Capitolo XXX

«Evelyn dov'è?» chiese Tabitha entrando nell'appartamento di Fabrice, seguita a ruota da un uomo corpulento con i capelli canuti e degli spettacolari baffi a manubrio, il dottor Burgos.

Fabrice fece un sospiro. «Sono circondato da donne testarde.» Le lanciò un'occhiata significativa, poi continuò: «È fuggita appena ho voltato le spalle».
Si rivolse al dottor Burgos. «Mi dispiace dottore per averla fatta scomodare, ma la paziente si è volatilizzata.»
Il dottore si strinse nelle spalle. «Se si rifà viva, accompagnatela a casa mia, le darò un'occhiata. Portate i miei saluti al signor Bailey.» Detto ciò l'uomo si congedò.

Rimasti soli Tabitha e Fabrice si guardarono incerti sul da farsi.
«Pensi sia il caso di fare un salto alla maison?»
Fabrice scosse la testa. «Non penso sia il caso. Mi è sembrata 'strana', come se non vedesse l'ora di liberarsi di me.»
«Anche a me è sembrata un po' spaesata. Forse è stata colpa di Antony che l'ha chiamata 'puttana'...» borbottò.
«E chi è Antony?»
Tabitha sembrò per un attimo imbarazzata. «Un mio amico. Evelyn ci ha incontrato mentre mi accapigliavo con i Godeau...»
Fabrice si passò una mano sulla nuca. «Lasciamo stare. Meglio che io non sappia del nuovo guaio in cui ti sei andata a cacciare. Dovresti solo pensare a studiare per l'audizione...»

La ragazza gli buttò le braccia al collo. «Tanti auguri, Fabrice!»
Lui le cinse la vita e si abbassò per darle un bacio sulla guancia che lei ricambiò, stringendolo ancora più forte.
Lo amava a sedici anni come lo aveva amato a dodici e come lo avrebbe amato sempre. Non pensava di fare l'amore con lui: le bastava averlo vicino.
Non esiste nessun contatto fisico tra la Terra e la Luna e tuttavia la Terra attrae continuamente la Luna verso di noi. La Luna segue una linea tangente alla sua orbita attorno alla Terra. La Luna ama la Terra, che a sua volta ama il Sole, a dimostrazione che questi piccoli drammi d'amore che viviamo giorno dopo giorno non sono prerogativa dell'Umanità.

Fabrice la rimise con i piedi per terra. «Pensavi me ne fossi scordata?»
La guardò sorridendo e scosse la testa. «Tu? Mai!»
«Avevo pensato di chiedere a mamma di prepararti il cobbler che ti piace tanto. Poi i casini con i Godeau, Antony ed Evelyn... Dovevo pure andare a prendere in prestito un vestito da Ivy.»
Fabrice ascoltava quel fiume di parole con le sopracciglia bionde inarcate.
«Farò a meno del cobbler... per oggi. Lo mangeremo tra ventitré giorni esatti, al tuo compleanno.»

I loro compleanni cadevano infatti a ventitré giorni di distanza, ma né Fabrice né tanto meno Tabitha ne avevano mai festeggiato uno. Non avevano mai dato feste a casa o invitato gli amici a prendere qualcosa al Cafè del Quartiere; ma da quando si erano conosciuti, organizzavano un loro rituale privato a suon di musica. Fabrice suonava per lei e Tabitha per lui.
Lei sceglieva sempre dal repertorio classico, lui invece era più variegato. E questo non era sorprendente perché in fondo, pensava Tabitha, Fabrice era un caleidoscopio. La sua personalità si componeva di molteplici sfaccettature (esisteva il Fabrice pacato che passava ore a leggere, ascoltare musica o suonare il pianoforte, il Fabrice scalmanato che si gettava nelle risse più pericolose, il Fabrice dipendente dal sesso e dall'amore, che passava da una donna all'altra e il Fabrice sensibile che si innamorava spesso e desiderava sposarsi e avere figli...), e ogni volta che si muoveva tutti questi suoi aspetti si ricomponevano in una combinazione inedita di modo che, se si girava a guardarlo, aveva sempre l'impressione di vedere un nuovo Fabrice.

«Aspettami qui, vado a prendere il violino» gli disse, uscendo di casa come un fulmine.
«E chi si muove» sussurrò piano lui.

Arrivata davanti la porta di casa, una animata conversazione accolse Tabitha. Entrò dentro l'appartamento con una certa apprensione nel sentire sua madre urlare: «Non voglio roba che non so da dove arriva».
«Signora Baker, il vestito è già stato pagato» insistette una donna sconosciuta.
Cheryl si voltò verso la figlia. «Era ora!»
Sua madre aveva un diavolo per capello. Letteralmente, constatò Tabitha. La chioma scurissima su cui si stagliava qualche ciocca grigia, già di suo vaporosa, quel giorno sembrava essersi caricata di elettricità. «Tabby, cosa significa tutto questo?» sibilò indicando con la mano un vestito, steso sul tavolo da cucina, di un bellissimo blu pavone. «Questo da dove viene?»

