Capitolo XLIV
Dopo aver cercato la madre in biblioteca, dal funerale sembrava che Carmela avesse fatto di quella stanza il suo Quartier Generale, e non averla trovata, Paul si decise a chiedere alla prima domestica che incontrò.
«La signora è nelle sue stanze, signore» gli comunicò l'austera donna che fungeva da dama di compagnia di Carmela. Lui annuì e infilò le scale. La camera padronale era enorme, con un salottino, un caminetto e portafinestra che si aprivano su quella che era a tutti gli effetti una terrazza privata.
«Mamma» chiamò Paul, non vedendola da nessuna parte.
«Sono qui!»
Seguì la voce e si ritrovò nella cabina armadio. Grande come un salotto, con la moquette color crema e quintali di vestiti scuri ordinati per modello. L'aria odorava del suo profumo. Dolce, come lei non era mai stata. Carmela era in fondo alla stanza e stava scostando una dozzina di vestiti dall'aria severa. Rimise a posto gli abiti e tornò in camera.
«Cosa c'è» domandò, sistemandosi la veste nera del giorno.
Lui si schiarì la voce, maledicendosi perché non si era preparato un discorso prima di affrontarla. «Volevo avvertirti che Louise e io torniamo a casa nostra, oggi stesso.»
La reazione fu immediata. «E quando l'avresti deciso?»
«Ora.» Paul incrociò le braccia sul petto.
«Per quale oscuro motivo?»
Decise di ignorare il tono scandalizzato. «Non c'è nessun oscuro motivo. Ora che il funerale è passato, vogliamo solo riprendere la nostra vita.»
Carmela scosse la testa. «Credi che basti un funerale per dimenticarsi di tuo fratello!»
Paul sbiancò. «Non volevo dire questo.» Mentre pronunciava la frase la vide perdere l'equilibrio e appoggiarsi a un mobile.
«Mamma?»
L'afferrò per un braccio, allarmato. «Stai...» Non fu sorpreso di vederla scuotere la testa. «Parlami, per favore. Cosa succede?»
«Cosa vuoi che succeda? Ho perso mio figlio!» sibilò.
Paul la lasciò andare e fece un passò indietro. «Devi prenderti più cura di te stessa.»
Lei gli scoccò un'occhiataccia. «Non avrò pace finché l'assassino di tuo fratello non pagherà» disse, cupa. Gli occhi scuri - febbricitanti - che lo guardavano erano quelli di un'estranea in abiti familiari: come se qualcuno si fosse messo una maschera con le fattezze di sua madre.
«Mamma, non è questo il modo di...» Non riuscì a terminare la frase, perché lo schiaffo arrivò talmente violento da fargli girare la testa. Era sempre stata rigida e autoritaria, ma mai gli aveva messo le mani addosso. E ora quella donna di cui aveva sempre cercato l'approvazione le appariva solo come un essere consumato dalla sofferenza e dalla vendetta. Strano, pensò Paul. A una certa età cominci a vedere un genitore come una persona, anziché come Mamma e Papà. Quello era un momento del genere. La donna nella stanza con lui non era la madre che lo spingeva a dare sempre il meglio di sé, bensì solo una persona, intrappolata dentro determinati meccanismi che avevano condizionato la sua vita e quella di chi le stava intorno.
«Devo andare» disse, brusco.
Lei lo bloccò. «Non azzardarti a mettere un piede fuori da questa casa. Non ti rivolgerò mai più la parola... Ci sono decisioni da prendere.»
«Non mettermi alla prova.»
Restarono a fissarsi per un momento. Poi lui disse: «Quando mai abbiamo avuto voce in capitolo io, Frank, e persino Arturo...» Lasciò la frase in sospeso.
«È merito mio se siete diventati uomini di successo.»
Lui scrollò la testa. «A quale costo...»
Lei si accigliò. Paul si avvicinò, la cinse alla vita e l'abbracciò per un lungo istante. «Addio, mamma.»
Uscì dalla stanza senza guardarsi indietro.
Lei restò, rigida, a guardare le sue braccia vuote. Capricci, pensò. Sarebbe tornato da lei molto presto.
***
Luigi Giacalone sedeva su un divano rivestito di seta nella biblioteca arredata nei toni dell'oro, del rosso e del bianco panna. I pavimenti erano ricoperti da tappeti antichi, gli scaffali traboccavano di prime edizioni e tutt'intorno era esposta una collezione di sculture in cristallo, ebano, marmo e bronzo. Tutto in quella stanza trasudava potere e, con Arturo fuori dai giochi, era tempo che lui se lo accaparrasse. Paul e Frank non erano avversari pericolosi e i figli di Arturo, quelli legittimi, erano dei viziati, buoni soltanto a sperperare quattrini.
