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•PRIMA PARTE: PRELUDIO•
Due anni prima
«È occupato?»
Per un attimo spero che quella domanda non sia rivolta a me, non mentre sto assimilando un concetto così importante. Non prima di arrivare almeno alla fine della frase che sto leggendo. Continuo imperterrita a tenere gli occhi sul libro, non trovando motivo per interrompere la mia concentrazione e rispondere alla domanda. Notando una mia mancata reazione, la stessa persona che mi ha interrogata si schiarisce la gola, infastidendomi ulteriormente.
Alzo a malincuore gli occhi, costringendomi a non usare un'espressione scocciata mentre li sposto sulla figura davanti a me. È un ragazzo – complimenti, Sherlock. Lascio vagare distrattamente lo sguardo sui suoi lineamenti anonimi – occhi castani, naso dritto, capelli lasciati ricadere sulla fronte – e concludo di non averlo mai visto prima, probabilmente è solo di passaggio: non è raro che nuove persone vengano attirate dalla vetrina colorata della Lanterna. Di solito entrano, capiscono che è un locale serio dove la gente studia e poi escono, senza curarsi del fatto che non sia una semplice biblioteca, ma un bar-studio. E, di solito, i passanti attratti solo dalla moltitudine di libri che decorano l'entrata non si approcciano a una ragazza completamente immersa nella lettura per poterle chiedere di sedersi. Non si fa, è maleducazione ed è severamente vietato dalle regole non-scritte dei lettori.
Alzo le sopracciglia, guardandomi intorno. Ci sono un sacco di posti liberi, non vedo il motivo per il quale dovrebbe sedersi qui. Mi schiarisco la gola, emulando il suo gesto con finta educazione.
«No, ma non è nemmeno libero.»
Sposto la sedia non occupata usando un piede e, tenendo fisso lo sguardo nel suo, prendo la mia borsa da terra e ce l'appoggio sopra. Lui pare sorpreso dal mio gesto, ma non si scompone più di tanto e tiene incollato al viso un sorriso beffardo. Ritorno al mio libro, non curandomi della sua presenza e recuperando la frase che avevo interrotto: posso essere sembrata scortese, ma odio che qualcuno mi si sieda vicino quando ci sono altri posti a disposizione.
Riprendo a leggere, ormai rassegnata a dover ricominciare da capo, fino a che la luce del sole non viene improvvisamente coperta e le parole si amalgamano all'ombra scura che è calata sulla pagina. Alzo di nuovo lo sguardo, esasperata, e mi ritrovo ancora l'ospite sgradito di fianco. Questa volta, però, non è a mani vuote: regge una sedia, rubata probabilmente a un altro tavolo, e prima che possa capire le sue intenzioni la posiziona di fronte a me, per poi accomodarvisi.
«Problema risolto. Ora c'è posto per tutti, dolcezza.»
Lo osservo, allibita dalla sua sfacciataggine, e devo essere visibilmente scocciata dal momento che lui nota la mia espressione.
«Oh, non preoccuparti, sono molto silenzioso.»
Prende un libro dalla sua borsa a tracolla e inizia a sfogliarlo, sistemandosi meglio sulla sedia. Lo fisso ancora un attimo, soffermandomi sulle ciglia che accompagnano gli occhi nella loro lettura e le mani che reggono saldamente il manuale, poi alzo le spalle e decido di non dargli altri motivi per disturbarmi: torno nel mio mondo, approfittando dell'improvviso silenzio per finire di studiare il capitolo.
Alcuni giorni e molte pagine dopo, la scena si ripete. Il ragazzo non viene ogni pomeriggio, non ha nemmeno un orario regolare, ma ogni volta prende una sedia e si posiziona di fronte a me, accompagnandomi muto nelle mie letture. L'ho visto studiare un libro di fisica, probabilmente frequenta un'Università in zona e approfitta del locale silenzioso per preparare gli esami, come la maggior parte degli studenti che si trovano qui. Io, dal canto mio, continuo a ignorarlo.
