Capitolo XXII

Uscirono insieme al sole del pomeriggio e camminarono uno accanto all'altra evitando di prendersi per mano, finché lui, senza fermarsi, le passò un braccio attorno alle spalle. A quel punto si girarono a guardarsi in faccia e, quasi senza rendersene conto, si fusero in un abbraccio, fermi in mezzo al marciapiede, stringendosi come due naufraghi, ansimanti, ciascuno salvagente dell'altro, con una tale passione che i passanti cominciarono a rivolgere loro divertite occhiate di curiosità. Lui affondò la faccia nei capelli di lei, nella notte più buia, e rimase a respirare gli effluvi familiari di tiglio e feromoni che trainavano folate di ricordi. Desiderava stare lì, continuare a nascondere la faccia per celare la commozione imbarazzante che lo investiva, le scariche di desiderio, come correnti elettriche, che gli partivano dai polpastrelli delle dita quando la toccava.

Alla fine lei, accorgendosi dello spettacolo che stavano dando, si staccò e continuarono a camminare sfiorandosi, tenendosi per mano; e il contatto della pelle dell'altro contro le dita diventò all'improvviso memoria tattile, ricordo della pelle accarezzata là dove pareva pulsare, segreto e profondo, il battito stesso della vita.
Attraversarono Bourbon Street quasi senza scambiarsi parola, sorridendosi come bambini timidi, sospesi in un muto e fiducioso incantesimo.

La cima degli edifici e l'attigua striscia del cielo erano profilate di giallo, trattenevano la luce dell'ultimo sole pomeridiano come se fosse un'aura, dando alla scena un'atmosfera irreale da sogno. La sensazione che aveva tormentato Louise per tanti anni, l'insopportabile percezione del vuoto, all'improvviso taceva, sedata, quando guardava il profilo di Fabrice, perché la presenza di quell'uomo trasformava la città sporca, chiassosa, brutta, inospitale, in un posto speciale, in un luogo che poteva, finalmente, dire suo.

Arrivati all'auto, suo malgrado, fu costretta a spezzare l'incanto. Staccò la mano e ritornò in sé. «Devo proprio andare...»
Ma prima che lei entrasse nell'automobile, lui la strinse con tutte le forze e le spettinò i capelli; lei cercò gli occhi di lui che brillavano più verdi che mai, come nell'oscurità della stanza in cui avevano fatto l'amore e del pensiero, e ne incontrò lo sguardo verde, infantile e immediato nella veemenza del desiderio; gli accarezzò il viso come se sapesse fin da quel momento che un giorno non si sarebbe più ricordato com'era; rubò attimi al tempo, e tutto parve o possibile o impossibile, perché quell'intensità non lasciava alternativa, era vincere o perdere, prendere o dare, e si addentrarono in un dialogo profondo e senza parole, tanto più eloquente quanto più silenzioso. Entrambi però tacquero le cose di cui non potevano parlare: del fatto che a lui cominciava a stare stretto il vedersi nei ritagli di tempo e di nascosto, e degli impegni familiari di lei che l'avrebbero tenuta lontana da lui.

***

Louise guidò, diversamente dal solito, piano. Sapeva di essere in ritardo per la riunione di famiglia a casa di Elisa e Frank. Aveva promesso alla cognata di non lasciarla in balia di Carmela Bosco più del necessario. Non gliele importava poi molto. Sopravviverà lo stesso se ritardo qualche minuto in più, pensava. Si sentiva egoista, voleva godersi ancora la sensazione di calore e stordimento che Fabrice le aveva lasciato addosso.

Quando arrivò trovò le due donne nel salottino che parlottavano fitto fitto. Elisa, in abito blu e i capelli che le ricadevano indolenti sul viso, fu la prima ad accorgersi del suo arrivo. Le fece un sorriso. «Louise!»
L'interpellata salutò le due donne. La più anziana, capelli e occhi neri da gitana e il viso fiero solcato da qualche ruga, si girò lentamente verso di lei e abbozzò un saluto.
«Ti trovo bene» le disse.
«Anche lei, Carmela, mi sembra in ottima forma.»
L'altra fece un gesto come a schernirsi, e non le diede neanche il tempo di sedersi, prima di coinvolgerla nella discussione. «Elisa si è dimenticata di spedire l'invito per la mia festa a suo padre. Ti pare possibile?»
Louise guardò la cognata. Sembrava calma, ma non si fece ingannare dall'apparenza. La conosceva bene: stava ribollendo dentro.
«Forse non è neanche a New Orleans in questo periodo...» provò a dire.

