Capitolo XLIX
«Lasciami qui!» La voce di Antony risuonò perentoria nell'abitacolo silenzioso e fece sobbalzare Luke alla guida. L'autista, senza bisogno di sentire altro, fermò la vettura. D'altronde Giacalone era stato chiaro: «Fai tutto quello che ti dice il ragazzo».
Antony scese e senza girarsi gli disse: «Tornatene a casa. Non ho più bisogno di te».
Luke non se lo fece ripetere due volte. Tirava una brutta aria e voleva essere immischiato il meno possibile negli affari di Giacalone e del ragazzo. Rimise in moto e si allontanò.
Sospirando, Antony si mise le mani in tasca e svoltò sulla Iberville camminando nel Quartiere Francese. Doveva trovare Tabitha. Era già passato da casa sua, ma di lei nessuna traccia. La speranza di scovarla in mezzo alla folla accorsa al Quartiere per il Mardi Gras era flebile, ma doveva tentare. Non c'era più tempo.
Ben presto la sensazione familiare di essere solo al mondo si intensificò. Non aveva nessuno con cui parlare. Nessuno con cui confidarsi. In fondo era sempre stato così, perché allora gli pesava così tanto quel giorno? Con un moto di fastidio verso i suoi pensieri accelerò il passo. Aveva passato tutta la vita a combattere. Era l'unica cosa che capiva, l'unica cosa che sapeva fare. E lo avrebbe fatto fino al suo ultimo istante di vita. Gli affetti sarebbero stati solo d'intralcio.
Si fermò appena prima di arrivare davanti a uno di quei negozi per donne che nel Quartiere Francese si trovavano ogni due passi. Era in un grande palazzo con mattoni rossi a vista, con decorazioni nere e borgogna. L'intera facciata era una vetrina che mostrava un ambiente disseminato di indumenti femminili e delicati oggettini. In un momento di follia, qualche mese prima, aveva comprato un vestito a Tabitha. Non le aveva mai detto niente, né le aveva chiesto se poi l'avesse indossato il giorno dell'audizione. Importava forse? Avrebbe passato l'esame anche vestita con un sacco, aveva talmente tanto talento che riusciva a riconoscerlo anche uno come lui che di musica non capiva niente. E a cosa le sarebbe servito, ora che era caduta nel mirino dei Bosco?
Una rabbia intensa lo percorse da parte a parte, quando, come se fosse stata evocata dai suoi pensieri, se la vide davanti. I lunghi capelli castani erano raccolti sulla nuca in una crocchia scomposta. Indossava un vestito nero che le svolazzava intorno al corpo mentre camminava. A coprirla una giacca dello stesso colore un po' grande per le sue misure minute. Di sicuro un capo riciclato dal guardaroba di una delle sue sorelle.
Appena lo vide, gli rivolse un sorriso che non arrivò agli occhi. Gli andò incontro. «Speravo di incontrarti» disse. «Passeggia con me.»
Antony rimase in silenzio mentre lasciavano Pedestrian Mall e si dirigevano lungo Pirate' s Alley in direzione Royal Street. Proprio accanto alla Cattedrale di St Louis, vicino al piccolo parco sul retro, si fermarono.
«Sei scappata di casa» furono le prime parole che il ragazzo le rivolse.
Tabitha ebbe un sussulto. Antony sembrava sapere sempre tutto. Si sentì comunque in dovere di precisare: «Non sono proprio fuggita... Sono giorni che i miei non mi fanno uscire a causa dell'aggressione all'avvocato. Hanno paura che il tizio che ho visto mi venga a cercare».
«Hanno ragione.»
«Non ti ci mettere anche tu.»
Antony le lanciò un'occhiata seria, dura, con i suoi occhi senza tempo.
«Suvvia, è Mardi Gras, le strade sono piene di gente...»
«La solita sventata» la interruppe lui, «mi domando come tu sia sopravvissuta fino a sedici anni? Solo tu puoi trovare rassicurante il Mardi Gras; quando Bacco giunge in città persino le cose più moderate diventano incontrollate.»
Le lanciò uno sguardo così sinistro che Tabitha rabbrividì in modo involontario.
