Capitolo XXVI


Quando raggiunse il ponte, che si estendeva su acri di palude, Paul assottigliò le labbra. «Guarda dove si è andato a cacciare...» sospirò.
Una volta arrivato alla fine, si trovò ufficialmente nella terra dei cajun. Le insenature delle paludi e i ponti abbondavano. Guardò il cielo, sbottonandosi il colletto della camicia immacolata che indossava, ormai fradicia di sudore, delle nuvole minacciose si stavano addensando sulla palude. Si augurò che l'acquazzone in arrivo mettesse fine all'afa che in quei giorni aveva assalito New Orleans.
Di solito le persone non si dirigono in automobile verso la palude quando si trovano di fronte una burrasca di quelle proporzioni. Non sapeva però quale tempesta si sarebbe rivelata peggiore, quella meteorologica o la collera di Joseph. Non importava; era intenzionato a venire a capo della faccenda quella sera stessa.

Svoltò su una stradina sterrata. Vide delle barche per la pesca e le baracche della palude. Perché diavolo Joseph si era rifugiato ? Era andato a cercarlo da Lee, ma questi gli aveva risposto, stringendosi nelle spalle. «Se n'è voluto andare lui, l'ho pregato di restare, ma è un ragazzo testardo. Gli ho proposto di trasferirsi per un po' a Chicago. L'ha presa male. Qui, se continuerete a vedervi, non potrò proteggerlo da tuo fratello!»
Paul aveva abbassato il capo, cercando qualcosa da obiettare, ma Lee aveva ragione, stavano giocando con il fuoco. «Di preciso dove posso trovarlo? Cercherò di farlo ragionare» gli aveva promesso, raddrizzando le spalle.

Si avvicinò alla fine della strada, la baracca doveva trovarsi lì, tra palme nane, banani, cipressi e gigli di palude. Quando l'acquitrino divenne visibile era già buio. Occhi rossi ardevano tra le canne. Alligatori. Erano così accalcati tra loro che alcuni dei più piccoli erano sulla schiena degli altri. Coppie di puntini luccicanti, ammucchiati come i pioli di una scala. Mosse nervosamente le mani sul volante, ma proseguì. L'automobile si addentrò sotto una volta di rami intrecciati e rampicanti, come se stesse immettendosi in un tunnel stregato.

Quando la strada cedette il passo a un sentiero battuto, scorse la casupola, una costruzione in legno, lunga e stretta, con entrate su entrambe le estremità. Le assi di legno erano molto usurate. Un paio di pelli di alligatore erano state fissate nei punti peggiori. Doveva portare via quel testone da lì. Fermò l'auto per non restare impantanato. Aprì la portiera e poi la sbatté senza riguardo. Si avventurò all'esterno. Delle mosche gialle gli sciamarono intorno, ma continuò ad avanzare. Superando vari tronchi di cipressi, si trovò davanti a una delle entrate.

«Joseph!»
La porta di legno si aprì scricchiolando. «Joseph, sei lì?» gridò mentre entrava in casa. Non vide nessuno all'interno ma si guardò intorno a lungo. Squallido come l'esterno. Il soffitto era così basso che dovette chinare il capo per camminare. Sul tavolino al centro brillava una candela quasi del tutto consumata. Si sentì stringere il cuore.
Un ticchettio violento tempestò il tetto. L'acqua iniziò a imperlare il legno rigonfio del soffitto, colando sul pavimento. Sussultò al rumore di passi pesanti che scosse la baracca, come se qualcuno stesse salendo delle scale a balzi.

Quando una porta sbatté sul retro, quella centrale si aprì cigolando.
«Paul, che ci fai qui?» Joseph lo guardò strabuzzando gli occhi scuri. I tendini del suo collo si tesero mentre si avvicinava a grandi passi. «Hai perso la lingua? Vuoi dirmi perché sei qui, maledizione!»
«Ero andato a cercarti da Lee ma mi ha detto che avete litigato e che ti sei rifugiato in... in questo tugurio...»

Joseph fece una risata amara. «In questo tugurio abitavano i miei. Vengo da qui, da questo posto di cui ti disgusta anche l'aria...»
Paul scosse la testa. «Non volevo offenderti... ma non puoi stare qui.»
«Perché?»
«Non è sicuro.»

Paul rimase in piedi fermo a guardarlo, pensando confusamente che non poteva andare avanti così. Era pericoloso per Joseph che rischiava la vita, e per lui sul piano emotivo; di fatto equivaleva a tenere la mano sopra il fuoco, più e più volte... solo che ogni volta che rimettevi la mano sopra la fiamma riducevi la distanza tra la carne e la fonte di calore. Prima o poi le ustioni di terzo grado sarebbero state il minore dei mali, perché tutto il braccio sarebbe andato a fuoco.

