Capitolo XLIII

Erano le sei del pomeriggio quando una guardia portò Fabrice fuori dalla cella. Gli tolsero le manette. Gli fecero firmare un modulo. Gli chiesero di cambiarsi. Gli restituirono il portafogli. Fabrice non riusciva a pensare ad altro se non alle persone che si erano tanto adoperate per farlo uscire di lì; in primis Lee Bailey che gli aveva pagato una cauzione da capogiro. Una vita intera non sarebbe bastata per ripagare tutto ciò che l'uomo aveva fatto per lui. Certo, non era ancora fuori dai guai, ma per ora era libero.

La sezione di isolamento del carcere era separata dall'area aperta al pubblico tramite una serie di cancelli che lo condussero alla stanza in cui aveva incontrato l'avvocato. L'ultima fila di sbarre si apriva nella sala dove gli avevano scattato le foto segnaletiche. Il chiavistello di ferro scattò rumorosamente e il secondino gli assestò uno spintone a mo' di bon voyage.

«Serve un passaggio?»
Fabrice si fermò sulla soglia. Lee Bailey era in piedi sul linoleum e sembrava uscito da una serata di gala, come sempre. Non aveva mai conosciuto un uomo più elegante di Lee. «Passaggio?» ripeté.
«Grazie, Lee, ma ti ho già dato troppo disturbo.»
«Non dire scemenze, vieni! Fa freddo, santo cielo, e non hai neppure un cappotto.»
Vero, aveva perso l'indumento nella colluttazione con i poliziotti durante l'arresto. «Sopravviverò, ho voglia di fare due passi.»
«Ragazzo, non mi sembra il caso. Non è sicuro per te andare in giro.»
Fabrice lo guardò interrogativamente, poi si ricordò di essere accusato dell'omicidio di Arturo Bosco.

«Ci vediamo più tardi al Louisiana» disse.
Un attimo dopo era già sparito, infilandosi senza far rumore nella tromba delle scale. In silenzio si lasciò scivolare lungo il corrimano e giù per due piani, ruotando il corpo all'ultimo istante e atterrando in posizione accovacciata. Superò gli ultimi gradini con un balzo e imboccò l'uscita.
Nel vento freddo di gennaio fece prendere uno spavento ai fumatori che sostavano fuori dalla porta, prima di lasciarli a mangiare la polvere. Si mise a correre in un labirinto scuro di edifici, oltre i negozi e oltre Brass Monkey e Muriel's Jackson Square. Era l'ora di punta. Le strade erano piene di gente che tornava da lavoro e di chi era sceso in strada solo per passeggiare. Per fortuna man mano che si avvicinava a casa c'erano meno persone e lui poté accelerare.

Lo sforzo della corsa lo aiutò a sopportare il freddo - indossava solo una camicia e l'aria fresca alleviava il dolore dei graffi e della ferita sulla fronte.
Quando arrivò al suo isolato, quasi gli dispiacque rallentare. La ginnastica lo aiutava decisamente a calmare i pensieri e a rilassarsi. Si avvicinò alla palazzina dal retro, attraversò i trascurati giardini dei vicini e si fermò a una decina di metri dalla porta. Le luci erano accese nell'appartamento dei Baker al primo piano, ma il secondo - il suo - era immerso nel buio. Quando fu ragionevolmente certo di non essere seguito, si chinò e raccolse un sasso. Mantenendosi all'ombra, fece qualche passo verso l'edificio e scagliò la pietra, colpendo la lampadina nuda che penzolava sopra la porta e gettando l'ingresso nell'oscurità.
Restò immobile. A volte fare le cose con calma era l'unica strategia per svegliarsi vivi la mattina dopo.

Al primo piano un'ombra passò da finestra a finestra, quindi tornò a sedersi al tavolo davanti alla lampada. Non era una buona notizia, ma neppure una sorpresa: Cheryl era già a casa in quel periodo dell'anno. Non voleva che lei lo sentisse rientrare, anche se non era per evitare lei che Fabrice entrava nel suo appartamento di nascosto. Con il suo nome sui registri della polizia, il suo indirizzo poteva già essere trapelato e giunto all'orecchio di qualcuno dei Bosco. L'avvocato si era premurato di esporgli per filo e per segno tutto ciò che stava dietro Arturo Bosco e la sua famiglia. Lo aveva messo in guardia da possibili vendette nei suoi confronti una volta uscito dal carcere. Quindi l'appartamento non era sicuro.

Dieci minuti dopo raggiunse la porta, infilò la chiave nella toppa, aprì e salì le scale come un fantasma, evitando i gradini che scricchiolavano - cioè tre su quattro, quei bastardi.
Anche la porta dell'appartamento si aprì senza rumore. Si chiuse dentro facendo scattare il chiavistello. Non udì rumori, ma per un altro minuto e mezzo restò immobile, per sicurezza. Quando fu sicuro che nulla fosse fuori posto, si mise al lavoro. Veloce come un fulmine. Silenzioso come un gatto. Scoccò un'occhiata alla sua roba e si accorse subito che qualcuno era stato lì, dal modo in cui aveva lasciato piegati gli indumenti. Prese un vecchio giaccone dall'armadio in camera da letto. Scostò un pannello di legno e infilò la mano. Tirò un sospiro di sollievo. Il sacchetto con i soldi e la pistola c'erano ancora. Se li nascose addosso. Non più di tre minuti dopo se ne andò com'era venuto: dal retro e senza far rumore.
Una volta arrivato in cortile, tese le orecchie e fece per svicolare sul fianco dell'edificio, quando una voce lo fermò.