Antony era fatto di un'altra pasta, ma la sua condizione di bastardo e l'odio che Carmela Bosco nutriva per lui lo rendevano innocuo.
Non gli restava che lavorarsi bene la signora Carmela e tutto sarebbe stato suo.
Quando la pendola nell'ingresso batté le sedici, si accomodò meglio sul divano e incrociò le gambe. Non aveva mai voluto né mogli né tanto meno figli. Forse però era giunto il momento anche per lui di accasarsi. Conosceva da moltissimo tempo Carmela Bosco e non aveva mai pensato a lei in quel senso, ma con la dipartita di Arturo tutto era cambiato. Quando arriva la persona giusta te ne accorgi. È un po' come comprare terreni edificabili. Lo capisci subito, quando metti il piede sul lotto giusto: È qui che devo iniziare a costruire.
Nonostante avesse compiuto cinquantanove anni, qualcuno in meno di Carmela, era in buona salute. Inoltre l'idea di accaparrarsi la ricchezza dei Bosco gli dava una sferzata di energia. Non si era mai sentito così vivo.
Scrutò il panorama che si stagliava davanti ai suoi occhi dalla grande vetrata della terrazza e pensò alla casa in cui era cresciuto. Fuori dalle finestre si vedeva soltanto la malconcia casetta dei vicini, e lui aveva passato molte serate cercando di scrutare al di là. I suoi genitori, spesso ubriachi, non facevano che urlare. E lui desiderava solo fuggire. Fuggire da loro, da quel patetico quartiere alla periferia di New York. Fuggire da sé stesso, oltre il confine che lo separava dagli altri.
Ci era riuscito. Grazie a Luigi Bosco. Preferiva mille volte quella vita, quel panorama. Aveva fatto tanti sacrifici, per arrivare lì; la benevolenza di Bosco era costata cara in termini di pesi sulla coscienza, ma era stato ben ripagato. D'altronde, più ti impegni nel lavoro più diventi fortunato. E, accidenti a tutto e a tutti, da lì non lo avrebbe scacciato più nessuno.
Stava allungando una mano per accarezzare una scultura a forma di rapace in cristallo che si trovava sul tavolo a fianco, quando il rumore della porta che si apriva gli fece voltare la testa.
Carmela Bosco entrò in biblioteca e si sfilò il cappotto nero, rivelando un abito dello stesso colore. Severa. Determinata. Come sempre. «Ah, sei già qui!» disse.
«Sì, signora, l'aspettavo.»
«Ero al cimitero.»
Aveva due occhi spettacolari, leggermente a mandorla e più scuri dei capelli, che dal funerale mostravano più fili grigi.
Carmela posò il soprabito su una sedia e guardò la scultura di cristallo, perplessa. «Quella non stava lì sopra... C'era il posacenere in marmo di Carrara su quel tavolo.» Si guardò intorno, scandagliando ogni angolo della stanza, senza successo, sbuffò: «Anche il personale è diventato sciatto! Detesto quando non mettono le cose al loro posto».
Si sedette sulla poltrona davanti all'uomo. «Allora, ci sono novità?»
Giacalone aveva una specie di tic al sopracciglio, per il resto rimase immobile, senza smettere di scrutarla. «Gautier è uscito su cauzione.»
Lei imprecò tra i denti. «Dove ha trovato i soldi? Il procuratore, Pellier, ci aveva assicurato che la cifra fissata dal giudice sarebbe stata esorbitante.»
«Lee Bailey.»
Carmela cominciava a dare segni di insofferenza. «In questa città non c'è niente che io non possa ottenere... Se quel vecchio rimbambito pensa di rovinare i miei piani, si sbaglia di grosso.»
Le parole che le giunsero in risposta, a voce bassa, sembrarono sbagliate: «Se Gautier non si presenta al processo, subirà una bella botta, anche finanziaria».
Carmela aggrottò la fronte. «Non mi basta.»
Giacalone allargò le gambe e mise le mani sulle cosce. «Pagherà.»
Lei tamburellò le dita su un ginocchio, meditabonda. La sicurezza di Giacalone la rasserenava. Ringraziò il cielo di poter contare su un uomo così deciso. Le ricordava nei modi di fare il defunto marito.
«La puttana?»
L'uomo sorrise, soddisfatto. «La minaccia ha funzionato. Ha lasciato New Orleans. Antony è stato bravo.»
Lei fece una smorfia. «Non la perdete di vista. Quando il pezzente sarà condannato, voglio che sia tolta di mezzo. Quanto al bastardo, non ho mai creduto fosse il figlio di Arturo, anche lui dovrà alla fine sparire.»
Giacalone restò immobile. Il silenzio si espanse fino a riempire la stanza, forse addirittura tutto il piano. Dopo un po' si chinò leggermente, gli occhi chiari inespressivi come pietre. «Consideratelo fatto.» Tornò ad appoggiarsi sul divano.