La ragazza si voltò verso la donna sconosciuta. Doveva avere sui quarant'anni, capelli castani tagliati all'ultima moda, figura elegante, abito grigio svasato incrociato sul petto con bordo a contrasto nero. «E lei, chi è?» chiese, dopo averla esaminata un po'.
«Sono la signora Lucy Murray del Rose. Un cliente ha acquistato il vestito che ho consegnato a sua madre. Ora, se volete scusarmi, devo tornare in negozio. Addio.»
Senza dare modo alle due donne di ribattere, imboccò la porta con aria stizzita. La signora Baker le aveva fatto perdere tempo con domande a cui lei non poteva rispondere. Si pentì di aver deciso di portare di persona il vestito, ma il fattorino era occupato e il cliente era stato preciso riguardo la consegna urgente e al fatto che non voleva si sapesse il suo nome. E lei esaudiva sempre i desideri dei clienti, specie se pagavano sull'unghia e senza battere ciglio. All'inizio era stata tentata di mandare via il ragazzo, ma i soldi che aveva tirato subito fuori e il cognome speso avevano messo a tacere i suoi dubbi sul fatto che un ragazzo così giovane potesse permettersi di comprare un vestito nella sua boutique. Che spreco! pensò, dando un ultimo sguardo alla palazzina da cui era appena uscita.

Intanto Cheryl continuava imperterrita a sottoporre Tabitha a una raffica di domande. Stremata, quest'ultima sibilò: «Fai cosa ti pare con il vestito. Io non ne so niente». Corse in camera e prese il violino, poi mentre stava per imboccare la porta aveva detto a una Cheryl furiosa che stava andando da Fabrice per dargli il suo regalo di compleanno. La donna si batté la mano sulla fronte. «È il 30 settembre! Me ne ero dimenticata.»
Seguì la figlia sul pianerottolo di casa. «Non finisce qui, eh! Dopo faremo i conti... Ah, dì a Fabrice che stasera la cena gliela preparo io.»

***

La strada si addentrava sinuosa tra gli alberi, a volte agevole e conciliante, altre un po' ruvida e scoscesa, in un percorso che si snodava in una linea irregolare. Nella debole luce del crepuscolo pareva quasi evocare l'illusione di un miraggio. Fuggita da casa di Fabrice come una ladra, Evelyn era andata subito alla maison sperando che Arturo si facesse vedere. Non aveva resistito molto, l'ansia la divorava, nonostante i tentativi di minimizzare il groviglio di sensazioni che provava. «Sei una stupida!» si ripeteva. «Non può essere tuo figlio... è morto.» L'età, l'aspetto fisico e il legame che sentiva con il ragazzo non potevano però essere ignorati. In fondo lei non aveva mai visto il corpicino senza vita. Si era fidata di ciò che le avevano detto zia May e la levatrice. E se... Basta!, non poteva più aspettare, si era detta. Aveva chiamato una di quelle automobili che la Checker Cab aveva da qualche mese messo in strada a noleggio, decisa ad affrontare Arturo nella sua tana, ovvero nella casa di famiglia, appena fuori New Orleans.

L'autista parlava ma lei ascoltava la sua voce senza distinguere le parole. Giunti davanti al cancello della villa, disse all'uomo di attendere lì, scese dall'auto e si concesse un respiro profondo. L'aria era umida e gravida degli odori della vegetazione e della terra ammuffita nelle zone d'ombra. Nessun luogo era riuscito a farle sobbalzare il cuore in quel modo come la tenuta che aveva di fronte. Chissà se il ragazzo era lì, da qualche parte. Voleva vederlo. Prima però doveva affrontare Arturo.
Immagini del presente e del passato si sovrapposero. Tanti anni prima aveva aperto il suo cuore, si era lasciata contaminare da speranze, sogni e desideri. Poi un giorno la realtà l'aveva investita con una forza tale da infrangere in un solo attimo tutto. Frammenti del passato irruppero con prepotenza, violando la mente con abile astuzia. Inspirò a fondo alla ricerca di un autocontrollo che molti le invidiavano. Anche nei momenti più difficili aveva imparato a stare immobile, in attesa che la bufera si placasse. Poteva vacillare, piegarsi e perfino finire a terra, ma non avrebbe mai permesso a nessuno di annientarla. Era già accaduto una volta e aveva giurato a se stessa che non si sarebbe più ripetuto.