Antony le parve, per la prima volta, circondato da un'aura oscura e letale. Un'aura come quella attorno a un predatore selvaggio allo stesso tempo aggraziato, ma che faceva capire a chiunque che in ogni momento sarebbe potuto diventare il suo pranzo.
In tutta sincerità, Tabitha aveva pena per lui. Doveva essere difficile non avere nessuno su cui contare. Antony manteneva una grande distanza fra sé e chiunque cercasse di avvicinarsi, sia in senso fisico che mentale. Lei cercava di trattarlo proprio come avrebbe fatto con qualunque altra persona che frequentava e sospettava che questo a lui piacesse. Perlomeno pareva più rilassato con lei che con qualunque altra persona lo avesse visto interagire. Quel giorno però sembrava 'diverso'.
Un grosso carro allegorico di Bacco sbandò lungo la strada. Urla concitate si levarono nell'aria.
«Stanno già arrivando...» sospirò Tabitha. «Voglio assistere almeno alla parata!» sbottò subito dopo.
Antony parve dispiaciuto, poi fece un mesto sì con la testa. «Per me sarebbe la prima volta. Non sono mai capitato a New Orleans in questo periodo dell'anno.» Seguì con gli occhi il carro che avanzava lungo il corso e aggiunse: «Però non mi fido a stare in mezzo alla strada».
«La vedrò con o senza di te!» ribatté lei, indispettita.
«Allora andiamo in un posto, al riparo, da cui potrai vedere la parata.»
«Aggiudicato.» Il volto di Tabitha si illuminò e batté le mani entusiasta.
Antony la precedette, mentre facevano la strada a ritroso. Come la popolazione cajun di New Orleans avrebbe detto,
Laissez les jeux commencer... Che la partita abbia inizio.
Le strade fremevano di attività, di turisti e gente del luogo. Zigzagando tra la folla si diressero verso Commerce Street. Non impiegarono molto tempo per arrivare a un vecchio magazzino abbandonato. «Dal terrazzo si vede tutta la strada» le spiegò Antony. Era stato un fiorente emporio. Aveva chiuso i battenti solo qualche anno prima, ma lo stato di abbandono era evidente. Le finestre ad ampi pannelli erano scure, alcune rotte e parzialmente sbarrate con assi di legno. Le porte un tempo rosse erano scrostate e tenute assieme da una spessa catena con lucchetto. Dall'interno non proveniva il minimo suono.
«Ehi, Antony,» disse lentamente Tabitha, togliendosi una ciocca di capelli che le era caduta sul viso, «ti rendi conto che questo posto è più pericoloso della strada? Sembra una trappola.»
«Ma no, davvero?» chiese Antony, sarcastico. «Te lo dico sempre di non fidarti di nessuno.»
Tabitha alzò gli occhi al cielo. «Oooh» disse, mentre lui si occupava del lucchetto. «Effrazione, mi pare si chiami il reato. Quando mia madre mi portava a trovare Dorcas, a casa dell'avvocato, imparavo sempre una parola nuova...»
Antony ignorò le sue ciance, fece scattare il lucchetto e aprì la porta. Con un forte cigolio, quella cadde dai cardini. Entrarono nell'edificio e si fermarono all'interno della stanza semibuia e vuota, ricoperta di polvere, ragnatele e sporcizia. Il posto era completamente silenzioso tranne il sinistro rumore delle imposte mosse dal vento al piano di sopra e il suono dei roditori che zampettavano per il pavimento.
Antony le rivolse uno sguardo vuoto e beffardo. «Non avrai paura di un paio di topolini?»
Tabitha gli diede un buffetto sulla nuca.
«Cretino!»
«Ehi, mi hai fatto male» disse Antony sfregandosi la nuca.
Lei si erse in tutta la sua statura e lo precedette, per dimostrargli che non aveva paura di nulla. «E poi ti ho appena sfiorato, non posso averti fatto male.»
«Questo però te lo farà» ribatté lui alle sue spalle.
«Cos...»
Un attimo dopo tutto divenne buio.
Antony l'afferrò prima che colpisse il suolo. Non barcollò quando tutto il peso della ragazza lo investì. La sollevò con delicatezza e la portò in braccio al piano di sopra.