«Dove pensi di andare?»
Fabrice si girò e trovò Tabitha, ferma immobile, che lo fissava. Non l'aveva neanche sentita arrivare. Era decisamente arrugginito.
«Allora, dove pensi di andartene?»
Lo fissò per mezzo minuto. «Sei ridotto uno straccio...»
Fabrice piegò la testa di lato. «In un posto più sicuro e dove non rischio di mettere in pericolo nessuno.»
Tabitha annuì. Poi si coprì il viso con le mani, ma la marea di emozioni montò in fretta e andò a formare un groppo in gola. Gli occhi bruciavano e lei li strizzò, rifiutandosi di lasciar correre le lacrime. Erano giorni che piangeva ogni volta che ripensava alla brutta situazione in cui Fabrice si era cacciato. Aveva versato talmente tante lacrime da annegare un'intera vita di angosce. Il fatto di trovarselo davanti, malconcio e in fuga, rischiava di riaprire la diga. E non voleva piangere come una stupida proprio davanti a lui. Perciò gli girò le spalle, imponendosi di fare dei respiri regolari e profondi fino a quando il groppo in gola non si allentò.

Fabrice si avvicinò e le fece scivolare un braccio intorno alla vita stringendola a sé. «Si risolverà tutto, piccolina» le disse con il tono più rassicurante che riuscì a trovare dentro di sé, anche se non ci credeva neanche lui.
«Promettimelo...» L'aria le lasciò i polmoni in un ansito tremulo.
«Tabby...»
«Promettimelo!» ordinò con voce più ferma.
«Te lo prometto!» si arrese lui.

***

Louise guardò suo marito. Paul si era seduto a gambe accavallate su un divano foderato di seta, da sotto i risvolti dei pantaloni stirati alla perfezione spuntavano calze di seta nere, e le scarpe, lucidate con regolarità, brillavano. Era raffinato e costoso proprio come il mobile d'antiquariato su cui era appollaiato, perfetto nella sua eleganza. Le altre donne pensavano fosse il meglio che si potesse desiderare.

«Paul, hai capito cosa ti ho detto?» disse, brusca. «Frank si è raccomandato...» aggiunse a voce più bassa.
«Sono innamorato di lui» la interruppe Paul.
Louise abbassò gli occhi, spazzolandosi via dalla vestaglia un pelucco invisibile.
«Lo so. Credevi di non esserlo?» Come se fosse piuttosto stupido, da parte sua.
«Sono stufo marcio di questa cosa. Sul serio.»
«Ci credo.»
«Sono stufo marcio.» Dio, quante volte ancora avrebbe dovuto rinunciare alla felicità, quante volte ancora avrebbe dovuto ignorare ciò che provava e ferire la persona che amava?

Si alzò e, in un improvviso impeto di violenza, scaraventò il bicchiere da brandy che aveva in mano contro il camino di marmo, mandandolo in frantumi. «Cazzo! Dovrei piangere mio fratello e invece mi preoccupo solo dei miei sogni d'amore andati in fumo per l'ennesima volta.» Poi guardò la moglie con gli occhi pieni di senso di colpa. «Scusami...» Quante scuse doveva a Louise? Scusami per averti intrappolata in questo matrimonio finto; scusami per non aver neanche provato a essere un marito e scusami se non sono riuscito a starti vicino quando hai perso il bambino.

«Non c'è bisogno di scuse tra di noi.»
Le sembrò così piccola e sperduta mentre cercava di alleviare il senso di colpa che provava. «Torniamo a casa nostra, non ne posso più di stare qui.»
Paul fece cenno di sì con la testa. Nella grande Villa dei Bosco l'aria era diventata irrespirabile. Sua madre aveva smesso di piangere per la morte del figlio preferito e non pensava che alla vendetta. A ciò si aggiungeva la presenza opprimente di Giacalone. Paul ne era sempre stato impaurito. Il fedelissimo di suo padre, di Arturo e ora di sua madre, era spietato.
Frank era stato molto chiaro: «Non deve scoprire il tuo vizio» gli aveva detto. Vizio lo aveva chiamato. Non doveva scoprire la sua storia con un uomo. Ancora una volta avrebbe messo in pericolo la vita di Joseph. Sarebbero mai usciti da quel circolo vizioso? Se solo Arturo non fosse stato ucciso, lui e Joseph si sarebbero trovati a mille miglia di distanza dalla sua famiglia, pronti a ricominciare una nuova vita.
Sospirò e si chinò a raccogliere i cocci di vetro del bicchiere che aveva frantumato.

