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•PARTE TERZA: CONNUBIO•

La sua passione più grande – oltre a quella di distrarmi – è fare fotografie. Il che non consiste nel semplice schiacciare un bottone e aspettare il click dell'obiettivo: lui cerca, scova e immortala la bellezza. O, almeno, questo è quel che mi ha detto, anche se non vuole farmi vedere nulla se prima non gli dico come mi chiamo.

Non ho paura che, rivelandogli il mio nome, lui possa ritenersi soddisfatto e andarsene: l'ha già fatto, una volta, e sono pronta a perderlo ancora, quasi rassegnata sapendo che prima o poi mi lascerà, come una foglia autunnale all'arrivo dell'inverno. In realtà, sono ancora risentita per essere stata l'oggetto di una scommessa: la mia è solo una questione di principio.

«Tu, oltre a studiare e leggere, cosa fai? Scrivi poesie?»

Siamo sulla spiaggia e il sole è quasi del tutto tramontato. Ormai ci tratteniamo sempre di più, finché le prime stelle appaiono in cielo e le onde, con l'alta marea, arrivano a lambirci le caviglie.

«No. Sarebbe banale» rispondo.

Siamo sdraiati, le teste una contro l'altra, i visi rivolti al firmamento che si sta tingendo di un blu tenue, colore che prelude l'oscurità della notte.

«Devi avere un passatempo, un hobby, qualcosa da fare quando non sei alla Lanterna o con me» proferisce, cercando di indagare la mia vita privata. 

Non gli ho rivelato il mio nome, né quello che faccio quando non siamo insieme: mi piace parlargli dei miei pensieri, di quello che studio, delle mie paure. Ma non ho mai sentito il bisogno di condividere la mia vita privata con lui, di trasportarlo nel mondo monotono che è la mia quotidianità. Temo che la magia si potrebbe spezzare e non sono ancora pronta. Non ora che sono sdraiata con la sabbia che mi pizzica le spalle e la brezza salata che mi lambisce le guance.

«Okay, ho capito. Hai un ragazzo» annuncia alla fine. Io non accenno a negare né a confermare le sue parole. Lo sento muoversi e poi il suo viso occupa la mia visuale. «Allora?» mi incalza, alzando le sopracciglia per sottolineare la sua curiosità.

«Che me ne dovrei fare di un ragazzo?» domando, non spostando gli occhi da lui. Il suo viso, visto al contrario, è buffo: il suo sorriso sembra un broncio bambinesco e il taglio degli occhi, caldi e tondeggianti, risulta estraneo sui tratti improvvisamente spigolosi.

«Be', io qualche idea ce l'avrei.»

Roteo gli occhi e lui sghignazza, proprio come farebbe un quindicenne. In realtà, per quanto ne so potrebbe avere proprio quell'età, non mi sono mai curata di chiederglielo.

Poi, improvvisamente, diventa serio. «Aspetta un attimo» dice continuando a guardarmi con fare indagatore. «Ti piacciono le ragazze, per caso?»

Roteo nuovamente gli occhi, stralunata. Perché non posso permettermi di essere semplicemente single? Perché non può accettare di passare del tempo insieme senza per forza conoscere i minimi dettagli della mia vita? Non è importante che io sia figlia unica, che viva in un appartamento a due piani o in una baracca. Non è importante chi siamo, quando le nostre essenze riescono a incastrarsi così perfettamente, e non voglio che gli ostacoli che la vita si diverte a mettermi di fronte possano influenzare la sottile amicizia che ha iniziato a legarci. 

Io non sono ricca o povera, studentessa o lavoratrice, fidanzata o single. Io non sono un'etichetta o un nome: sono semplicemente io, ma questo non sembra più bastargli.

Mi alzo, rischiando di far sbattere le nostre teste insieme e, una volta seduta, mi volto verso di lui, seria.

«Che te ne importa?» gli chiedo indispettita. Recupero la mia borsa e faccio per mettermi in piedi, ma lui mi trattiene per la maglietta.

«Scusa, non volevo esagerare.» Aspetta paziente che mi risieda. «È solo che non so nulla, di te. In realtà, nessuno sa nulla. È come se tu fossi un fantasma, capisci?» Mentre parla, gesticola con le mani. È un comportamento che avevo già notato in precedenza e spesso mi perdo nel modo in cui accarezza le parole con i movimenti. «E, cazzo, ogni tanto penso davvero che tu sia frutto della mia mente. Insomma, come fai a non farti mai notare?»

Alzo le spalle. «Sono solo riservata. Tengo per me le mie cose.»

Lui sbuffa. «Ci consociamo da più di due mesi, e non so ancora il tuo nome. Riservata è davvero un eufemismo.»

Alzo di nuovo le spalle, rischiando che si irriti. Odia quando cerca di sapere qualcosa su di me e io mi chiudo a riccio.

«Ho un gatto» confesso, dopo un po' di tempo. Lui si gira con gli occhi spalancati.

«Non mi dire. E magari anche dodici paia di calzini neri e un frigorifero» mi prende in giro. «Che razza di informazioni mi dai?»

Ridacchio, in silenzio. Non so se sia ancora un gioco o se, tra di noi, si sia instaurato un legame serio. Lo vedo quasi ogni giorno, ma non sa nulla di me, né io so molto di lui. Semplicemente, mi piace occupare così le mie serate, a parlare di argomenti senza senso e a guardare il cielo e il mare e la spiaggia deserta. Mi piace che qualcuno condivida i miei silenzi solo perché gli va di farlo, e non perché ci è costretto. 