Tabitha si svegliò con la luce della luna che filtrava dalle finestre rotte. All'inizio non ricordava dove si trovasse, finché non provò a muovere la testa e il dolore la trafisse. Stringendo i denti, tentò di alzarsi dalla sedia su cui era seduta e scoprì di avere mani e piedi legati. Il panico la invase, vorticando. Lottò contro l'imminente attacco d'ansia con tutta la forza che aveva in sé, ma era terrorizzata per la situazione in cui si trovava. Qualcuno l'aveva aggredita, stordita e legata come un salame alla sedia. Antony? Che fine aveva fatto?
Si costrinse a calmarsi e prese a guardarsi intorno. Esaminando la stanza, illuminata qua e là da qualche candela, vide il ragazzo girato di spalle. Libero e incolume. L'incredulità la sopraffece. Era stato lui a colpirla.
«Ehi!» gridò al suo indirizzo, «che significa tutto questo?» La rabbia per un attimo le oscurò la vista. «Mi fidavo di te!»
«Sei sveglia dunque.» Antony si girò e avanzò verso di lei. «Ti ho ripetuto fino allo sfinimento di non fidarti di nessuno, ma sei testarda.»
Con uno sguardo sarcastico le mise una mano sulla spalla. Lei fece uno scatto improvviso, come se il tocco l'avesse ustionata. «Non mi toccare!» ringhiò.
«Purtroppo non posso accontentarti.»
«Vai al diavolo!»
Antony si mise a ridere. «Dopo di te, Tabby. Dopo di te.»
Lei non reagì. Si concentrò invece sulle corde che le serravano i polsi. Cercò disperatamente di allentarle. Continuò a tirare dedicando la sua completa attenzione a quell'unica possibilità di riconquistare la propria libertà. La corda cedette un poco.
Antony ghignò. «Credi davvero che io sia tanto stupido da permetterti di liberarti?» Fece un passo avanti e si mise praticamente naso a naso con Tabitha. «Non riuscirai a fuggire.»
Lei lo guardò come se fosse un piccolo moscerino che le ronzava intorno alla testa. «Se avessi libere le mani o anche solo i piedi ti darei la lezione che meriti.»
Antony la fissò incredulo. «Ti è già passata la paura?»
Tabitha gli rivolse un'occhiataccia caustica. «Non ho paura di un delinquente da quattro soldi come te.»
Antony scosse la testa. «Dovresti invece.»
«Perché?»
«Perché ho avuto l'ordine di sbarazzarmi di te.»
Tabitha sbuffò. La prima regola in combattimento (anche se la sua personale esperienza si limitava alle risse) era far perdere la calma al tuo avversario. Le emozioni annebbiano il giudizio e ti portano a fare cose stupide, magari Antony le avrebbe dato l'opportunità che le serviva per liberarsi. Tra l'altro le piaceva vedere la vena pulsare sulla tempia del ragazzo. Le confermava che non aveva affatto perso la mano, quando si trattava di irritare qualcuno. «Non ti ho chiesto perché vuoi uccidermi, ma perché dovrei avere paura di te. Ciò che sei è patetico. Sei un idiota pieno di sé. Non c'è da meravigliarsi che quando era in vita il tuo papino non sapesse proprio che farsene di uno così...»
Lo guardò con aria di sfida, ma lui sembrava impassibile. Poi la mano di Antony scattò, la strinse alla gola e le spinse la testa contro il muro a cui era accostata la sedia. I suoi occhi si scurirono in modo inquietante.
Tabitha mascherò la paura, era terrorizzata. Benché fosse inutile, cercò di scrollarselo di dosso.
Antony di colpo indietreggiò, lasciandole libera la gola. Rovistò nelle tasche dei calzoni e tirò fuori un coltello. Lo scatto della lama impietrì Tabitha. Gridò.
«Urla pure quanto vuoi, con la parata che sta passando nessuno ti sentirà.»
Sorrise in modo maligno, un attimo prima di inginocchiarsi davanti a lei e fare uno squarcio lungo le sue calze di lana. Lo allargò con le dita della mano libera, mettendo a nudo la carne pallida della ragazza.