È lui a fare la prima mossa. Un pomeriggio, quando ormai sto per andarmene, lo intravedo arrivare più carico del solito. Oltre alla sua tracolla e a un libro sotto braccio, tiene tra le mani due bicchieri d'asporto, sui quali riconosco il marchio della Lanterna. Si accomoda come suo solito – ormai la sedia è restata a questo tavolo – e allunga un bicchiere nella mia direzione.
«Per scusarmi» dice solo.
Io alzo lo sguardo, concedendogli per un attimo la mia attenzione. «Della tua presenza?» chiedo, forse più acida di quel che sono in realtà.
«No, del fatto che non mi sia ancora presentato. Ma, prima di farlo, dovevo capire con che tipo di persone tu uscissi.» Con un dito inclina il libro che tengo tra le mani, in modo da poterne vedere la copertina. «Heidegger va bene. Anzi, è anche troppo per me. Non so se un semplice caffè possa essere di suo gradimento. Potrei gettargliela lì come proposta.»
Lascio cadere il libro sul legno scuro del tavolo, sforzandomi per non lasciar intuire quanto sia sbigottita dalle sue parole.
«Non l'hai detto davvero» sussurro, senza l'ombra di un sorriso. Oh, Dio, ti prego, fa che non volesse fare una battuta sulla gettatezza*. Lui, in risposa, alza leggermente un sopracciglio. Io non sono mai stata in grado di dimostrare il mio scetticismo attraverso il movimento delle sopracciglia, ma spesso penso che sia meglio così, altrimenti avrei come minimo una paralisi facciale.
«Ho molte battute in serbo, dolcezza. Non hai ancora visto il meglio.»
Faccio roteare gli occhi all'uso di quell'appellativo: è scortese e il modo in cui lo dice lo rende volgare.
«Non accetto caffè da chi legge-» giro il suo libro nella mia direzione, allungandomi sul tavolo per poterlo afferrare, «Fisica generale II, di Arthur Coleman. Non è un personaggio affidabile, per niente» concludo sprezzante e cercando di rimanere seria.
Gli restituisco il libro e sposto la bevanda da sotto il mio naso. L'intenso odore di caffeina stimola le mie papille gustative, ma non posso cedere, ne andrebbe della mia integrità. In più, nonostante lo veda ormai da diversi giorni, sono restia ad aprirmi con gli sconosciuti e ad accettare offerte da parte loro.
«Okay, Hannah Arendt, hai iniziato tu. È meglio chiarire questa cosa.»
Lo guardo sorpresa. E adesso cosa c'entra la Arendt? Non ho letto altri libri in sua presenza, oltre a questo, quindi non può conoscerla. Alla fine, non avendo niente da aggiungere e non volendo alimentare la conversazione, scelgo di stare zitta.
«Era l'amante di Heidegger, vero?» chiede lui, dopo un po', mentre continuo a ignorarlo. «Ho pensato che, visto che leggi così avidamente il suo libro, magari anche tu provi qualcosa per lui.» Si ferma un attimo, assumendo un'espressione disgustata. «Dio, spero che a te non piaccia lui fisicamente. Voglio dire, non era proprio un gran pezzo di manzo, ma penso tu ti limiti a fartelo piacere intellettualmente, no?»
Senza riuscire a controllarmi, dimentico che dovrei mostrarmi infastidita dalla sua presenza e scoppio a ridere a metà frase, abbandonando il libro sul tavolo. Lui mi guarda, pensando di aver fatto centro, ma non sto sghignazzando per i suoi ragionamenti assurdi.
«Un gran pezzo di manzo?» chiedo retoricamente, riferendomi alle sue parole. Ma da dove salta fuori, questo? Scuoto la testa, prendo una carta abbandonata sul tavolo e la uso come segnalibro, preparandomi ad andare. «Senti, questo è un luogo pubblico e purtroppo non ti posso cacciare. Ma vedi di rispettare la concentrazione altrui, gran pezzo di manzo.»
Alla fine me l'ha confessato: era una scommessa. Doveva solo scoprire il mio nome. Non so perché non se ne sia inventato uno da riferire ai suoi amici per mettere fine ai giochi. Probabilmente gli piacciono le sfide, oppure è solo molto stupido. In ogni caso, non gliel'ho ancora detto, così lui ha preso a chiamarmi con i nomi delle amanti o delle mogli degli autori che leggo, e questo sembra bastargli.