Ormai l'ho capito, che la scommessa l'ha persa. L'ho visto pagare la sua pena alcune settimane fa, senza che lui si accorgesse di me, mentre danzava vicino al suo campus con un gonnellino hawaiano e una corona di fiori – e questo mi fa tornare a chiedermi quanti anni abbia. Ma, nonostante ciò, è ancora qui. Credevo che non l'avrei più trovato, in fondo non avrebbe avuto più niente da guadagnare. Invece, sedeva al solito posto sulla sabbia, con il viso puntato verso l'orizzonte, ad aspettare chissà quale illuminazione divina.

«Ti porto a casa» dice di punto in bianco.

Io faccio una risata di scherno. «Ci hai provato, ma no. Non c'è bisogno.»

«Ti ho vista prendere l'autobus in fondo alla strada. Il 57. Va fuori città, nella mia stessa direzione: magari un passaggio ti fa comodo.»

Lo fisso, con un'espressione tra lo stupito e l'indignato.

«Mi hai seguita?» chiedo sorpresa. «Magari hai anche spiato il mio orario settimanale e il mio conto in banca?» Questa volta il mio tono è più alterato: mi sento tradita, come se fosse venuto meno ai patti impliciti che legano il nostro rapporto.

Si raddrizza sulle spalle. «Sì, ti ho seguita, e non ho paura di sembrare un pazzo psicopatico, perché non lo sono. Ma lo diventerò presto, se non capirò qualcosa in più sul tuo conto.»

Anche lui è arrabbiato e riconosco che non ha tutti i torti. Per me non è un gioco, non lo è mai stato, e penso che dovrei dirglielo. Semplicemente, mi trovo bene con lui senza che sappia nulla di me. Mi trovo bene come non mi sono mai trovata con nessun altro.

«Non è normale non sapere nulla sulla persona con cui passo ogni fottuto giorno. Mi sta logorando.»

«Non sono un serial killer, se ti tranquillizza» mugugno mentre mi alzo, spazzandomi la sabbia dai pantaloni. Si è già fatto troppo tardi.

«Be', questo non lo posso sapere» afferma lui. «Perché non ti apri? Non è normale stare ogni giorno con qualcuno di cui non si sa nemmeno il nome!»

«Non cambierebbe niente sapere che mi chiamo Amanda, Rebecca o Lisbeth, piuttosto che Scarlett» rispondo. Prendo la mia borsa e infilo le scarpe, curandomi di togliere i granelli di sabbia che ci sono finiti dentro. «Un nome non fa una persona, non è importante per riuscire a conoscere veramente qualcuno. Quello che importa sono le azioni che si fanno, i comportamenti, i gesti» concludo, iniziando a dirigermi verso la strada. Lui mi raggiunge senza sforzo.

«Non voglio un nome per definirti, dolcezza. Voglio solo un nome per sapere come chiamarti, quando ho bisogno di te. O come riferirmi alla tua persona quando parlo con qualcuno. Voglio solo sapere se ti si addice, se il suono che emette si adatta al tuo viso. Se ti rappresenta.» Mi prende una mano, fermandomi. In realtà, non mi sono mossa di molto, catturata dalle sue parole. «Mi piace quello che sei. Il tuo prendere il caffè amaro nonostante sia il gusto più cattivo del mondo; il modo in cui leggi, aggrottando leggermente le sopracciglia e mordendoti le labbra; il tuo continuo spostarti i capelli dietro le orecchie, raccogliendoli in una treccia in modo quasi automatico; la luce che c'è nei tuoi occhi quando piove e, da sotto l'ombrello, sporgi una mano, convinta che nessuno ti veda, per giocare con le gocce d'acqua. Mi piace come parli, il suono che le parole acquistano uscendo dalle tue labbra; ma mi piace anche come stai in silenzio, senza che questo abbia alcun peso. E mi piace il modo in cui guardi tutto con curiosità, anche il mio dannato libro di chimica.» Si ferma un attimo, catturando il mio sguardo imbarazzato. «Mi piacciono i tuoi piccoli gesti, vorrei solo dare loro forma con un nome.»

Mi guarda supplicante, come se ne andasse della sua vita. Poi, piano, mi lascia il polso e mi porge la mano destra, sollevandola all'altezza del suo torace e tenendola ben aperta nella mia direzione.

«Io sono Davide. Piacere di conoscerti, dolcezza.»

Fisso la sua mano, sorpresa ancora dalle sue parole, e poi i suoi occhi, scuri come l'ebano e luminosi come le stelle sopra di noi. Ho davvero paragonato i suoi occhi alle stelle? Scoppio a ridere, lasciandolo interdetto ma catturando, con la mia, la sua risata. Quello che si crea è un connubio originale, fatto di note basse e singhiozzi acuti, che si uniformano fino a diventare un sussurro tra le onde del mare. 

Poi, quando entrambi smettiamo di ridere, mi ripropone la sua mano e io, titubante, la afferro.

«Ciao, Davide. Io sono Selene.» 

E, quello che vedo nei suoi occhi, va ben al di là delle stelle del cielo.

NdM. Ho scoperto che il prossimo non sarà l'ultimo capitolo, mi ero completamente dimenticata di averne scritto uno dal pov di Lui, che però è un extra: lo volete?

P.S.: chi ha riconosciuto a quali personaggi appartengono i nomi citati da Lei? (P.P.S.: uno è un personaggio inedito, chissà se avrete mai il piacere di incontrarla, e uno non è di un personaggio letterario, ma l'ho comunque lasciato u.u)

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