La pressione della lama che le si conficcava nella coscia, spinse il corpo a ritrarsi con tutta la sedia contro la parete. Tabitha ansimò per il dolore dell'acciaio che le lacerava la pelle.
Antony, con lo sguardo rapito, passò il dito sulle gocce di sangue che fuoriuscivano dalla ferita. «Non sanguini molto» constatò.
Tabitha sentì a fatica le sue parole, dato che il cuore batteva all'impazzata e sembrava volesse uscire dal petto. Le orecchie le ronzavano, mentre lui metteva a nudo l'altra gamba e la feriva. Era la cosa più dolorosa che avesse mai sopportato. Con la vista che si annebbiava cercò di guardare sotto la capigliatura fulva che gli nascondeva il volto. In quel momento lui alzò la testa. I suoi lineamenti erano tesi mentre ricambiava lo sguardo e, per un attimo, riuscì a farsi illudere dalla speranza che lui ritornasse in sé. Sussultò quando Antony invece immerse le dita anche nell'altra ferita e poi se le passò sul collo. Ripeté il gesto, toccando con le mani sporche di sangue la camicia bianca che indossava. Quel gesto le parve così assurdo che lo stupore prese il sopravvento sul dolore.
«Penso possa bastare...» sussurrò tra sé Antony, prima di alzarsi. Con lo sguardo vuoto si piegò in avanti, coprì le sue labbra con le proprie e le cinse le spalle.
«Perdonami, ma era necessario.»
Si mise dritto e la guardò negli occhi. «Devono credere che io ti abbia uccisa... Non potevo fare altrimenti. Se do loro l'impressione che mi sia divertito a sgozzarti, sarà tutto più credibile.»
«Antony! Liberami immediatamente.» Lui non si mosse. «Non ci sto capendo nulla» aggiunse confusa.
Antony tornò a inginocchiarsi. Guardò per un attimo con rammarico il sangue sulle gambe della ragazza. Poi spostò lo sguardo sul viso interdetto di lei. «Ascoltami bene: domani mattina sarà tutto finito e i tuoi verranno a liberarti. Fino ad allora cerca di startene buona qui. Non corri pericolo. Giacalone e Carmela Bosco devono credere che io ti abbia fatta fuori. Capito?»
Giacalone gli aveva messo di sicuro qualcuno alle calcagna, ma con tutti i giri che avevano fatto lui e Tabitha, forse erano riusciti a smarcarsi. Non poteva rischiare in ogni caso che qualcuno la vedesse uscire viva da quel posto.
Tabitha scosse la testa. «Ma quando sapranno che non mi hai uccisa, se la prenderanno con te!» ribatté.
«Be', dovresti esserne contenta, dopotutto ti ho rovinato le gambe.»
«Sei davvero un magnifico attore» cercò di sdrammatizzare lei. Non voleva pensare al dolore e, soprattutto, alle cicatrici che probabilmente le sarebbero rimaste.
«Non sono riuscito neanche a spaventarti all'inizio.»
«No. Ero terrorizzata.»
«Allora anche tu sei un'ottima attrice.»
Il silenzio calò d'improvviso tra di loro. In sottofondo le voci della gente che festeggiava il Mardi Gras si intensificarono.
Antony osservò ancora una volta le gambe di Tabitha e, quando le sue dita le sfiorarono con delicatezza, il sangue prese a scorrere di nuovo. Lei sibilò.
«Forse ho inciso troppo a fondo... Non smetti di sanguinare» sussurrò, impaurito.
«Sto bene» mentì.
Gli venne un groppo alla gola di fronte al tono incurante di Tabitha. Come poteva passare sopra a ciò che le aveva fatto? Antony aggrottò la fronte, era incredulo. L'aveva ferita, provocato dolore e regalato cicatrici che non avrebbe più potuto cancellare. «Sarai sfregiata per tutta la vita.»
«Sarebbe stato peggio con le braccia» rispose, seria.
Il ragazzo non le disse che all'inizio aveva pensato proprio a quelle, ma poi aveva intuito che a lei sarebbe dispiaciuto di più. Niente avrebbe dovuto distrarre chi ascoltava sua musica.
