici, non esistono in natura, eppure popolano molte narrazioni antiche.

"È un'illusione," sentenzio alla fine, "è qualcosa di impossibile, una fantasia irrealizzabile. È un sogno a occhi aperti."

La ragazza ridacchia: "E tu ce l'hai, un sogno?"

Penso per bene alle sue parole, prima di rispondere. Ce l'ho un sogno, e mi sta aspettando a casa. "Sì."

"E lui lo sa, di essere il tuo sogno?" continua a chiedere, rigirandosi su un dito la punta di una freccia.

"Non ho mai parlato di un lui..." constato, mentre la giovane ripone la freccia nella faretra e mi affianca.

"Ma l'hai pensato, anche se solo per un istante" mi sussurra. "Forse non avrei dovuto uccidere quell'animale: forse ti avrebbe preso sulle sue ali e ti avrebbe portata lontana, al di sopra della nebbia. Ma tu avevi paura: della sua irruenza, della sua bestialità. Ne eri completamente spaventata, come se non avessi mai visto un simile esemplare. E in fondo è così: non è certo un animale che si tiene negli zoo." Ridacchia, come se trovasse divertente il sapermi leggere nella mente. "Ma, alla fine, conosci le aquile, i leoni, e anche i lupi: sono tutti animali a te noti che, insieme, ne formano uno sconosciuto, ma non impossibile."

La guardo turbata: ora anche lei è diventata completamente seria.

"Chi sei, tu?" mi lascio sfuggire, in un sussurro.

"Non avere paura dell'ignoto, Caroline. Non avere paura di ciò che pensi ti possa ferire. La prossima volta, salta in groppa a quella chimera. Non frenare le tue stesse emozioni."

I suoi occhi si incastrano nei miei, il suo viola nel mio castano. Socchiudo le labbra, non appena riesco a dare senso a ogni sua parola. So cosa devo fare.

Le faccio un cenno con la testa, un ringraziamento o un arrivederci, e poi mi volto verso la nebbia, camminando fino al limitare della roccia.

Ci siamo di nuovo, io e il vasto orizzonte che si apre di fronte a me.

Pronta ad essere accolta nella coltre bianca, senza più paura di volare, lo faccio.

Salto.

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"E tutto quel bianco non ti dava il voltastomaco?" chiede David, dalla parte opposta della stanza.

Mi alzo dal divacnetto su cui sono stata sdraiata per tutto il tempo, intenta a narrare al giovane ogni dettaglio del sogno fatto la notte precedente.

"No, non esattamente. Era bello e spaventoso nello stesso tempo, come se fossi stata un nulla rispetto a tutto quell'infinito, ma nello stesso tempo ero un qualcuno, una parte di quella stessa vastità." Mi avvicino a lui, nascosto dietro alla sua tela. L'ambiente è saturo dell'odore forte e pungente dei suoi colori a olio, ma ormai non posso più fare a meno di questa essenza, perché questa essenza è lui. Lo vedo lasciare il pennello sulle ginocchia, mentre si allontana per ammirare la sua opera.

"Anche questa volta eri da sola?"

Ci penso un attimo, provando a ricordare se con me ci fosse qualcun altro. Corrugo le sopracciglia, quasi volessi cogliere un'immagine sfuggita alla mia memoria, un'ombra depositatasi nei miei ricordi più reconditi, ma alla fine ci rinuncio. "Sì, ero da sola. Ma avresti dovuto esserci, David, ti sarebbe piaciuto!" esclamo, sorpassando la tela e accostandomi all'uomo. Colgo subito i suoi occhi chiari e ridenti, che si incatenano ai miei non appena mi vedono, e improvvisamente non sono più intimorita dalle sensazioni che mi pervadono lo stomaco. David allunga un braccio per stringermi a lui e, diversamente dal solito, mi lascio accogliere. Poi la nostra attenzione ritorna sull'opera d'arte di fronte a noi.

"Ma io c'ero" mi sussurra a un orecchio, indicandomi la sagoma di un uomo voltato di spalle. È così verosimile che temo si possa voltare verso di noi e uscire dalla tela. Resto incantata a osservare la minuzia di ogni dettaglio, il colore perlaceo della nebbia e la tangibilità delle rocce. Osservo lo stesso sublime infinito che anche il viandante, voltato di spalle, sta ammirando. Tasto la vastità del mondo che David è riuscito a ricreare con i suoi colori e rivivo le stesse sensazioni di vuoto che già ho potuto provare. "È simile a quello che mi hai descritto?" mi chiede David, allungandosi verso i pennelli e immergendoli nell'essenza di trementina.

Resto incantata a osservare il quadro, incapace di distogliere lo sguardo dal paesaggio della mia mente che David ha saputo ricreare sulla sua tela. La luce bianca riverbera su ogni particella e la nebbia sembra muoversi, trasportata dal dolce soffio del vento.

"È perfetto."

Significato e spiegazioni (forse inutili ma meglio chiarire, prima che mi si consideri malata xD)

La protagonista, Caroline Bommer, è un personaggio veramente esistito ed è meglio conosciuta come Caroline Friedrich, mentre il quadro in questione è, ovviamente, "Il viandante del mare di nebbia" di Caspar David Friedrich, suo marito.

Ho voluto creare qualcosa di fantasioso e, spero, originale per cercare di trovare cosa potesse essere d'ispirazione per magnifici quadri di Friedrich che, personalmente, adoro: ho quindi "sfruttato" sua moglie rendendola anch'ella una viaggiatrice, non di mari di nebbia, bensì di sogni. Ho quindi ipotizzato che ogni Dimensione visitata da Caroline durante la notte potesse essere uno dei paesaggi/soggetti del pittore (nelle prime righe c'è un riferimento implicito all'"Abbazia nel querceto").

Nel sogno, oltre alla nebbia e all'ambiente visibile nel quadro vero e proprio, c'è un altro elemento, la chimera.

Come dice la stessa Caroline, la chimera metaforicamente indica una fantasia irrealizzabile, un'illusione, un sogno a occhi aperti. Il fatto che sia costituita da un insieme di parti animali, e che venga poi uccisa, sta a indicare anche una vittoria della parte razionale sulla propria istintività: gli animali rappresentano sentimenti ed emozioni che la protagonista reprime, domando i propri istinti.

Nel sogno, la ragazza senza nome (che sarebbe parte della coscienza di Caroline, tant'è che poi, una volta sveglia, non se ne ricorda) uccide la chimera, ma le suggerisce di lasciarsi invece andare alla propria spontaneità: i sentimenti non sempre sono negativi, bisogna solo imparare ad accoglierli. Le parti di animale costituirebbero quindi delle emozioni conosciute che, unite nella chimera, formano qualcosa di sconosciuto per Caroline, qualcosa che ella stessa teme: l'amore (ovviamente è frutto della mia mente malata e shipposa, il fatto che Caroline tema di confessare il proprio sentimento a Caspar: questo elemento mi serviva solo come pretesto per il sogno).

Spero il mio intento sia stato chiaro: come al solito, i miei racconti sono trip mentali, quindi se ci sono dettagli poco comprensibili sarò lieta di rispondere a ogni dubbio.

* il titolo, Das Erhabene, significa "il sublime", in riferimento al quadro di Friedrich che viene usato come concretizzazione di tale sentimento, nonché ai sentimenti provati da Caroline di fronte all'infinito mare di nebbia (studiare Kant mi ha influenzata giusto un pochino xD).

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