Carmela Bosco guardò prima l'una e poi l'altra e sospirò. «È per la sua nuova moglie? Gli uomini non sanno stare da soli» aggiunse, cercando di rassicurare Elisa come poté, dal momento che la considerava un po' come la figlia che non aveva mai voluto avere. 'Voluto' e non 'potuto', perché Carmela non aveva mai desiderato figlie e aveva pensato che quando i suoi figli si fossero sposati, le nuore sarebbero diventate una specie di figlie, dal momento che le mogli dei suoi figli avrebbero assecondato i desideri di questi. E siccome Carmela non aveva mai messo in dubbio che i suoi figli sarebbero stati il bastone della sua vecchiaia, era logico pensare che le nuore l'avrebbero curata quando si fosse ammalata e si sarebbero premurate di assicurarsi che non le mancasse niente. E non c'erano dubbi che Elisa fosse nata per quel ruolo: così dolce, buona, docile, a modo e per benino... Non aveva ambizioni e, quanto a vizi, non fumava neanche. Uguale all'altra sua nuora, la newyorchese. Quella che, all'inizio, le sembrava perfetta, ma che con la sua gelosia per Arturo era divenuta sempre più seccante. Tanto che ormai la tollerava a malapena.

In realtà aveva iniziato già prima del matrimonio. Una nenia insopportabile. Lei aveva cercato di rassicurarla in tutti i modi. Si lamentava che Arturo era a New Orleans a spassarsela con un'altra mentre lei si occupava dei preparativi per il matrimonio. Ma che razza di cagna poteva essersi messa dietro il culo inquieto di suo figlio per convincerlo a rinunciare a un matrimonio del genere? Arturo era troppo pragmatico per fare un colpo di testa. No, lei glielo aveva sempre detto che non aveva motivo di preoccuparsi e glielo aveva ribadito anche prima di venire a New Orleans, allorché aveva iniziato con le solite scenate. Lo sanno tutti, le andava ripetendo, per gli uomini ci sono due tipi di donna: quelle con cui sposarsi e quelle con cui divertirsi. Una donna, pertanto, doveva scegliere se voleva essere una storia speciale nella vita di un uomo o mera mercanzia, foraggio, perché l'eccessiva disponibilità alimenta il disprezzo. Era un ritornello antico come il mondo, ed era chiarissimo, come il sole, che prima o poi Arturo si sarebbe stancato del suo capriccio e sarebbe tornato da lei. Tutti sanno e trovano normale che un uomo giovane abbia voglia di conoscere un po' il mondo prima di sposarsi, ma si sa anche che quando uno vuole mettere la testa a posto non lo fa con della merce usata, come quella che frequentava a New Orleans. Certo, anche dopo il matrimonio Arturo non era stato con le mani in mano, aveva sempre qualche donnaccia intorno. Era irrilevante perché la migliore era la moglie, era da lei che tornava sempre, perciò di cosa si lamentava?

Lo sguardo scuro si posò su Louise. Lei era un'altra faccenda. Quando l'aveva conosciuta, era sembrata adatta per smuovere il suo Paul. Di buona famiglia, attraente come lui, e in più carismatica. Una bellissima coppia! Ahimè, aveva qualche vizio, come il fumo e, a volte, l'aveva sorpresa anche a bere. Donne moderne, puah! Il vero cruccio però erano i figli che non arrivavano. Con Paul era sempre stato così, lui aveva i suoi tempi! Ora però lei era lì con tutta l'intenzione di porre rimedio all'inconveniente.

Elisa prese un respiro prima di rispondere. «No, non è per la nuova moglie... Neanche la conosco... Mi è passato proprio dalla testa. Proverò a chiamarlo per vedere se è in città per invitarlo alla sua festa.»
Louise le lanciò un'occhiata di sottecchi, invidiava la capacità della bionda di non perdere mai la calma. Un messaggio muto passò tra le due giovani donne. «Allora, Carmela, mi racconti le novità di New York» disse la mora, prendendo la suocera sottobraccio e andando verso la sala da biliardo, dove la parte maschile della famiglia Bosco si trovava.

Elisa restò indietro, si prese un attimo per assicurarsi di andare di là con un'aria serena. La verità era che lei aveva paura di suo padre, perciò cercava di dimenticarne l'esistenza. C'era una scena sepolta nel profondo del suo cuore di cui non aveva parlato a suo marito, solo Louise sapeva. Aveva cinque o sei anni, dormiva nel suo letto abbracciata all'orsetto rosa, indossando un pigiama di cotone con un motivo a fiorellini rosa e azzurri. Lo ricordava benissimo. Il rumore l'aveva svegliata e aveva aperto la porta lentamente, molto lentamente, ed era avanzata lungo il corridoio a passettini attutiti, tastando le pareti per compensare l'incertezza della penombra. Mentre percorreva il corridoio i suoni che arrivavano dalla sala si erano fatti più distinti e quelli che all'inizio non erano che rumori incoerenti, parole slegate, frammenti di conversazioni spezzate, si andavano articolando man mano che aumentava il volume e aveva distinto sempre più chiaramente la voce adirata del padre che copriva le timide difese della madre. Adesso, a venticinque anni, immaginava che lui fosse rientrato e avesse trovato qualche immaginaria prova di infedeltà della moglie. Immaginava che lui avesse anche bevuto più del solito. Elisa di cinque anni continuava ad avanzare a tentoni per il corridoio ed era arrivata in sala. Dalla porta poteva vederli, mentre loro non vedevano lei. Le grida erano salite di tono fino a riempire completamente l'aria. Il padre aveva afferrato la madre per la lunga chioma bionda da principessa e l'aveva costretta a inginocchiarsi, a strisciare per terra. Vedeva l'espressione di dolore sulla faccia della madre. Ma la cosa peggiore era l'umiliazione nei suoi occhi azzurro cielo.
Lei non sapeva cosa fare, avrebbe voluto gridare e dirgli di lasciar andare la mamma, di non farle male, ma la paura la paralizzava e non riusciva ad aprire la bocca. Lui le aveva mollato un ceffone che aveva rotto l'aria come uno sparo e lei aveva avvertito che si stava facendo la pipì addosso dalla paura. Era tornata in camera sua a piccoli passi, rifacendo il cammino a ritroso in tutta fretta, cercando di non fare rumore.

