🍁5

•PARTE QUARTA: LUCORE• 

Presente

Alla fine, i miei piedi hanno saputo esattamente dove portarmi. Salgo i primi scalini con il fiato corto e cerco di recuperare il controllo dei miei polmoni mentre mi avvicino alla porta d'ingresso. Impiego ogni mia forza per tenere lontani dalla mente i ricordi, che premono sulle tempie per riportarmi indietro a quando tutto andava bene. A quando questo incubo non era ancora reale.

So che è qui. Busso tre volte, gentilmente, aspettando paziente che i passi attutiti si avvicinino sempre di più alla barriera che ci divide. Ritraggo la mano dal legno della porta, notando che le mie dita sono colte da un leggero tremore, e decido di nasconderla nella tasca della giacca.

Come mi aspettavo, ad aprirmi è lui. Mi guarda senza alcun segno di sorpresa sul viso, quasi sapesse che sarei arrivata, quasi mi conoscesse meglio di me stessa. Senza proferire parola, mi passa accanto, avviandosi verso la sua auto. Resto per un attimo interdetta a causa della sua indifferenza, pensando di aver solo immaginato le sue sopracciglia aggrottate, sinonimo di una preoccupazione che finora non ha dimostrato di avere nei miei confronti. Lo seguo, raggiungendolo mentre mi aspetta già seduto nell'abitacolo, con lo sguardo fisso di fronte a sé e la mano destra sul cambio. Senza aspettare che mi allacci la cintura, mette in moto l'auto. 

Non dice una parola e io ho perso, durante il tragitto, tutte quelle che avrei voluto dirgli. Ho paura che se aprissi la bocca, anche solo per sbaglio, tutti i bei momenti che tengo intrappolati nel mio cuore possano fuoriuscire e disperdersi per sempre nella distanza che ci sta dividendo. Quindi, come al solito,  alla fine rimango in silenzio.

Ho il vago sospetto di sapere dove si stia dirigendo e prego perché non lo faccia. Non lo sopporterei. Non in questo momento. Chiudo gli occhi, ma a nulla serve privarmi della vista, perché conosco ogni singola curva, ogni stop e ogni buca che divide il nostro piccolo paese dal mare, dalla nostra spiaggia.

E lui, infatti, lo fa, con arroganza e crudeltà mi porta nel posto che conserva i miei ricordi più belli, mi conduce contro la mia volontà nel luogo che ha assistito alla nascita della nostra amicizia e, poi, del nostro amore. 

Scende dall'auto mentre io, come poco prima sulla soglia di casa sua, resto ferma, non riuscendo a muovermi. Ora, però, sono le lacrime che cerco di trattenere, mentre i ricordi mi affollano la testa, l'anima, il cuore. Lo vedo attraverso il parabrezza: cammina in linea retta fino a che non diventa una sagoma indistinta, un'ombra scura contro il colore del cielo. Riluttante, raccolgo la mia dignità e lo raggiungo, con i capelli scossi dall'aria marina che si adagia violenta sulla mia pelle, lasciando un leggero sentore di sale. Arrivo, lentamente, dove le onde del mare toccano la sabbia asciutta. Resta voltato, dandomi la schiena, senza concedermi libero accesso al suo viso. Ai suoi occhi. Ai suoi pensieri. Tutto, di lui, rimane eclissato.

La gola mi si chiude, mentre incrocio le braccia per ripararmi dal vento. Vorrei solo che mi abbracciasse, che mi dicesse che va tutto bene. Vorrei svegliarmi accanto a lui, con le nostre gambe aggrovigliate e i capelli sul suo petto.

Come se mi leggesse nella mente, si volta adagio, osservandomi di profilo. Non so se è a causa dei miei occhi lucidi o delle mie spalle curve, ma con due passi mi raggiunge e mi avvolge tra le sue braccia. 

Freddo. 

Distaccato. 

Come se stesse consolando un vecchio amico. Forse preferivo quando mi voltava le spalle.

«Davide» biascico, contro il suo petto. Lui non risponde subito.

Sono patetica. Lo sto supplicando in silenzio di non lasciarmi andare, di non farmi questo. Vorrei che lo capisse dal nostro contatto, vorrei si rendesse conto di quanto io abbia ancora bisogno di lui dal mondo in cui lo stringo.

Avrei tante domande da fare, ma ce n'è una che mi logora più di tutte. Si è instillata nella mia mente da quando ho capito le sue intenzioni, al telefono, e tutt'ora volteggia davanti ai miei occhi chiusi, quasi vi fosse proiettata sopra dal sole. Così, gliela pongo.

«Perché?»

Lo sento inspirare, la bocca tra i miei capelli e le braccia sulle mie spalle. Poi, piano, mi allontana, per guardarmi negli occhi. Non voglio vedere il suo volto, perché ne ho paura. Non voglio sapere se quello che prova è dolore o indifferenza perché, in entrambi i casi, ne resterei ferita.

