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•SECONDA PARTE: TEMPESTA•
È passato quasi un mese da quando il ragazzo si è seduto per la prima volta accanto a me. Non gli ho chiesto il suo nome per correttezza, altrimenti poi da parte sua sarebbe giusto pretendere di sapere il mio, ma continuo a pensare di non avere motivo per rivelarglielo.
Non mi piace, devo ammetterlo. Non è quello che definirei il mio tipo, quindi non faccio nemmeno uno sforzo per apprezzarlo. È troppo pieno di sé, troppo alto e troppo poco sensibile. In più – e tutti i miei disegni dell'asilo lo possono confermare – non ho mai creduto nel classico principe azzurro: a salvare la principessa arrivava sempre un drago. Chissà cosa ne penserebbe Freud.
In ogni caso, il gran pezzo di manzo ci trova gusto. Non penso di piacergli, né fisicamente, né tanto meno caratterialmente, ma credo abbia preso sul serio la sua sfida. Non mi sta corteggiando, né ci sta provando: semplicemente, si comporta bene, da persona gentile, ogni tanto fa battute di pessimo gusto e, per lo più, si limita a farmi compagnia. Aspetta paziente che sia pronta per tornare a casa –ultimamente entrambi stiamo preparando un esame, lui di Chimica Avanzata e io di Etica della Filosofia – e poi esce con me. Passiamo davanti al bancone e prendiamo un caffè – io amaro, lui al caramello con panna – e usciamo dalla Lanterna. Sorseggiamo le nostre bevande in silenzio e, alla fine, arriviamo sempre alla spiaggia.
«Non trovi che la sabbia sia la cosa più assurda che esista? Mi siedo dieci minuti e, una volta a casa, posso ricreare la mia spiaggia personale sul pavimento del bagno» si lamenta.
Alzo le spalle, lo sguardo puntato all'orizzonte. Il cielo si sta tingendo di un rosa caldo, striature di tramonto in mezzo a uno sfondo azzurro. Affondo le mani nella sabbia, senza davvero ascoltare quello che dice, mentre gli ultimi raggi di sole mi scaldano il viso.
«Da dove vieni?» mi chiede improvvisamente, costringendomi a riaprire gli occhi. Lo trovo a fissarmi, interessato. Il nostro rapporto è fatto di silenzi e occhiate, e sto iniziando ad abituarmi alla sua compagnia discreta, anche se non lo ammetterei mai ad alta voce.
«Dal Nord» mi limito a rispondergli. Lascio che sia lui a immaginare se vengo dal Trentino, dalla Germania o dal più piccolo paese sperduto della Groenlandia.
«Si sente» continua, facendomi voltare nuovamente verso di lui «L'accento, intendo. Dai una bella forma alle parole.»
Sorrido, prendendolo come un complimento. Siamo in uno di quei pochi momenti di serietà, quando il caffè è ormai freddo e le frasi da dire si riducono al minimo. Di solito, a questo punto, si alza e se ne va, incapace di reggere ancora il mio gioco di mutismo. Oggi, invece, se ne sta qui, seduto sulla sabbia che non sopporta.
«Perché io?» gli chiedo, senza preavviso. Sembra riscuotersi e riporta l'attenzione su di me. «Tra tutte le persone che c'erano, intendo.»
«Perché sono etero, dunque tutte le persone sono state ridotte a meno della metà. E perché non sono così disperato da scommettere su qualcuno che ha il doppio dei miei anni. Quindi, in realtà, tutte le persone si riducono giusto a una manciata.»
Mi accontento della risposta: probabilmente hanno usato uno strano criterio e una conta infantile. Non voglio sapere altro, per non fargli pensare che mi senta grata di essere stata scelta, perché non lo sono.
«Non me lo dirai mai, vero?» è la sua domanda. Si riferisce al mio nome.
«No. Non ne ho motivo» è la mia risposta.
Un giovedì pomeriggio il ragazzo arriva con un pacco tra le mani. Alzo leggermente gli occhi dal libro di Etica, senza fermare l'evidenziatore che continua a sottolineare la frase, quasi fosse in modalità pilota automatico.
«Ti ho portato un regalo» annuncia.
«C'è qualche ricorrenza?» ribatto, continuando a prestare attenzione al mio libro.
«Ho pensato che potesse essere il tuo compleanno.»
Mi fermo. «Non lo è» lo avviso.
«Non lo potevo sapere e, avendo solo una possibilità su trecentosessantacinque, ho voluto tentare. Prima o poi compirai anche tu gli anni.» Mentre parla, inizia ad aprire il pacchetto. Se il regalo è per me, non dovrebbe spettare a me questo compito? Lo lascio fare e, fiero di sé, porta alla luce una decina di muffins. Al cioccolato.
«Quanti anni ti va di compiere?» domanda, mentre si siede e ne addenta uno, passandomene contemporaneamente un altro. Lo prendo tra due dita, osservandolo da vicino.
«Hai cucinato tu...» commento, incredula. La mia non è né una domanda, né un'affermazione, è più una via di mezzo.
Lui si lecca le dita, allungandosi verso il secondo pasticcino. «Puoi scommetterci. Ho fatto tutto io. Dal trovare la ricetta al passarla a mia nonna.»
Malgrado tutto, sorrido. Una volta che mi sono accertata che non sia stato lui l'artefice del dolce, ne mordo un pezzetto. È soffice e spugnoso, le gocce di cioccolato scrocchiano tra i denti, insieme a quelle che riconosco essere mandorle.
