Capitolo XLVII
Fabrice aveva fretta di ritornare nell'appartamento in cui lui e Joseph si erano nascosti. Uscire era stato un azzardo, ma le provviste erano finite e loro due non potevano campare di sola aria. Fece l'ultimo isolato guardandosi di continuo alle spalle.
Arrivato davanti alle case di mattoni in Bayou St. John si preparò a un'apparizione di Lee. Nessuna traccia dell'uomo che per lui era stato un padre. Fece un sospiro profondo. Non aveva bisogno del suo comitato di accoglienza metafisico. Lee era morto da due settimane e mezzo e gli era apparso in sogno per la prima volta alla vigilia del funerale, a cui Jim non aveva voluto che partecipasse. Per la tua sicurezza, aveva detto. Era stato un gran sollievo vederselo davanti vivo e vegeto, senza il pallore cadaverico e coperto di sangue; e nel sogno erano riusciti a parlare come erano soliti fare quando era ancora vivo.
Il passaggio alle "apparizioni" diurne era avvenuto qualche giorno prima. Quella mattina Joseph lo aveva svegliato proprio durante una delle conversazioni oniriche. Fabrice si era tolto le coperte di dosso e si era accorto di essere già sveglio e che Lee era lì. Gli aveva sorriso mentre balzava a sedere sul letto e sembrava fiero di sé. Poi, con i suoi modi disinvolti, l'aveva informato che non era diventato pazzo: c'era davvero un'altra vita dopo la morte.
Gli ci era voluto un bel po' per abituarsi, ma adesso non si stupiva più delle sue visite, sebbene non ne avesse parlato con nessuno. Dopotutto, solo perché non si riteneva pazzo non significava che anche gli altri la pensassero così. No, non era il caso. E poi, se Lee era un'allucinazione non gli importava perché in un certo senso era come se fosse tornato.
Stava ancora scrollando la testa per quei pensieri balordi quando rallentò davanti a una palazzina a tre piani. Si strinse nel cappotto di lana. Febbraio quell'anno significava vento umido che ti gelava le ossa e ti scompigliava i capelli. Un clima insolito per New Orleans. E quel che era peggio, pozzanghere ovunque anche quando non pioveva. Ogni cosa in città sembrava gocciolare come una spugna fradicia: le automobili, le case, gli alberi, tutto attirava l'umidità dell'aria e la trasferiva sul terreno, sotto i piedi.
Davanti al portone si scontrò con una donna, dallo scialle antiquato dai colori vivaci e grande quanto un copriletto, che lo guardò in modo strano, o così gli sembrò. La signora si trasse da parte per farlo entrare. Cercando di ignorare la sensazione di fastidio che lo sguardo della sconosciuta gli aveva lasciato addosso, si ritrovò davanti alla porta dell'appartamento.
Girò la chiave nella serratura e lanciò un'ultima occhiata alle sue spalle. Entrò. La stanza era vuota e triste come la casa di un vecchio, a riprova che i poveri, come i vecchi, si somigliano tutti. Quel posto era indistinguibile da qualsiasi altra casa abbandonata o covo di disperati in qualsiasi altra città: le assi di pino sul pavimento erano opache come carta vetrata, agli angoli del soffitto c'erano macchie di umidità del colore di urina. Nessun mobile, non un tavolo né una sedia. Solo delle coperte e qualche vestito, piegati e impilati in perfetto ordine. Il suo cuscino era un vecchio maglione grigio.
Joseph non si vedeva, forse era in bagno. Andò in cucina, l'unica stanza con un minimo di arredi, e mise in uno stipetto i pochi generi alimentari che aveva racimolato.
Impallidì al rumore della porta d'ingresso che si apriva.
«Fabrice...» Il sussurro di Joseph arrivò come un balsamo calmante.
Tornò nel soggiorno e lanciò un'occhiataccia all'amico. «Dove sei stato?» chiese in tono accusatorio.
Voltandogli le spalle, Joseph fissò lo sguardo sulla finestra dai vetri opachi, in fondo alla strada si intravedeva un giardinetto incolto. «Non ce la faccio a stare chiuso qui dentro tutto il giorno...»
«Joseph... è pericoloso.»
«Lo so.»
Fabrice si avvicinò e lo afferrò per un braccio. «Dove sei stato?»
Un lungo momento di silenzio. «Jose...»
Gli occhi verdi erano turbati. «Sei andato a cercarlo?»
Fabrice si sentì terribilmente vecchio e lontano mentre poneva la domanda a Joseph con tutta l'intenzione di fargli la paternale. Solo perché per lui era impensabile ormai qualsiasi sogno d'amore, di matrimonio e magari di marmocchi, o anche solo uscire con qualcuno, non significava che dovevano rinunciarci anche gli altri.
Scacciò via come si fa con le mosche il pensiero della sua vita andata a rotoli dall'oggi al domani. D'altra parte, quando mai è andata nel verso giusto? Pensò.