Anche se i nostri pomeriggi scorrono senza troppe interruzioni al mio studio, non andiamo d'accordo. Ogni volta mi distrae, o mi indispettisce, o io rispondo in malo modo e lui se ne va arrabbiato, facendo rumore per tutta la sala. Ma, il giorno successivo, torna imperterrito, deciso a vincere la sfida con i suoi amici.
«Non sono un oggetto, né un trofeo» sussurro assorta, mentre ho lo sguardo ancora incollato al libro. Questa volta è Jodi Picoult, per rilassarmi.
Lui è arrivato da poco e, a differenza del solito, ha fatto strusciare la sedia sul pavimento attirando occhiate infastidite. Abbandono per un attimo la pagina, osservando la sua espressione alterata, le labbra imbronciate e lo sguardo sconsolato. Probabilmente non ha passato un esame, oppure ha appena ricevuto un due di picche.
«Non è questione di ricevere un trofeo.»
«E allora?» chiedo, cercando di capire cos'altro lo spinga a voler sapere il mio nome.
Oggi c'è decisamente qualcosa che non va. Se ne sta zitto, il manuale di fisica riposto davanti a lui e la guardia bassa. Sta facendo il bambino. Non mi dovrebbe importare dei suoi problemi personali, ma mi ritrovo a chiudere il libro, mettendo tra le pagine la prima cosa che mi passa per le mani – un post-it abbandonato – per non perdere il segno.
Lo osservo di nuovo. Già, c'è decisamente qualcosa che non va. Sospiro, conscia di quello che sto per fare e consapevole che me ne pentirò non appena le parole lasceranno la mia bocca.
«Sai, forse Jodi potrebbe accettare un caffè» gli dico, sollevando di poco la copertina così che possa leggere il nome dell'autrice.
«Leggi anche libri da comuni mortali?» chiede, senza il minimo entusiasmo. Forse si è stancato del gioco e mi lascerà in pace.
Poi mi guarda e sorride. O, meglio, alza l'angolo sinistro della bocca.
«Conosco un posto che a Jodi piacerebbe» asserisce, con un tono che non ammette repliche.
«Anche io: questo» dico, rafforzando le mie parole mentre indico il tavolo.
«Un'ora fuori. Giusto per vedere se la tua pelle è davvero così pallida o è semplicemente questa luce a renderla tale» mi supplica. Alzo gli occhi al cielo – ormai è diventata un'abitudine, lo faccio ogni volta che parla. «Tanto stavi per andartene» afferma, sicuro.
«Come lo sai?» domando curiosa.
Lui indica il libro, ora abbandonato sul ripiano in legno. «Il segnalibro. Quando mi dedichi semplicemente la tua attenzione, usi un dito per tenere il segno del punto in cui sei arrivata. Quando mi dedichi la tua attenzione perché stai per andartene, ci metti dentro quello che capita. L'ultima volta hai usato la carta di una gomma da masticare. Disgustoso.»
Lo fisso sorpresa. Forse dovrei iniziare ad avere paura, denunciarlo alla polizia e cambiare locale.
«Non fare quella faccia. La voglio davvero vincere quella scommessa. E se per sapere il tuo nome devo prima conoscerti, a me sta bene.»
Non so cosa mi convinta, ma alla fine, con uno sbuffo platonico degno di un film melò, mi ritrovo ad annuire in risposta alla sua proposta.
Un'ora.
*Il termine è un riferimento al pensiero filosofico di Heidegger, il quale ritiene che L'Uomo sia gettato nel mondo (per questo, poi, può progettare la propria esistenza), ma chiudo qui prima di spaventare qualcuno xD
NdM. Con un flashback si torna nel passato, all'epoca del loro primo incontro. Quanto è irritante Lui? E quanto indisponente Lei?
P.S.: so che l'espediente della scommessa è in ogni storia, ormai, ma non ho voluto modificare troppo la trama originale, quindi beccatevela (in realtà anche io volevo usare un cliché e visto che il gran pezzo di manzo, qui, non è propriamente un bad-boy mi serviva qualcosa di altrettanto efficace xD)
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