Elisa portava i capelli corti già prima che andassero di moda.
Dopo quell'episodio aveva chiesto alla madre di tagliarle i capelli e non se li era più lasciati crescere. Negli anni Elisa aveva aggiunto molti altri motivi per aver paura di suo padre e degli uomini in generale, ma quello era stato il primo.

Scrollò la testa, come a scacciare il ricordo, e seguì le altre due donne. Aveva bisogno di Frank. Lo trovò in piedi vicino all'angolo bar. Gli occhi scuri di lui corsero subito ai suoi, appena mise piedi nella stanza. Lei gli sorrise. Le fossette generate dal movimento delle labbra le incresparono le guance e il cuore di lui prese a danzargli lievemente nel petto. Nonostante non fossero sposini novelli, sua moglie gli faceva sempre quell'effetto. E lei ne era consapevole. Si rasserenò continuando a guardarlo. Capelli castani folti, arruffati, che avrebbero avuto bisogno di qualcosa di più di un'acconciatura e una spuntatina. Occhi castani tranquilli circondati da una foresta di ciglia. Naso dritto, labbra carnose in un viso sottile. Non era bello ed elegante come suo fratello Paul, che accanto a lui si stava versando da bere; e non era ambizioso e deciso come Arturo, che le dava le spalle mentre guardava dalla vetrata che dava sul giardino. Fin da piccolo Carmela Bosco aveva cercato in Frank una caratteristica che lo facesse spiccare come gli altri due, ahimé, il minore dei Bosco non aveva niente di eccezionale, ma era devoto alla famiglia, come gli altri due. Per Elisa Duval invece Frank Bosco aveva rappresentato, fin da quando l'aveva conosciuto, un'isola di pace e serenità in una vita costellata dalla costante paura del maschio.

Arturo, all'entrata nella stanza delle donne, andò verso la madre per offrirle il braccio e farla accomodare sull'elegante divano. Ignorò volutamente Louise, e accortosi dello sguardo imbambolato di Frank, sbuffò. I suoi due fratelli messi insieme non facevano un uomo degno di tale nome: un invertito che correva dietro ai negri e un pappamolle schiavo della fica della moglie.

Louise, impassibile di fronte alla scortesia di Arturo a cui era comunque abituata, lanciò un'occhiata al marito, intento a bere. Da un po' di giorni era tranquillo, gli era passata l'ansia febbrile da cui era stato colto dopo l'aggressione al... al suo ragazzo. Si chiese se si fosse messo l'anima in pace oppure avesse ricominciato a frequentarlo. Pregò non si trattasse dell'ultima ipotesi, non perché fosse gelosa, ma teneva le possibili ritorsioni di Arturo. Perché, per quanto più volte non avesse resistito a provocarlo lei stessa, era consapevole che il maggiore dei Bosco era un uomo pericoloso, non si sarebbe fatto scrupolo di niente e nessuno. Represse un brivido. Si accorse troppo tardi che Carmela le aveva domandato qualcosa, ma lei, assorta nelle sue riflessioni, non aveva compreso.
«Mi scusi... ero un po' distratta, diceva?»

La suocera la soppesò con sguardo acuto. «Il dottor Stanton ci ha dato appuntamento per la settimana prossima.»
«Chi?» chiese interdetta.
«Il medico che ha fatto nascere le gemelle, Louise!», il tono era seccato e non prometteva niente di buono. «Mi sembra strano che tu, dopo tutto questi anni di matrimonio senza figli, non lo abbia mai consultato.»
Louise sbiancò e cercò lo sguardo di Paul, che si versò un altro drink.
«Io non...» cercò di obbiettare per mettere un freno all'iniziativa inopportuna della suocera.
«Suvvia, cara, non c'è bisogno di imbarazzarsi, siamo in famiglia!»
Lei, sempre più sconcertata, continuò a cercare lo sguardo di Paul, che trangugiò il bicchiere di whiskey doppio che aveva in mano tutto d'un fiato.
Carmela le rivolse un sorriso incoraggiante. «Vedrai che risolveremo tutto.»

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