È assurdo voler tornare sui propri passi per cercare di trovare le cose perdute tra le fessure che si aprono nella memoria, perché la vita va avanti, e il destino tesse le sue complicate reti, e quello che cerchiamo ha continuato a crescere e non sarà mai più quello che era, tranne che nel ricordo.
Nel silenzio che regnava nella stanza, anche Fabrice guardò fuori dalla finestra. La sera stava chiudendo le sue porte alla luce, rimanevano solo alcuni deboli bagliori, impigliati tra i rami più bassi degli alberi.
Nel mondo ci sono migliaia di coppie che basano la loro relazione su una grande volontà e una serie di piccole rinunce comuni. Ci sono milioni di esseri che non pretendono dalla persona che hanno accanto un cento per cento di compatibilità e di gusti comuni. È la smania di perfezione che uccide gli affetti, la sete di assoluto, la paura del quotidiano, il perenne rimpianto di cose impossibili, il rifiuto costante di accettarsi come siamo e di accettare gli altri come sono. Quando uno non conosce se stesso è impossibile che capisca l'amore degli altri e quindi improbabile che rispetti chi l'ama. Ma il tempo ci offre due sole possibilità di scelta: o accettare ciò che siamo o lasciar perdere; e se decidiamo di non mollare, se scegliamo di restare in questo minuscolo pianeta e scendere a patti con la nostra ancora più minuscola vita, possiamo interpretare questa rassegnazione o come una sconfitta o come un trionfo.
Una volta spento l'incendio di Louise, Fabrice non aspirava più a grandi fuochi. Sperava solo di rinascere dalle sue ceneri e poter godere di certe braci di passione, di quel che restava del calore intermittente dei gesti familiari, degli anni di esperienza, della serenità magari offerta in un paio di occhi in cui non brillavano più né l'angoscia né il desiderio sfrenato, ma una dolcezza associata alle proprie abitudini, alla responsabilità ben accetta dal peso degli affetti; mentre piano piano andava scemando la stanchezza, lo colse una strana indifferenza per tutto ciò che aveva fatto in passato. La pace, in fin dei conti. O l'amore.
Quando ritornò con la mente al presente, si rese conto che Joseph non era più nella stanza. Seguì il rumore delle stoviglie e lo trovò a trafficare in cucina.
«Scusa...» disse solo.
Joseph si voltò e gli fece un sorriso debole. «Eri perso nei tuoi pensieri. Conosco il tuo sguardo... Non volevo disturbarti» rispose, asciugando una padella.
Fabrice lo fissò. «Scusa per prima, non ho il diritto di farti il terzo grado. Sono preoccupato per la tua incolumità.»
L'altro di chinò per prendere una scodella. «Ero andato nel bayou, da mia zia. Non vedo Paul da tempo, da prima dell'agguato» mormorò. Pausa. Sospiro.
«A Capodanno dovevamo andarcene. Era tutto pronto. Soldi. Documenti... Lui ha insistito per dirlo a... alla moglie. Era sicuro che avrebbe capito.»
Un silenzio stranamente delicato si posò sui due. Fabrice non avrebbe saputo dire quanto a lungo fosse rimasto lì, a fissarlo, con il cuore in gola.
«A casa ha trovato sua moglie che...»
Gli occhi scuri di Joseph si fissarono in quelli verdi di Fabrice.
«Cosa? Cosa è successo quando ha detto a Louise che voleva fuggire con te?»
Joseph sembrava essere caduto in una sorta mutismo. Stava cercando le parole adatte per dirgli qualcosa che lo avrebbe di sicuro sconvolto.
«Jose...»
Quando lo vide scuotere la testa, si fece più vicino, allora l'altro si arrese e disse tutto d'un fiato: «Non le ha mai detto niente. L'ha trovata in un lago di sangue. Aveva perso il bambino».
Fabrice battè le palpebre ripetutamente, come se una specie di nebbia emotiva si fosse levata sulla riva del suo fiume interiore. «Quale bambino?»
***
Louise aveva deciso di uscire di casa, appena Frank se n'era andato. Aveva bisogno di riflettere su tutto ciò che il cognato le aveva detto. Non poteva negare che la soluzione di Frank fosse la migliore per tutti: avrebbe scagionato Fabrice ed evitato di coinvolgere Elisa. Forse avrebbe anche potuto ricominciare una nuova vita, lontano da New Orleans, sempre che Carmela non l'avesse inseguita in capo al mondo. Aveva detto a Frank di preparare tutto per la fuga.
Buffo come la sua vita stesse per subire un tale cambiamento alla vigilia del suo compleanno. Trent'anni. L'inizio della maturità. Una data significativa che avrebbe dovuto festeggiare, se le circostanze fossero state diverse.
Aveva messo sul grammofono un 78 giri dei Lieder di Schubert. La musica però non era riuscita a rasserenarla, tanto più che ogni nota le ricordava Fabrice.
Alla fine si era messa in auto direzione Chalmette. Sua madre, prima di rinchiudersi in casa, ce la portava spesso.