«Voglio stare da solo, Sel» mi accarezza le guance con i pollici, tenendo il mio viso tra le mani. «Non piangere, dolcezza. Fa male anche a me, dirti tutto questo.»

Improvvisamente, mi divincolo.

«Hai conosciuto qualcun'altra?» chiedo, colta da un'inaspettata illuminazione. È l'unica spiegazione plausibile che mi do, l'unica giustificazione che sarei disposta ad accettare. Lui scuote la testa, in segno di diniego. Mi ha già dato le sue motivazioni – tre, lapidarie frasi che resteranno impresse a fuoco nella mia testa – e ne siamo consapevoli entrambi. Me le ha elencate con una telefonata in modo chiaro, pacatamente, come se mi stesse dando ripetizioni di matematica. È stato questo a lasciarmi basita, a farmi sospettare che stesse scherzando. Ho bussato alla sua porta per farmi ripetere tutto di nuovo, per vedere le sue labbra muoversi e produrre quelle parole. Adesso, però, non so se ne ho la forza.

«Ho fatto... qualcosa che non va? Ti prego, devi darmi una valida motivazione per accettare tutto questo, non posso credere che tu-» vengo interrotta da un singhiozzo che non riesco a controllare. Mi porto una mano alla bocca e chiudo gli occhi, per evitare che altre lacrime solchino il mio viso. Non voglio farmi vedere debole, ma davanti a lui, che mi guarda con i suoi occhi scuri, non posso non sentirmi abbandonata. Mi stringe di nuovo a sé, cullandomi. Freddo.

«Ho passato degli anni incredibili, con te. Mi hai cambiato la vita. Ma ormai è diventata un'abitudine. Ti scrivo e ti chiamo senza pensarci, in modo automatico. Ti bacio come se fosse di routine. La domenica ti porto a mangiare dai miei quasi fosse qualcosa di prestabilito.»

Mi allontano facendo leva sul suo torace. Sul suo cuore, che una volta pensavo appartenesse a me. Se prima cercavo conforto in lui, ora voglio solo allontanarmene.

«Ed è una brutta cosa, crearsi una propria quotidianità? Dio, Davide, cresci un po'!»

«Non voglio che tu sia la mia unica esperienza. E non voglio essere la tua unica esperienza. Mi serve ritrovare me stesso, dolcezza.»

«Non chiamarmi così, ne stai perdendo il diritto. Ti senti, quando parli? Ascolti ciò che dici?» lo rimprovero. «Se è della quotidianità, che hai paura, prendiamoci una pausa. Facciamo qualcosa di nuovo. Ma, ti prego, non lasciarmi così» lo supplico, nuovamente.

Lo osservo, alzando finalmente il viso. Quella che trovo tra i suoi occhi è compassione. La sua bocca, dispiacere. Le sue sopracciglia, preoccupazione. Non voglio questo, non da lui.

«Selene, io-» fa per dirmi, ma poi si ferma, scuotendo la testa.

«Per telefono, Davide! Me l'hai detto per telefono!» gli ricordo. Pensavo che, dopo tutto questo tempo, un po' di sensibilità l'avesse acquisita.

«Mi sembrava il modo più indolore. Per me

Chiudo la bocca di scatto e incrocio le braccia, distanziandomi da lui. Ogni sua frase è staccato crudele, un insieme di singole e appuntite note che interrompono l'armonia che ci eravamo costruiti. Poi, un dubbio mi pervade.

«E cosa dovrei fare, quindi?» chiedo, impertinente.

«Cancella il mio numero. Non c'è bisogno che continuiamo a sentirci.»

È un colpo al cuore, l'ultimo di una serie: improvviso, come una scossa, che lo perfora da parte a parte. Il respiro mi si mozza e credo di esagerare, me ne rendo conto, ma fatico a riempire i polmoni di aria. Distolgo lo sguardo. Vorrei convincermi che non ne vale la pena, che sono stati i due anni più brutti della mia vita e che lui si è comportato male con me. Ma non è così. Lui è stata la miglior cosa che mi sia successa.

Forse, però, non è lo stesso per entrambi. Forse, io non sono il meglio che ha avuto.

In tutto questo tempo, ho sempre visto o bianco o nero. Davide e tutto ciò che lo riguarda, è bianco. È il sole del tramonto, la frescura delle sere d'estate, il profumo delle lenzuola pulite, l'adrenalina scatenata da un suo tocco, le parole di un libro lette ad alta voce. Davide è un'emozione che riempie i polmoni, rendendoli quasi traboccanti di quel misto di ossigeno, vapore acqueo e anidride carbonica. Davide è l'aria che mi permette di vivere. Mi fa sentire satura, incapace di assorbire altro, mi riempie completamente.

Nero, invece, è tutto ciò che non ha a che fare con Davide e che, inevitabilmente, è passato in secondo piano: gli esami, le relazioni inesistenti con altre persone, la mia famiglia.