Il vento prese a soffiare più forte e il ricordo più doloroso della sua vita la investì con violenza. Con la gola serrata, vide una se stessa molto più giovane sedere davanti al focolare della stanza alla maison, la pancia era gonfia per la gravidanza mentre cuciva i vestiti per il bambino. Si ascoltò canticchiare una nenia che sua madre le aveva insegnato quando era molto piccola. Quanto bisogno aveva avuto di lei! Allora più che mai. Era stanca dell'ostracismo a cui l'aveva sottoposta la famiglia da quando aveva confessato di essere incinta e senza marito. Stanca dei sussurri della gente che incontrava quando camminava per il Quartiere. Era giovanissima eppure si sentiva vecchia. E fredda. Solo quando accarezzava la pancia e sentiva scalciare il bambino si riscaldava nel profondo e tutte le cose sembravano migliori.

Poi i ricordi andarono avanti nel tempo. Le braccia forti di zia May la tenevano mentre era in travaglio per dare alla luce il bambino. Era coperta di sudore per il fuoco nella stanza e le ore di sforzo. La levatrice allora aveva aperto la finestra e lasciato entrare un po' d'aria. Era il 21 dicembre del 1907, un inverno precoce, un clima freddo in modo anomalo per un città come New Orleans. Si diceva che sarebbe potuta cadere addirittura la neve. A New York, dove Arturo avrebbe voluto portarla, invece la neve cadeva spesso. Evelyn non aveva mai visto un fiocco di neve in vita sua.

Scacciato il pensiero dell'uomo che le aveva spezzato il cuore si era concentrata sul bambino. Sarebbe stato un nuovo inizio. «Spingi», le aveva ordinato la levatrice. Le unghie di Evelyn erano affondate nelle braccia di sua zia mentre si afferrava a lei e urlava.
«Troppo sangue...» aveva detto qualcuno. Un gemito profondo e poi si era rilassata mentre il bambino usciva dal suo ventre, nelle mani della levatrice. Evelyn ricordava di aver riso quando zia May le aveva baciato la guancia e abbracciata stretta. La sensazione di gioia però era svanita quando aveva sentito ogni forza residua abbandonarla. Voleva tenere il bambino in braccio, ma non riusciva a muoversi. Perché non glielo davano? Aveva pensato.
«Sta perdendo troppo sangue» aveva gridato zia May alla levatrice. Poi le aveva messo la guancia contro la sua, tenendola vicina e sussurrandole all'orecchio: «Ti tengo, piccolina, non ti lascio cadere.» Era stata l'ultima cosa che aveva sentito prima che il buio la inghiottisse.
Strati e strati di oscurità, finché aveva sentito qualcuno chiamarla da lontano e scuoterla cercando di svegliarla, e aveva avuto la sensazione di cominciare a scalare uno strato di sonno dopo l'altro verso la realtà e allora aveva cominciato a salire, salire, e ancora salire. Quando aveva aperto gli occhi non era riuscita a capire cosa stesse succedendo. Prima di vedere la donna che la scuoteva, ne aveva avvertito la presenza. L'aveva intuita attraverso il profumo di gelsomino che le arrivava come uno schiaffo. La donna gridava: «Sveglia, sveglia!», e continuava a scuoterla. Ma le palpebre le pesavano e la testa le girava e la percezione della realtà di quanto in quanto si sfocava ed Evelyn sapeva di doversi svegliare, c'era qualcuno di cui occuparsi, che l'aspettava, ma non riusciva a farlo e allora gli occhi si chiudevano e lei cominciava a scendere, scendere, scendere ancora.

Aveva perso il conto delle volte in cui la scena si era ripetuta. Quando infine, dopo aver navigato in mari d'ombra per un tempo che le era sembrato infinito, aveva aperto gli occhi, non aveva avuto bisogno di guardarsi intorno per sapere dove si trovava. Le era bastata una sola immagine intuita, i contorni di un fiore indovinati a occhi chiusi. La coperta del suo letto ricamata a rose. Aveva distinto una sagoma, un'ombra. La luce si era specchiata sui capelli ramati e le aveva disegnato un'aureola intorno alla testa. Sembrava un arcangelo. Il suo letto aveva quattro cantoni e ci montavano altrettanti angioletti. Uriele a nord, per la terra; Michele a est, per il fuoco; Raffaele ad ovest, per l'acqua; Gabriele a sud, per l'aria. Sarà costui l'angelo che mi protegge? Si era chiesta. Ma non era stato Dio a proteggere Evelyn. Il protettore di Evelyn si chiamava May e (lo sapeva senza bisogno di aprire gli occhi) era lei che l'aveva svegliata nel sonno. Si era messa a fatica a sedere sui cuscini. E allora aveva realizzato di avere addosso una camicia da notte bianca di batista. Era candida. E il sangue? Dove era finito il sangue?

