Capitolo XVIII
🔞 Il capitolo contiene scene sessuali esplicite.
Fabrice faceva correre le dita sullo Steinway&Sons nuovo di zecca. Gli ottantotto tasti, cinquantadue bianchi e trentasei neri, disposti in sette ottavi più due note iniziali, si abbracciavano gli uni con gli altri per formare suoni; offrivano, affettuosi, il calore che gli mancava. Tutto quello che era, ciò che saldamente lo definiva e sosteneva, riaffiorava nel momento in cui suonava lo strumento. Si sentiva sincero solo davanti alla tastiera. Gli mancava la vita che non aveva con Louise, esattamente come rimpiangeva la sorella e la madre che non c'erano più.
Può darsi, si diceva, che la toppa che Louise mette alla mia anima sia una menzogna. Può darsi sia un ricordo, religione o arte. Quando però chiudeva gli occhi immaginava quelli scuri di lei, capaci di inventare di continuo una realtà nuova. Una realtà bicolore come loro due, uno spazio e un tempo più giusti di lui. Pupille trafitte dalla luce dei giorni che irradiavano altra luce interiore. La realtà che descriveva si riferiva a un altro tempo, a un altro paesaggio, ad altri giorni, si allontanava dalla tarda primavera che si stava avvicinando all'estate appiccicaticcia e lo conduceva attraverso le ore a quelle in cui si baciavano, percorrendo labirinti delimitati dalle sue curve, risonanti dell'eco della sua voce.
E per quanto facesse improbi (e inutili) sforzi per scacciare la sua immagine dalla testa quando non era con lui, lei appariva davanti ai suoi occhi, repentina e brutale come uno sparo, perfetta, immensamente Louise.
Aveva perso il potere di evocarla come e quando voleva e divenuto cosciente del sinistro passare delle ore e della fragilità del desiderio, quella debole barchetta che rischiava di continuo di naufragare tra le onde del tempo.
La serata al Louisiana aveva riscosso particolare successo, i clienti erano accorsi, come sempre, per sentirli suonare e bere, nonostante gli eventi della settimana prima e la mancanza di Joseph, ancora in convalescenza a casa di Lee che, stranamente, non aveva più parlato dell'accaduto; si era limitato a dire che il ragazzo aveva ancora bisogno di tempo per riprendersi. E quando gli aveva chiesto se potesse passare a trovarlo, Lee gli aveva risposto: «Lasciamolo in pace, a tempo debito ritornerà».
Era difficile ignorare la sensazione che Lee gli nascondesse qualcosa, ma lo stimava troppo per insistere e mettere in dubbio le sue parole.
La sala era una calca di corpi inquieti ed espressioni interrogative sui colli tesi, un'immensa babele di avventori dagli occhi lascivi, ansiosi di fare quattro chiacchiere, approfittando della pausa, con la cantante che quella sera si esibiva.
Fabrice si diresse al bancone del bar per ordinare un whisky doppio, in attesa del momento in cui Nathalie Long si fosse degnata di tornare a cantare invece di gironzolare in mezzo alla gente. Rabbrividì a causa di un'ansia effervescente che gli ribolliva nelle viscere. Aveva bisogno di vedere Louise, era quasi una settimana che non aveva notizie di lei. Né lui poteva azzardarsi a cercarla, visto che gli aveva espressamente chiesto di non farlo. «Mi farò viva io. La situazione a casa è... un po' complicata» gli aveva detto, prima di salutarlo con un bacio sulla porta di casa. Non gli aveva dato tempo di chiedere spiegazioni perché era fuggita via, perdendosi nel chiarore dell'alba che inghiottiva l'ultima ombra della notte.
Nathalie si avvicinò a lui, la pelle d'ebano riluceva nel gioco di luci del locale. «Mi dai altri dieci minuti?» gli chiese, sensuale. Lui le dedicò un'occhiata distratta e fece di sì con la testa.