Carmela socchiuse gli occhi. Sembrava sprizzare furia da ogni poro.
«E ora occupiamoci di una faccenda che non può più attendere.»
Lui piegò la testa. «È per stasera. Mentre io andrò di persona a stanare Gautier, i miei ragazzi si occuperanno del negro.»
Gli occhi scuri di Carmela si accesero. «Un lavoro pulito...» Lasciò la frase in sospeso e guardò oltre la donna fuori dalla vetrata del balcone.
«Così deve essere» chiosò lei.
Dove aveva sbagliato con Paul? Quando Giacalone l'aveva informata del suo sordido vizio, si era sentita morire. Lì per lì non aveva voluto crederci, ma poi aveva dovuto farci i conti. Avrebbe sistemato anche quella faccenda.
***
Frank Bosco aveva avuto a che fare con un mucchio di stronzi in vita sua, ma Luigi Giacalone era in cima alla lista. Non tanto per l'aria minacciosa, o per i cento chili di muscoli che si portava addosso. E nemmeno per la strafottenza. Il vero problema erano gli occhi: quando uno ti guarda come se ti conoscesse meglio di tua madre, devi chiederti perché. Ha fatto ricerche sul tuo conto? Sa dove hai seppellito i cadaveri? Rappresenta un problema? Frank batté le palpebre. Due volte. Si augurò così di scacciare la brutta sensazione allo stomaco alla vista dell'uomo che usciva dalla biblioteca.
Chinò il capo e andò a grandi passi verso la stanza che occupava con Elisa. Dovevano prendere le bambine e andare via di lì. Una volta a casa si sarebbero lasciati alle spalle tutta quella follia. Follia, che strano modo di chiamare gli ultimi avvenimenti. Avrebbe dato qualsiasi cosa per tornare indietro nel tempo. Oh, merda! Non poteva tornare indietro. Non poteva proprio. Improvvisamente andò a sbattere contro una morbida figura femminile. Sua moglie.
«Dobbiamo parlare» gli disse, appena si riprese dallo scontro fortuito con il marito.
Lui la fissò con malcelata ostilità. «Dobbiamo andarcene da qui. Almeno per il momento non ho voglia di discutere» mormorò.
«Si tratta di Louise» insistette lei. Lo prese per un braccio e lo spinse dentro la loro camera.
Elisa lo fissava come se si aspettasse una parola di conforto o un'assoluzione. E lui non poteva dargliela. Eppure gli occhi chiari e luminosi di sua moglie lasciavano trasparire l'amore che provava per lui: le si irradiava dal cuore. «Ascoltami. Devi dimenticare tutto. Se posso farlo io, puoi anche tu. Mettilo da parte e non pensarci più, d'accordo? Se non te ne ricordi, non è reale. Non è successo.»
Se non te ne ricordi, non è reale. Dove aveva sentito già quelle parole? Si chiese Elisa. Tirò su con il naso. «Louise vuole confessare di essere stata lei.»
«Cazzo!» sibilò Frank. «E cosa ha intenzione di dire? Che l'ha colpito in biblioteca e poi trasportato in quell'edificio abbandonato? Nessuno crederà che abbia fatto tutto da sola. Arriveranno a noi...»
«Non permetterò in ogni caso che lei paghi per ciò che ho fatto io» sussurrò Elisa tra un singhiozzo e l'altro.
Un'ombra passò sul volto di Frank. «Non hai già fatto abbastanza per lei?»
Elisa si asciugò una lacrima. «E lo rifarei altre mille volte. Tuo fratello era un cane rabbioso. L'avrebbe uccisa...»
Frank si appoggiò al muro, di fronte a lei, si impose di assumere una posizione rilassata, nonostante i muscoli contratti. Aveva l'espressione di un uomo a cui avessero appena affettato le budella. Strinse i pugni, imponendosi di restare calmo. Elisa non reggeva gli scatti d'ira, e lui si sentiva sul punto di esplodere. «Era mio fratello!» ringhiò. «E non ci hai pensato due volte a fracassargli il cranio.» Cominciò a tremare per lo sforzo di controllarsi. «Non hai pensato ai nostri figli, a me, a niente... Devo andarmene da qui o...», si sentiva al limite. Si allontanò dalla parete e si voltò. Lei lo afferrò di nuovo per un braccio e lo obbligò a fermarsi. «Frank, non potevo permettergli di farle male, la stava strangolando.»
Maledizione, non riusciva a guardarla. Non ce la faceva. «Avresti potuto chiamare aiuto» disse forte e chiaro. La guardò finalmente e la vide impallidire. «Potevi correre a chiamarmi come hai fatto subito dopo averlo colpito, per aiutarti a sistemare tutto.»