Cercando di sorridere, Tabitha aggiunse: «Penso, invece che tu mi abbia salvato la vita. Ora, però, liberami e troviamo una soluzione.»
«No. Ho già la soluzione per tutto. O quasi.»
«Che vuoi dire? Domani saremo punto e daccapo. Per non parlare del fatto che attirerai su di te l'ira dei Bosco. Dobbiamo andare alla polizia!»
«No, Tabby! Domani i Bosco non saranno più un problema per nessuno.»
Accorgendosi dell'espressione che aveva sul volto, il sollievo provato poco prima, quando aveva capito che lui non aveva nessuna intenzione di ucciderla, svanì. Gli rivolse uno sguardo impaurito. «Cosa hai intenzione di fare?»
Antony scosse la testa. «Meglio che tu non lo sappia.»
«Non rischierai la vita?» gli domandò lei, stringendo e allentando i pugni. «Liberami e troveremo un'altra soluzione» aggiunse, quando capì che lui non avrebbe risposto alla domanda.
«È fuori discussione. Con molta probabilità c'è qualche uomo di Giacalone là fuori. Non posso rischiare che ti veda viva. Non ho messo in piedi tutta questa sceneggiata per niente.»
Tabitha lo guardò torva, le narici vibrarono. «Perfetto, vai e fatti ammazzare.»
«Tabby, non sei di alcun aiuto» le disse gentilmente. Vedeva l'agonia nei suoi occhi. Non dubitava dell'affetto che nutriva per lui e, per questo, doveva essere più risoluto che mai.
«Cercherò di tornare vivo. Va bene così?»
Antony si voltò per andarsene. «Non azzardarti a lasciarmi qui. Urlerò finché non mi scoppieranno i polmoni.»
In un batter d'occhio le ritornò davanti. Tabitha lo fissò con occhio truce. Il viso di Antony mostrava la pazienza di un padre alle prese con la figlia ribelle.
«Non mi lasci scelta» sussurrò.
Dalla tasca del cappotto tirò fuori un fazzoletto. Senza troppe cerimonie le afferrò il volto, la costrinse a socchiudere la bocca e vi spinse dentro il pezzo di stoffa. Ogni tentativo di sottrarsi fu inutile.
Con il cuore che gridava "no", Tabitha lo guardò andare via.
Giunto alla porta, si voltò. «Di' a mia... a Evelyn che ho capito.»
Lei lo guardò per un attimo confusa. Il viso era freddo, pallido e dagli occhi cominciavano a spuntare le lacrime. Antony si bloccò per un istante, come se ci stesse ripensando e volesse ritornare sui suoi passi, poi le girò le spalle e uscì.
Ignorò la sensazione di essere osservato. Camminò spedito per qualche minuto, finché si fermò in mezzo alla strada per guardarsi intorno, il lungo cappotto nero gli ondeggiava intorno alle gambe. I turisti passeggiavano per Bourbon Street, se ne andavano in giro ignari dei drammi che si stavano consumando in città. Qualcuno si fermò a guardarlo. Dall'espressione sconcertata poteva intuire di aver fatto un buon lavoro con il sangue di Tabitha.
Riusciva a sentire la cacofonia del jazz e delle risa che si mescolavano nel freddo vento invernale. Cercò di concentrarsi su quello e scacciare così ogni distrazione dalla propria mente, ma l'ultima immagine di Tabitha che piangeva lo perseguitava. Le Moire erano delle puttane crudeli. In pochi mesi gli avevano fatto trovare e perdere l'unica amica della sua fottuta vita e, in ancora meno tempo, una madre. Il pensiero di Evelyn rischiò di farlo cedere. Scacciò con violenza anche questo pensiero. Aveva una missione da portare a termine.
Si addentrò in un vicolo avvolto nel buio.
«Ehi!» si sentì apostrofare.
Spinse indietro il lembo del cappotto per estrarre il coltello. «Dimmi,» disse Antony voltandosi e mostrando la lama «che cazzo vuoi?»
L'uomo gli lanciò un'occhiata circospetta.
«Ehm... mi manda Giacalone...»
«Ottimo! Spero tu abbia l'automobile nei paraggi, non vedo l'ora di arrivare a casa e togliermi tutto questo sangue di dosso.»
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