La sentì arrivare ancora prima di vederla, quando avvertì la strana agitazione che si stava creando alle sue spalle; quindi, molto lentamente, si girò, assaporando in anticipo il piacere di vederla avvolta nelle vesti bianche, come se si trattasse di un gioiello costoso protetto da carta patinata nella scatola. E lei, naturalmente, era lì, con un bicchiere in mano, centro immanente di un capannello d'ammiratori e ipocriti, irradiando attorno a sé lampi di bellezza a ogni impercettibile cenno della testa. Lo sorpresero l'eleganza e i modi.
Natalie fece una smorfia quando si vide costretta a spartire l'attenzione del pubblico con lei.
Louise parlava con una sola persona per volta, non con tutti quelli che aveva attorno, e ascoltava con attenzione, sorridendo sul suo décolleté incipriato, senza cadere nella tentazione di guardarsi attorno. La serietà e l'aria con cui dava a intendere di essere interessatissima a qualsiasi cosa le stessero dicendo solleticavano irrimediabilmente la vanità maschile.
Fabrice non riusciva a staccare gli occhi dal suo viso, aspettando il momento in cui lei si fosse necessariamente accorta di essere guardata. E quando questo accadde, quando i loro sguardi si incrociarono, lui alzò il bicchiere per salutarla e lei gli rispose con un cenno del capo sottolineato da un grandissimo sorriso che pareva sincero. Attraverso l'impenetrabile cortina di rumori, lo sguardo di Louise, indifferente al baccano, superò senza problemi ogni ostacolo e gli trasmise un'immediata sensazione di serenità. E allora, sorpresa, gli andò incontro, gli si mise accanto, si appoggiò al bancone con un'espressione stanca e gli chiese cosa stesse bevendo.
«Un whiskey doppio.»
Lei gli strappò il bicchiere di mano e lo scolò in un sorso.
Fabrice notò che le tremavano le mani (bianche, dalle nocche secche che terminavano con unghie curatissime) e si disse che c'erano solo due possibili spiegazioni: o era alcolizzata o timida. O entrambe le cose.
Non ebbero il tempo di parlare troppo perché venivano interrotti di continuo da qualche sconosciuto che si avvicinava per attaccare bottone. Louise non sorrideva più, si limitava a fare patetiche smorfie da bambola.
Qualche minuto dopo arrivò Paul Bosco, con un'aria persa. Era andato lì solo per avere notizie di Joseph. Ancora non era tornato a lavoro, ma Lee gli aveva assicurato che si stava riprendendo.
«Andiamo, cara?» sussurrò a Louise con un sorriso finto, facendo finta di ignorare l'ultima conquista di sua moglie.
«Arrivo subito, tesoro!»
Si alzò, sfiorando il braccio di Fabrice, e si chinò appena verso di lui. «Domani, nel primo pomeriggio a casa tua?»
Lui fece cenno di sì.
***
Louise arrivò a casa di Fabrice con il cuore in gola. Lui l'aspettava all'inizio delle scale. Salirono abbracciati. Con la coda dell'occhio notò come l'ombra congiunta che formavano, nera e alata, simile a quella di un pipistrello allegorico, li seguisse, due passi indietro, salendo le scale con risoluzione luciferina. Si sentiva intimidita dall'emozione di essere con lui. Si fermarono sulla porta, lei alzò lo sguardo con la sensazione familiare di essere osservata, di essere fissata intensamente, incrociò le pupille di Fabrice, così infiammate che si sentì contagiata e, a sua volta, si fermò a guardarlo. Passarono alcuni secondi che sembrarono ore e in cui ascoltarono il rumore dei loro respiri sincronizzati, mentre si studiavano con avidità. Poi lei spezzò l'incantesimo e fu la prima a distogliere lo sguardo. Lui introdusse la chiave nella serratura e aprì la porta con dolcezza. Dissolvenza in nero.