Dopo un po', con Joseph che lo guardava sospettoso senza dire niente, smise di rimuginare sull'istinto di autoconservazione. Si passò una mano tra i capelli scuri, sconfitto. «Devi andare a Chicago... fino a che Arturo non farà ritorno a New York» aggiunse.
L'altro alzò gli occhi al cielo. «E fino a quando tuo fratello resterà qui?» lo incalzò.
Paul si accigliò. «Non lo so...»
Arturo era imprevedibile. Poteva andarsene il giorno dopo come restare per mesi. A New York c'era chi si occupava degli affari in sua assenza. Non aveva fretta. Gli occhi verdi schizzarono per tutta la stanza, posandosi più o meno su tutto tranne che su Joseph.

«No! Non voglio stare ai capricci di tuo fratello.»
Il rumore delle nocche di Paul che scrocchiavano risuonò forte come uno sparo. Poi fletté le mani, allargando le dita come se gli facessero male. «Non c'è altra soluzione...»
Joseph digrignò i denti. «Andiamocene via io e te, dove nessuno sa chi sei...»
Paul parve momentaneamente interdetto. «Non... non è possibile...»
A quel punto il più giovane si protese in avanti. «Oh palle!» esclamò, fendendo l'aria col palmo. «Tutte palle, altro che storie! Vedi, questo è sempre stato il tuo problema. Non sei mai stato capace di accettare quello che sei» tuonò Joseph, «perché hai paura di quello che pensa la tua famiglia, la gente. Il grande Paul Bosco, menomato dalla sua cazzo di famiglia! La verità è che sei un vigliacco e che lo sei sempre stato!»

Paul aveva un'espressione furiosa, al punto che Joseph si aspettava di essere colpito... e, che cavolo, moriva dalla voglia di ricevere un pugno solo per poterglielo restituire.
«Mettiamo in chiaro una cosa» sbraitò Paul. «Io mi preoccupo per te! Mio fratello è capace di tutto.»
Joseph alzò le mani di scatto, incredulo, e dovette camminare su e giù per non esplodere. «Non ne posso più. Non ce la faccio ad andare avanti così con te. Sono così stufo. Ne ho proprio abbastanza di questa storia... il fatto che non riesci ad accettarti rovinerà quel che resta della tua vita, ma questo è un problema tuo, non mio.»

Paul imprecò, sottovoce. «Non avrei mai pensato di dirlo... ma tu non mi conosci.»
«Io non ti conosco? Guarda che è tutto il contrario, stronzo. Sei tu che non conosci te stesso.» A quel punto Joseph si aspettava una esplosione emotiva, una reazione teatrale, eccessiva, incendiaria. Nulla di tutto ciò. Paul raddrizzò le spalle, alzò il mento e parlò, in tono controllato. «La mia priorità è assicurarmi che tu non corra pericolo... Mi sono scervellato dal giorno dell'aggressione per trovare una soluzione per te... per noi...»
«Allora direi che hai sprecato giorni preziosi. C'è una sola soluzione. Andarcene insieme lontani dalla tua famiglia. Abbandona questa vita finta che non ti rende felice!»

Paul fece di no con la testa. Con una violenta imprecazione Joseph girò sui tacchi e si allontanò... senza voltarsi indietro. Se la definizione di pazzia era rifare in continuazione la stessa cosa aspettandosi un risultato diverso, allora era andato giù di testa da tempo. Per la sua salute mentale, per il suo benessere emotivo e per la sua stessa vita, doveva lasciare tutto questo. Paul lo afferrò per un braccio, voltandolo con uno strattone e andandogli sotto furibondo. «Non azzardarti a piantarmi in asso in questo modo.»

Joseph fu travolto da un'ondata di stanchezza. «Perché? Perché hai qualcos'altro da dire? Qualche trovata capace di ricomporre in modo accettabile le tessere del puzzle? Qualche stronzata sconvolgente in grado di raddrizzare la nave rendendo tutto perfetto, stile 'tramonto sulla spiaggia'? No. Nasconderai il tuo 'sporco segreto' sotto il tappeto, continuando la tua vita agiata da impostore, attento a non deludere nessuno, tranne te stesso.»
«Pensi sia facile per me?» ringhiò Paul.
«Vattene, e non tornare mai più.»

Paul scosse la testa, talmente contrariato che la ruga tra le sopracciglia era profonda come un canalone. «Tanto perché tu lo sappia, sono innamorato di te.»
«Finché non si tratta di sconvolgere la tua vita. Questo non è amore. È ottimo sesso per distrarti da quel cesso che è la tua vita.»

«José, cosa succede qui?»
Una donna di colore di mezza età, con capelli corvini che formavano un'aureola arruffata intorno al capo, entrò nella stanza. Un rosario di grani di onice scintillante e una piccola croce le circondava il collo.

«Evangeline... il mio amico sta andando via», Joseph sembrava imbarazzato. Qualcosa si mosse dietro le spalle della donna, lentamente un serpente nero si avvinghiò al suo braccio sinistro.