«È una proposta di pace, dolcezza. Se non vuoi rivelarmi il tuo nome nemmeno dopo che ti ho sfamata, allora ci rinuncio.»
Finisco con calma il muffin e lo imito leccandomi le dita a mia volta, per eliminare ogni traccia di cioccolato rimasta.
«Allora, soldato, penso che tu abbia perso la guerra. Per tua fortuna, il sapore della vittoria è molto dolce» gli dico, prendendo un altro muffin e alzandolo nella sua direzione.
Il giorno seguente non viene. Non so se esserne sollevata o meno. Alla fine, mi ero quasi abituata alla sua compagnia, ma non sono pentita di non avergli dato un pretesto per restare. Mi godo la tranquillità e il silenzio concessomi, portandomi avanti e riuscendo addirittura a finire il libro di Etica. Poi, con calma, ripongo il mio materiale nella borsa e mi avvicino al bancone.
Chiedo il mio solito caffè, beandomi del calore che propaga e dell'intenso aroma che si diffonde verso il mio viso. Mi avvio per le strade illuminate dal rosso del sole morente, dondolando svogliata le braccia e sistemando ogni pochi metri la borsa che mi scivola dalla spalla. A un certo punto, i miei piedi si dirigono verso la spiaggia. Forse è la forza dell'abitudine.
È deserta. Scelgo un posto casuale dove sedermi e mi abbandono dolcemente sulla sabbia, lasciando il cervello vagare libero.
Le mie azioni si ripetono anche il giorno successivo, e quello dopo ancora, come un automa in cerca di una propria quotidianità. Prendo il caffè, arrivo alla spiaggia e lo sorseggio sotto le ultime luci del giorno, preparandomi ad arrivare a casa e a iniziare una nuova notte.
È una sera come tante quando, con ancora il mio caffè intatto, trovo il mio posto già occupato. Non pensavo più a lui dal giorno dei muffins per il mio non-compleanno e, devo ammettere, sono un po' risentita, perché è riuscito nuovamente a introdursi nella mia quotidianità. Lo raggiungo con calma, sicura che mi abbia vista, e mi lascio scivolare a sedere accanto a lui.
«È occupato?» chiedo, il sorriso sulle labbra. Lui si volta verso di me e resta serio, quando mi sarei aspettata che avrebbe riso avendo sentito le stesse parole che mi rivolse al nostro primo incontro.
«Ciao» sussurra, fissandomi attentamente.
«Ciao» rispondo, non distogliendo lo sguardo. Vorrei chiedergli perché è ancora qui, se mi stava aspettando o se, anche a lui, piace guardare il mare all'imbrunire, sorseggiando del caffè amaro. Ma so che non gli piace il mare, né tantomeno la sabbia, e nemmeno il caffè senza zucchero. Così, come al mio solito, sto zitta.
«Non ho più motivo per venire in quel posto» spiega, rompendo il silenzio. «O, meglio, non ne ho se non vuoi rivelarmi il tuo nome. Ho finito di studiare, perderei solo tempo.»
Annuisco. Non gli ho chiesto spiegazioni, ma a quanto pare si sentiva in dovere di darmene.
«Sono venuto solo per dirti questo, dolcezza. Non farti strane idee.»
Rido alla sua affermazione, sorprendendolo. «Non mi sono mai fatta strane idee su di te, gran pezzo di manzo.»
«Bene, perché io me ne sono fatto su di te.» Mi raddrizzo, incrociando le gambe e voltandomi verso di lui, in attesa che continui. «Sei fatta di silenzio» mi dice solo, prima che qualcosa colpisca il mio naso.
Mi volto verso il cielo e una seconda goccia atterra proprio sul mio zigomo. Anche il ragazzo se ne è accorto, ma nessuno dei due si muove. Sorrido, quando una terza goccia mi colpisce le labbra. Alla fine, la pioggia abbandona la sua timidezza e centinaia di piccole schegge iniziano a cadere dall'alto. Rimbalzano sulla sabbia, sui nostri visi e sulle nostre spalle. Chiudo gli occhi per evitare che l'acqua mi dia fastidio, schermandoli con le palpebre. Quando li dischiudo leggermente, lasciando che le ciglia mi facciano da protezione, scopro il ragazzo a guardarmi. La bocca è leggermente aperta, come a gustarsi il sapore della pioggia, e i capelli sono ormai appiccicati alla fronte.
«Ti si bagneranno i libri, andiamo!» urla, sopra lo scrosciare dell'acqua.
Rido di gusto, mentre si alza e mi tende una mano. Osservo il suo gesto, le dita allungate, il braccio disteso, il sorriso rilassato mentre combatte per tenere gli occhi aperti. Osservo la sua gentilezza e il rispetto per le mie decisioni.
Cos'ho da perdere?
Sentendo già i capelli appesantiti sulle spalle afferro la sua mano e faccio entrare in contatto le nostre dita, mentre lui tira leggermente per aiutarmi a ritornare in piedi.
Poi, però, non lascia andare la presa.
Restiamo così, una mano stretta nell'altra come in un patto siglato dalle gocce di pioggia che, piano piano, arrivano fino alle nostre ossa.
NdM. Mancano due capitoli alla fine, yay! Rileggere questa storia è per me un supplizio, ma condividerla è una gioia, quindi ve la dovete subire anche voi u.u
(Mi seguite già su instagram? È il social su cui sono più attiva, mi trovate come feather_writes)
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