Quando faceva l'amore con Fabrice nella pratica era lui a possederla, a prenderla, ma Louise sentiva che era lei a farlo, era lei che lo accoglieva, dentro di lei, perché lui la penetrava. Lo sentiva come l'altro, indecifrabile e allo stesso tempo complementare. Se lo avesse avvolto dentro di lei, pensava, l'avrebbe completata. Cielo e Terra, Luce e Tenebra, Vita e Morte, Caos e Ordine. Non avrebbe più dovuto chiedersi a ogni passo chi era in realtà. Lo sentiva come la parte che le mancava, una Louise essenziale che aveva perso in un dato momento, molti, moltissimi anni prima, in un paradiso perduto e infantile che non avrebbe mai più ritrovato. Agognava la perfezione di uno stato primordiale, una condizione di forza e autonomia anteriore al maschile e femminile. Non voleva essere metà di uno. Provava una profonda nostalgia per un ideale che si portava dentro, che forse più che perduto non era mai esistito, e cercava nel sesso la Totalità, rimpiangendo in modo doloroso una riunificazione che sapeva fin dall'inizio impossibile, mero desiderio di fusione. E continuava a chiedersi: perché cercare di toccarci se veniamo da universi inconciliabili?
Quando stava con Fabrice una parte di lei si disgregava in atomi minuscoli. Si scioglieva e si trasformava in un fuoco liquido, trasportato da ondate di lava. Si stendeva ben oltre se stessa, superando limiti fisici e chimici. Allo stesso tempo c'era la meraviglia del corpo teso, del cuore palpitante, il miracolo del sangue che scorreva, dei muscoli contratti. Viveva sottomessa alla tirannia dell'orgasmo. Ma poi la tristezza l'assaliva a tradimento quando pensava alla vita quotidiana, lontana da lui, a quel remoto sistema di orari, bisogni e legami che intuiva ma non riusciva a precisare, alle norme di vita che avevano preceduto la loro storia e che sarebbero sopravvissuti a essa. Le sembrava che ci fosse qualcosa fermo a mezz'aria, la liquida nozione di qualcosa di imprendibile che andava perduta per sempre.
Lo sentiva ormai totalmente suo che il non essergli accanto le sembrava un'amputazione. Desiderava di continuo di poterlo avere con sé, morderlo, succhiarlo, divorarlo, poter controllare qualcosa di più tangibile dell'immagine sfumata che si costruiva in sua assenza, tra frammenti di conversazioni semidimenticate, fotogrammi imprecisi di vari amplessi e istantanee velate dalle sue impressioni. Alla fine si stancava di guardare le cose sfuggendo con cura la paura di trovarlo nell'eco di ogni silenzio, nel vuoto di ogni spazio, in profili colti a tradimento per la strada, nella scia di un profumo di alcuni sconosciuti che la facevano pensare a lui. Le piaceva crearsi una cappella, uno spazio del desiderio, un territorio a parte, privato, che contenesse in sé le immagini, i rituali e le orazioni dell'amore. Ma lei guardava la loro situazione e capiva che poteva offrire solo sesso. E ciò nonostante sentiva il loro vincolo come qualcosa di solido e intenso. Perché? Perché amplificava i momenti che trascorreva con lui: una volta, quella reale, quella che accadeva nel tempo e nello spazio; e molte, molte volte ancora, quando riviveva quei momenti nella sua testa, riviveva le cose che facevano, la sua pelle, il suo corpo, i suoi peli, il suo sesso, la sua voce. Lo sentiva così vicino perché Fabrice passava molto, moltissimo tempo al suo fianco, anche quando lui stesso sapeva di non farlo.