Il mondo non è bianco o nero. Non è Davide o non-Davide, e forse di questo avrei dovuto rendermene conto prima. Ma quando qualcosa si radica così tanto in te, così profondamente, l'effetto è irreversibile. Davide è irreversibile.

Alzo il mento, risoluta.

«Devi dirmelo» affermo. Manca ancora una motivazione, già elencata per telefono. Ma non l'ha ancora detta di fronte a me, non so se per mancanza di coraggio o per proteggermi.

«Selene...» si lamenta lui.

«Dimmi di nuovo quello che mi hai detto al telefono e me ne andrò. Non ti cercherò, né ti chiamerò. Sparirò dalla tua vita.» Le lacrime continuano a minacciare di uscire, piccoli aghi che pungono le mie orbite. Non lo permetterò loro. Nessuno vincerà, oggi, se non la mia forza.

Davide sospira, passandosi una mano tra i capelli. Sta per parlare, ma prima che possa farlo lo avverto che deve guardarmi. Negli occhi. Voglio che siano loro a parlare, con le sue labbra. Voglio sentire la sua anima sussurrarmi quella frase. 

Alla fine, lo fa.

«Non ti amo più, Selene.»

Il suo è solo un sussurro portato dal vento, ma lo sento rimbombare nelle pareti del mio cervello. Sono cinque parole che mi straziano l'anima. Però, riesco a sorridere, esitante.

«Va bene» dico solo. Morta dentro, viva fuori.

Non può essere la fine del mondo. E, mentre lui se ne va, lasciandomi sola nella furia del vento, io rabbrividisco e ci provo di nuovo, a sorridere. Vorrei piangere, scalciare e urlare, e magari dentro di me sta accadendo. Ma c'è una vocina, piccola e lieve, che cerca di sovrastare tutto questo rumore. E mi dice che non ne vale la pena di stare male per questo. Dice che ci sono situazioni ben più gravi, nel mondo. È così insistente che riesce a convincermi, almeno in parte. 

Prima che se ne sia andato definitivamente, raggiungo Davide e faccio qualcosa che non mi sarei mai aspettata. Lo ringrazio. Quello che gli dico è un semplice »grazie», mormorato con la voce tremante. Ma lui sembra capire lo stesso. 

Poi, così come è arrivato nella mia vita, se ne va.

Il mio non è stato un gesto di debolezza, né un riconoscimento. So perché l'ho fatto.

L'ho ringrazio per avermi fatto passare i momenti più belli della mia vita. Per avermi insegnato a catturare la realtà sulla carta patinata di una fotografia e per avermi fatto capire cosa voglia dire amare. L'ho amato e lo amerò sempre, dal momento in cui ha spostato quella sedia per lasciarsi cadere in malo modo accanto a me. È stato lui a mostrarmi come si fa a vivere, e ora mi lascia andare, perché sono in grado di farlo da sola. Perché sono capace di spiccare il volo solo e unicamente con le mie forze. Magari ci vorrà tempo, sicuramente sudore e fatica non mancheranno.

Ma Davide mi ha mostrato come volare.

Davide mi ha insegnato come raggiungere la libertà, disancorandomi da tutto ciò che mi tiene legata e imprigionata.

Davide, infine, mi ha insegnato a vedere il mondo con una prospettiva del tutto nuova.

Non avrei potuto chiedere un regalo più grande, anche se avrei preferito una fine migliore.

Affondo i piedi sul bagnasciuga, voltandomi verso il sole che sta scomparendo dietro l'orizzonte, mentre lascia il posto al buio e alle stelle. Mi perdo a fissare il cambiamento del paesaggio di fronte a me, i capelli nel vento e le mani nella sabbia. Sono in una posizione di mezzo, tra cielo e terra. Tra un infinito estendersi e una concretezza limitata. Il lucore della notte alle spalle e l'intensità del giorno di fronte. Sono io che li tengo insieme, con il mio sguardo. Sono io la mia àncora, con la mia forza.

Poi, il sole sparisce, compiendo il suo percorso, e la luna prende il suo posto, piena e luminosa. Risplende di luce riflessa e brilla come se fosse sua. Mi perdo a guardarla, ammaliata, e decido che potrei essere lei.

Non splenderà per merito suo, ma prende il meglio dal Sole, illuminando la notte che, altrimenti, sarebbe cieca.

Non sarà sempre presente in cielo nella sua interezza, ma ha la forza di spostare oceani interi.

La Luna è sottovalutata, come me. Non sono una macchia bianca nel cielo infinito. Non sono un'ombra tenue, sono vasta e lucente. Sono un satellite che gravita intorno alla Terra. Devo solo capire chi mi sta illuminando, chi sta mettendo in luce il meglio di me.

Ricomincio da qui.


NdM. Okay, ehm, ci siamo. Appena riesco a correggerlo pubblico l'ultimo capitolo, così magari è chiaro cosa passa per la mente di Lui.

Avete notato che anche questa volta non ho scelto i nomi a caso? "Selene" deriva dal greco, significa luna, e il riferimento all'ultima parte spero sia lampante. 

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top