Lei si girò di scatto, dandogli le spalle. Lui le fissò la schiena: le spalle delicate, il profilo fiero della spina dorsale, i capelli biondi che si arricciavano morbidi sulla nuca. «Da quando ti ho incontrata non esiste nessuno al mondo più importante. Farò di tutto per proteggere te e le gemelle» sussurrò.
Lei voltò la testa: negli occhi azzurri era dipinta la sorpresa.
«È la verità!» ribadì lui. «Dio mi è testimone.» Si avvicinò e la girò delicatamente verso di sé. «Sistemerò tutto ancora una volta. Troverò una soluzione con Louise.»
Elisa guardò suo marito, e con un fremito capì che davanti a lei c'era un uomo disposto a combattere contro chiunque, anche il suo stesso sangue, per lei, se necessario. Prima di Frank, Elisa passava il tempo a guardare il soffitto della sua stanza. Fissava il soffitto e pensava: «Non mi alzerò mai più», «Non ne ho la forza». Sentiva un nodo allo stomaco e capiva il senso dell'espressione, perché immaginava chiaramente una corda spessa e ruvida, fatta di rozze fibre di sparto intrecciate, che si legava in un nodo strettissimo e le provocava quell'aspra sensazione al ventre che non le permetteva di mangiare. Senza muovere un muscolo, ripassava mentalmente un piano di sopravvivenza che aveva elaborato e prevedeva: prendersi cura del suo aspetto; ricercare i corteggiatori che con puntualità respingeva uno dopo l'altro; impegnarsi in qualcosa che le piacesse sul serio.
Immaginava una versione azzurrina di sé, con tunica e alette, che, accucciata sulla sua spalla destra, le sussurrava all'orecchio tutti questi buoni propositi, mentre un'altra identica, ma rossa, con tanto di coda, tridente e corna, dondolava le gambe, comodamente seduta sulla sua spalla sinistra e la contraddiceva in un sussurro: «No, non ha senso, tu non farai niente di tutto ciò, l'unica cosa che farai sarà riempirti di quella roba che ti davano nel posto dove tuo padre ti ha spedita dopo la morte di tua madre e dormire, dormire, dormire fino a quando non distinguerai più il sonno dalla veglia».
A quelle parti di sé, in conflitto, attribuiva la colpa della paralisi che l'aveva colpita e le impediva di alzarsi dal letto e fare qualcosa di meglio che guardare tutto il giorno il soffitto. Si alzava solo quando c'era da andare a uno dei ricevimenti per cercare marito, a cui suo padre la obbligava a partecipare. Quelle feste erano per lei un'agonia. Sempre la stessa trama. Qualche giovane di belle speranze si avvicinava e lei non capiva perché non le piacesse fino in fondo. Seguivano conversazioni superficiali. Lei mentiva e raccontava di essere felice. La chiacchierata continuava per un po' e poi si spegneva da sola, una volta esaurito il repertorio delle frasi fatte.
E quando il ragazzo di turno a un certo punto si faceva più ardito, le prendeva la mano e lei la lasciava lì - languida, esanime, morta com'era morta lei - e intanto beveva a piccoli sorsi, e sentiva scorrere il vuoto nelle vene. E sempre la solita frase. Una ragazza carina e di buona famiglia come te è impossibile che non sia neppure fidanzata. E allora lei sentiva l'impulso irrefrenabile di fuggire. E la voce dell'angioletto le ripeteva in testa: «Un giorno dovrai pure rifarlo, un giorno dovrai pure tornare in te». E la voce del diavolo che la spronava a sbrigarsi, non sia mai che il ragazzo le impedisse di fuggire. Un giorno dimenticherai, non ripenserai più a come ti cercava i seni sotto la camicetta, dai, dai, dai, cercando di sollevarti, ascoltando i tuoi lamenti, le tue inutili proteste, incapace di aspettare, adesso, proprio ora, e non ti servirà a niente cercare di resistere, perché io ti tratterò come la troia che sei e lui era tutto un nodo di muscoli, come la troia che sei sempre stata, e i lividi sulle cosce. Tutto il tempo interminabile, i momenti di panico che ci possono essere negli anni, tutte le stanze bianche delle cliniche, i ragazzi gentili e sfocati con cui aveva provato a costruire qualcosa, le notti, i dettagli che si ripetevano: l'intontimento progressivo fino a un torpore grigio ed ebbro, l'aria viziata, il corpo inerte, la luce del giorno... E il diavolo che la spronava a tornare a casa, a guardare il soffitto, e il controllo che non aveva e il nodo di sparto che le serrava lo stomaco, e il fermo proposito di non parlarne mai. Mai e poi mai e poi mai con nessuno.
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