Stanca di quelle riflessioni che non l'avrebbero portata da nessuna parte, lo guardò e ciò bastò per sentire tangibile il desiderio che le svolazzava intorno. Si ritrovò sprofondata nel suo letto. L'arco di tempo tra l'entrata nell'appartamento e il letto si era smarrito nella memoria, e la prima cosa che ricordava, subito dopo essere entrata, fu il contatto con le lenzuola pulite e i quattro angoli del letto sfumati dalla luce delle candele. Lui la mise bocconi, le portò le mani dietro alla schiena e gliele tenne ferme con una delle sue. Quindi sentì qualcosa che le solleticava i polsi e poi se li trovò legati. Probabilmente se non fosse stata così presa da lui glielo avrebbe impedito, le costrizioni suscitavano in lei la voglia di fuggire lontano. Perciò non si lagnò quando strinse né quando le bendò gli occhi con un foulard. Cercò di rilassarsi. Lui, con dolcezza ma risoluto, la schiacciò contro il letto, e sentì la sua voce suadente nell'orecchio che le ripeteva di stare tranquilla, perché non le avrebbe fatto male. A quel punto avvertì qualcosa di duro che le scivolava lungo la schiena. Non sapeva cosa fosse ma si abbandonò alla sensazione e dimenticò tutto quello che non era il suo corpo. Fu una cosa dolce, calda, appiccicosa. Assaporava in bocca delizie fondenti. Cioccolatini di desiderio fuso a cento gradi. L'aggeggio duro scendeva lungo la sua schiena e indugiava pigramente sulle natiche. E all'improvviso qualcosa di duro, durissimo, tanto duro da farle male, si infilò tra le gambe. Le piaceva e le faceva anche un po' paura. Lo sentiva entrare e uscire, all'inizio faticosamente, quindi sempre più dolcemente mentre lei si lubrificava, e alla fine con la forza di una tempesta, sempre più potente, e profondo. A un certo punto tirò fuori l'aggeggio e lo sostituì con il suo membro, e lei avvertì la differenza, perché era più dolce e flessibile, e non le faceva male, e supplicò, non si sa bene chi, perché durasse il più possibile. Comunque chiunque fosse il destinatario della preghiera l'ascoltò perché la massa di carne che si agitava alle sue spalle si prendeva tutto il tempo che voleva e proseguiva ancora e ancora. Accorciò in modo progressivo il ritmo e i suoi affondi si fecero sempre meno precisi. La penetrava in modo dolce e profondo. E quando arrivava in fondo lo lasciava dentro un po' e lei poteva sentire la punta del glande che le premeva sulle pareti della vagina. Avvertì un liquido freddo e appiccicoso che le scendeva lungo la schiena e poi lui che la leccava. Ci mise un po' a capire che si trattava di champagne.
Le facevano male le braccia e le gambe, faceva fatica a respirare perché aveva la faccia schiacciata contro il cuscino, ma non le importava. Poteva anche morire asfissiata, svenire una volta per tutte in quel letto e non le sarebbe importato. Lui continuava a muoversi, avanti e indietro. La teneva per i capelli. Inarcò la schiena. Lo sentì con una voce simile a un remoto canto di sirena e diceva che voleva vederla venire, vedere come le tremavano le gambe, come contraeva i muscoli dello stomaco e la cosa la eccitò tanto che sentì una corrente calda salire dal monte di Venere fino alla gola come un razzo, le viscere sciogliersi come cioccolato caldo, e cominciò a gemere, in un modo così acuto che stentò a riconoscere quella voce come sua. Fu un gemito lungo e profondo che le venne da dentro, da qualche punto recondito e fino ad allora inesplorato, e tagliò l'aria con un coltello. Si dilatò in proporzioni oceaniche. Fu come se si aprisse una diga. Onde e onde di acqua salata le scaturirono da dentro. Sentiva che originava fiumi, laghi, mari... e lui avanzava faticosamente verso il suo fondo come un nuotatore che va controcorrente. E dopo che fu venuta, lui continuò a serpeggiargli dentro, sincronizzando balletti acquatici per lunghi minuti che a lei sembrarono ore, perché aveva un gran male all'inguine, e alla fine lo sentì gemere e capì che era venuto anche lui. Allora chiuse gli occhi, sazia, e si addormentò quasi di colpo.
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