Paul, dopo un attimo in cui non fu in grado di fare e dire niente, indietreggiò fino a raggiungere la porta d'ingresso opposta della stanza, fin quasi ai gradini del portico. Un lampo balenò mettendo in risalto i tratti alterati della donna. Un tuonò rimbombò subito, scuotendo la catapecchia con tanta forza che il porticato sbatacchiò. Paul barcollò per non perdere l'equilibrio. Quando Joseph andò verso di lui, si ritrasse, indietreggiando goffamente sotto la pioggia battente. Il gradino pericolante parve cedere sotto il piede, mentre il dolore gli pervadeva la caviglia. Si sentì cadere... cadere... Atterrò in una pozzanghera con il fondoschiena. Restò a bocca aperta sputando fango e pioggia, troppo sconvolto per gridare. Cercò di alzarsi ma il fango lo risucchiò.
Joseph si avvicinò. «È innocuo» disse, indicando il rettile. «Mia zia Evangeline è una mambo, una sacerdotessa vuduista.» Paul rabbrividì. «È un tramite tra i loa, gli spiriti, e l'intera comunità. Non fa male a nessuno...» cercò di rassicurarlo.

La donna uscì sul portico con il serpente attorcigliato attorno al collo. Paul provò ancora una volta a fuggire.
«Evangeline, puoi tornare dentro... il mio amico ha il terrore dei serpenti.»
La donna guardò Paul con un'espressione esterrefatta, poi prima di rientrare gli disse: «Damballa vede morte attorno a te, fai attenzione».

***


Quella sera tutto gli dava fastidio, anche sua madre che aveva commentato, guardando Antony aggirarsi per la villa, come questi non gli somigliasse per niente. «Sei sicuro che sia tuo figlio?» gli aveva chiesto con un pizzico di ironia. Arturo aveva represso uno scatto d'ira e si era limitato a dire laconicamente: «Gli occhi sono i miei».
Poi si era scusato con l'esasperante genitrice ed era uscito dalla lussuosa villa dei Bosco, appena fuori New Orleans. Aveva preso la Lancia, dicendo a Luke che non aveva bisogno di lui. Mentre si dirigeva verso Basin Street, un ricordo era balenato nella sua mente. La prima volta che aveva visto Antony la somiglianza con lei lo aveva colpito come uno schiaffo in pieno viso. Dormiva serenamente e lui si era appoggiato alla culla e aveva atteso che si svegliasse, con una certa trepidazione. Quando il bimbo aveva aperto gli occhi, aveva tirato un respiro di sollievo, perché se avesse visto anche gli occhi di lei nel loro figlio, non sarebbe riuscito a sopportarlo. L'avrebbe affogato come si fa con i gatti randagi.

Arrivato a destinazione, attese un po' prima di scendere dall'auto. Si chiese perché non la lasciasse andare una volta per tutte, perché tornasse da lei come una nave al porto sconosciuto, benché fosse stanco dei suoi rifiuti, benché la disprezzasse, la odiasse, la temesse. Il fatto è che l'amava, si disse, di sicuro l'amava troppo, e la vicinanza emotiva dell'oggetto del suo amore - Evelyn - gli pareva opprimente ed eccessiva. Proprio per questo Evelyn, il contatto più intimo che aveva avuto in tutta la sua vita, gli risvegliava a volte un tale odio. Se Evelyn si mostrava cortese la vedeva come pericolosa. Quando lo aggrediva allora era ostile e bellicosa. Non era mai innocente. Non poteva lasciarla andare per la stessa ragione per cui non poteva stare con lei, perché lo stesso aspetto che lo affascinava gli sembrava così grande e intenso che pensava di non saperlo gestire.

Evelyn lo attraeva perché la trovava semplicemente travolgente, nel migliore e nel peggiore significato della parola, perché pensava che lei avrebbe potuto strappargli tutto, a cominciare dalla pace interiore, che già gli aveva sottratto. Gli sembrava di non aver conosciuto nessun'altra donna come lei. Ma pensava che se ne fossero accorti già tanti e che prima o poi qualcuno se la sarebbe portata via per sempre. E questo non poteva permetterlo.
Si chiede se non averla mai incontrata fosse stato meglio. Se non l'avesse mai conosciuta, non l'avrebbe neanche rimpianta, dal momento che non si può sentire la mancanza di quello che non si è conosciuto, e non avrebbe perso la testa come gli stava succedendo.

Logorato da una sensazione di impotenza, straziato dalla contraddizione di desiderare tanto una persona che non rispondeva ai principi morali riconosciuti dalla società (una tenutaria, figurarsi!), una donna di cui non si sarebbe mai fidato e che lo faceva sentire meschino, sperava di ricambiarla con la stessa moneta, non permettendo che neanche lei si dimenticasse di lui. Così, in preda a un pungente e insidioso odio nei confronti di Evelyn non resisteva alla tentazione di avvilirla, pungolarla, mortificarla. E così facendo non sfogava solo la propria frustrazione, ma otteneva una sorta di autoassoluzione.

Bussò tre volte alla porta a intervalli regolari e lei, come sempre, venne ad aprirgli: imminenza di caduta, corsa verso il precipizio, finestra aperta sul vuoto.

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