Era un mercoledì particolarmente freddo e le rive del Mississippi erano quasi deserte, eccetto per il battello a vapore che faceva su e giù sopra le acque del fiume. Si sedette a un tavolino all'aperto di un piccolo chiosco. Optò per un caffè di cicoria. Più di uno.
Guardava l'enorme distesa del fiume mentre passavano le ore e il paesaggio cambiava di colore. Il cielo era diventato, alternativamente, celeste, indaco, blu ciano, cobalto, blu intenso e viola. Il fiume da giallo a grigio a nero. La rena aveva assunto tutti i colori dello spettro caldo: ocra, ambra, castano, marrone, rossiccio. Il paesaggio sembrava un caleidoscopio. Quel delirio cromatico la fece sentire ubriaca senza aver bevuto una goccia d'alcool.
Alla fine era scesa la notte e tutti i colori si erano fusi nel nero. Andò vicinissima ai margini del fiume e si mise a contare le stelle. Aveva un gran freddo e trent'anni addosso. In giro non era rimasto nessuno. Anche il chiosco aveva chiuso da un pezzo. Non c'era un'anima. Solo lei, l'acqua e le stelle.
Si mise a fissare inebetita l'acqua nera, praticamente piatta e immobile, eccezion fatta per certe onde leggerissime, piccole rughe orizzontali, fatte di schiuma, che scivolavano lente verso di lei. Cominciò a pensare che avrebbe potuto camminare verso l'acqua, camminare e camminare fino a non toccare più il fondo, annegarsi e amen. Morire giovane e con eleganza. Se resistevi all'impulso istintivo di risalire in superficie e respirare, la morte per asfissia nell'acqua era la meno dolorosa di tutte. Era addirittura piacevole. Una morte dolcissima. La carenza di ossigeno produceva allucinazioni che ti facevano perdere i sensi in una specie di estasi, senza accorgersene.
Louise aveva sentito dire di gente che faceva sesso con la testa infilata in un sacchetto perché la carenza di ossigeno moltiplicava per dieci l'intensità dell'orgasmo. Il fiume sarebbe stato il suo ultimo amante. Le onde le avrebbero dato il bacio mortale. Le avrebbero lambito dolcemente il seno, le gambe e il sesso, fino alla fine. Sarebbe arrivata in un paese sott'acqua dove timori, cattivi pensieri, slealtà, rancore, amori sfortunati, amarezza, malinconia, nostalgia e voglia di piangere erano messi al bando.
Guardava con desiderio la pace asettica che la morte avrebbe potuto darle. Ma sapeva che, anche se fosse entrata in acqua, non avrebbe avuto il coraggio di affogarsi. Provava un intenso desiderio di mettere fine a tutto, ma non aveva la forza di volontà necessaria per farla davvero finita. Non aveva ragioni per continuare a vivere, ma non soffriva neanche tanto da riuscire a smettere di respirare di sua iniziativa. Le restavano ancora davanti anni di uomini che non avrebbe capito e che non l'avrebbero capita e tutto un mondo in cui avrebbe dovuto lottare quotidianamente, un mondo allo sfacelo in cui le famiglie si smembrano e le relazioni umane erano prive di senso. Un mondo in cui c'era posto solo per i trionfatori. E per arrivare a esserlo bisognava sacrificare tutto il resto.
When fate you from this place...
Non aveva paura, non temeva la morte. E non le passava per la testa che in realtà l'unica idea che la spaventava era quella di continuare a vivere. Mentre guidava di ritorno al Garden, davanti alla prospettiva di dover affrontare una sequenza infinita di giorni tutti uguali, grigi, confusi e anonimi, sola, condannata a giocare come una pedina su una scacchiera che non capiva, pensò più di una volta di mollare la presa del volante e lasciare che la macchina precipitasse da una curva. Ma non lo fece perché in fondo sapeva che l'essere umano è progettato per andare avanti, nonostante tutto.
Quando apparve il cancello della villa, una sagoma infagottata in un cappotto scuro si parò davanti alla sua Packard. Louise affondò il piede sul freno e l'automobile squittì come un porcellino, mancando per un pelo l'alta figura. Fabrice Gautier la fissava infuriato, ma non appena la vide in volto la rabbia svanì, il che le diede un'idea di quanto doveva apparire terrorizzata. Lo vide formare con le labbra la domanda «Stai bene?».
Annuì in risposta, lui allora si avvicinò. Louise aveva bisogno di un minuto per riprendersi dallo shock, e per fortuna la Packard si era in pratica parcheggiata da sola in parallelo al marciapiede. Be', sul marciapiede.
Tirò giù il finestrino. «Che ci fai qui» mormorò.
«Devo parlarti» rispose Fabrice, chinandosi e portando un braccio sul tettuccio dell'auto.
«No... non è sicuro qui.»
«Non me ne frega niente! Ho bisogno di parlare con te» ripeté.
«Non complicare le cose» disse lei, aggrottando la fronte. «Io...» Non sapeva come trovare le parole giuste per continuare.
Fabrice la guardò a lungo. «Ti ho permesso di spezzarmi il cuore in due, ma non me ne andrò senza prima sapere tutta la verità.»
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top