La sagoma, zia May, si era alzata dalla sedia e si era avvicinata a lei.
«Ciao.» Si era chinata su di lei e l'aveva baciata sulla fronte, come una bambina piccola. «Come ti senti?»
«Stanca. Cos'è successo?»
«Non ricordi niente?»
«Il bambino! dov'è?» aveva chiesto sgranando gli occhi.
«Il bambino è... morto. Mi dispiace, tesoro.» Le parole di zia May risuonarono nelle orecchie ora come allora.
«Non è vero!» Digrignando i denti per tenere a bada il dolore, aveva scosso la testa freneticamente. «Non è vero...»
Zia May l'aveva abbracciata, lei aveva cominciato a gemere per il dolore, il cuore privato di qualunque cosa tranne una penosa sofferenza.

«Chi sei?» Una voce sgradevole e brusca la riportò al presente. Un uomo corpulento era apparso dall'altra parte del cancello.
«Sono Evelyn Walsh, vorrei parlare con il signor Bosco», rispose, cercando di tenere la voce più ferma possibile, le emozioni che il ricordo avevano riportato a galla non ne volevano sapere di lasciarla.
L'uomo aprì il cancello e fece un mezzo ghigno. «Oh, guarda chi c'è, la famosa madame!»
Lei inarcò un sopracciglio. «Vammi a chiamare il tuo padrone» gli rispose sprezzante.
Si spostò di lato, pronta a dribblarlo, ma l'uomo avanzò per bloccarla. La pazienza di Evelyn era appesa a un filo... e quel filo stava per spezzarsi. «Non ho tempo da perdere.»
Fece per girargli intorno, ma lui la bloccò di nuovo, appoggiandole pesantemente una mano sulla spalla. Il palmo le intrappolò i ricci, tirandoli.

«Cazzo succede qui, Trent?»
Una voce risuonò alle loro spalle. Un'ombra attraversò il volto dell'uomo e tolse la mano di scatto. La mandibola squadrata di Trent si serrò e, a giudicare da come erano chiazzate le guance, Evelyn avrebbe giurato che volesse dire qualcosa, ma si limitò a girarsi e a fare un cenno secco al ragazzo apparso alle sue spalle. «Cerca il signor Bosco» sputò fuori.
«Ci penso io. Vai!» L'uomo sputò per terra prima di girare le spalle.

«Tutto bene?»
Evelyn fece cenno di sì con la testa, anche se l'arrivo del ragazzo la stava sconvolgendo più dell'aggressione di Trent.
«Non mi sembra che vada tutto bene», commentò Antony mentre fissava la sagoma dell'uomo che si allontanava.

Evelyn non riusciva a togliergli gli occhi di dosso. La stretta al cuore era tornata, una sensazione fortissima che quasi le impediva di respirare. Si sforzò di far uscire la voce. «Volevo parlare con il signor Bosco.»
Sul giovane viso apparve un ghigno sarcastico. «Lo chiami 'signor Bosco' anche mentre ti scopa?»
«Non..» Evelyn si costrinse a sollevare gli occhi sulla bellezza angelica del volto che aveva davanti e che contrastava in modo netto con il linguaggio volgare che aveva adoperato.
«Non è qui» si affrettò a rispondere, quasi temesse ciò che Evelyn stava per dire. «È partito qualche ora fa per New York.»

Lei si sforzò di restare impassibile, ma era dura trattenere una smorfia di sgomento. «Sai tra quanto ritornerà?»
Il ragazzo cominciò a dare segni di insofferenza. «Non lo so» sbuffò.
Evelyn passò da un piede all'altro, non sapendo cos'altro dire per trattenerlo. «Puoi dirgli che devo parlargli appena torna?»
«Cos'è non sai stare senza di lui e i suoi soldi per qualche giorno?» disse ridendo in modo beffardo. Le girò la spalle.

«Aspetta!»
Antony si rigirò alzando gli occhi al cielo. «Quando sei nato?»
La domanda le sfuggì dalla bocca; resasi conto di cosa gli aveva appena chiesto, si portò le mani alla bocca. Lui sobbalzò come se fosse stato colpito da uno schiaffo in pieno viso, poi la guardò dall'altro in basso, soffermandosi su ogni centimetro del suo corpo, per poi tornare al volto, che scrutò piegando leggermente la testa. Mano mano che procedeva al minuzioso esame, le orbite oculari sembrarono infossarsi e le pupille si scurirono. I suoi occhi facevano male, pensò Evelyn.
«Nel 1907 a dicembre, pochi giorni prima di Natale.» Scandì ogni parola come se le stesse infilando un coltello nella carne. E osservò con malcelata curiosità il colore defluire dal volto della donna. Si avvicinò, invadendo il suo spazio personale. Era così vicino che Evelyn smise di respirare mentre osservava le piccole efelidi che adornavano il viso. Identiche alle sue. Qualcosa tremolò negli occhi neri di Antony. «Vattene!»

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