«Lascia stare» disse Louise, ma lui parve non averla sentita. Lei chiuse la palpebre per un istante. Poi si alzò dal letto, si avvicinò a Paul e, prendendolo per un braccio, lo costrinse a rimettersi in piedi. Lo attrasse in un breve abbraccio. «Passerà...»
Sciolse le braccia dalla schiena e si scostò. Prima che lei tornasse a sedersi sul letto, Paul le fu di nuovo di fronte.
«Sei sempre stata migliore di me.»
«Non credo proprio» risposte, brusca.
«Non dire sciocchezze, sei sempre stata migliore di quanto volessi apparire.»
Eppure, mentre Paul glielo ripeteva, il passato che ormai non esisteva più era proprio dentro di lei e sbirciava da sopra la sua spalla, giudicandola e trovandola non solo carente, non semplicemente inferiore, ma del tutto inadeguata. Era come il dolore degli arti fantasmi: la cancrena era scongiurata, l'infezione bloccata, l'amputazione completata, ma le orribili sensazioni restavano ancora. Faceva ancora un male cane. La menomava ancora come una storpia. Tutte quelle storie senza senso da cui aveva creduto di trarre un minimo di conforto, l'amore di Fabrice e il bambino che aveva rifiutato, erano state sue scelte. Sbagliate. E mentre il cervello rincorreva tutti i suoi errori, bombardandola proprio col genere di autoanalisi che aveva sempre bandito dai suoi processi mentali, Louise giunse a una consapevolezza ancora più scioccante.

In quel preciso istante sentì di avere in mano l'ultima tessera di un puzzle, l'ultima mancante per formare un'immagine completa, il cui significato era comunque evidente, anche quando mancava il pezzo finale. Era come se, all'improvviso, la verità fosse straripata come una corrente arginata per lunghi anni da una diga di rifiuti. C'erano state tante piste evidenti che lei non aveva voluto riconoscere. Conversazioni che non avrebbe dovuto ascoltare. Aveva cercato di dimenticare tutto, dimenticare le notti che aveva passato dai nonni, le conversazioni in cui venivano spesso menzionati il valium e le pillole. Dimenticare per non attribuire la colpa al padre, perché che razza di marito è uno che rovina tanto la vita di una donna da indurla al suicidio? O su di sé, una Louise bambina che non si era messa sufficientemente in luce, non era stata abbastanza buona o bella o sveglia o affettuosa perché la madre la considerasse una valida ragione di attaccamento alla vita. Ma era assurdo pensarla così, perché Louise capiva che la depressione non è uno stato d'animo ma una malattia, e che la madre non era nelle condizioni di vedere, guardare, stimare o capire niente in prospettiva.

E allora all'improvviso scaturì l'odio per suo padre, perché non aveva potuto evitare di pensare benché non lo volesse ammettere, benché questo pensiero si trovasse a un livello profondo, sotto strati e strati e altri strati di oblio e menzogne, che doveva aver fatto qualcosa se la madre aveva tentato più volte di uccidersi, magari non l'aveva saputa ascoltare, o esaudire, o consolare. Ma dopo l'odio toccò all'amore, perché l'aveva amato follemente, come solo i bambini sanno amare, e più tardi quando lui non ce l'aveva fatta più a sopportare né lei né la madre, l'amore si era trasformato in senso di colpa.

Si era sentita così poco importante, così indegna, quando sua madre aveva tentato il suicidio e suo padre non aveva saputo ricambiare il suo amore, che aveva cominciato a esporsi a relazioni distruttive quasi fossero una sorta di espiazione. Non poteva amare quelli che l'amavano perché non amava sé stessa.

Crescere con una madre come la sua era stato difficile, ma non era stato l'unico evento che aveva definito la sua vita: una madre malata e asfissiante, un padre distante e violento, una famiglia ricca e schiava delle apparenze, un marito omosessuale che la usava come paravento, un ambiente di pazzi e, più tardi, amici, amori, colpi di fortuna e sfortuna, Paul, Elisa, Fabrice, fatti e nomi che portavano ad altri e rimandavano ad altri ancora. No, non poteva più incolpare di tutto sua madre. Non voleva credere al fottutissimo trauma primigenio, e tanto meno all'esistenza dell'isteria. Voleva solo reclamare il diritto di costruirsi una vita tutta sua, di approdare ogni giorno, come aveva fatto fino ad allora, a una nuova conclusione su se stessa e sul ragionamento che si nascondeva dietro alla sua condotta. Sì, a volte sapeva perché faceva quello che faceva, ma sapere non era potere, non bastava conoscere i motivi della propria condotta per porvi automaticamente fine.

No, per anni si era aggrappata alle abitudini distruttive, alle pulsioni limitanti, ai disastri che la caratterizzavano, perché il vincolo emotivo che la legava a essi era troppo forte, perché le sciocchezze che commetteva la definivano e la mantenevano in equilibrio e in contatto con il mondo, ed era arrivata a pensare che non sarebbe stata Louise senza di esse, senza le dipendenze emotive o i problemi di alcol, senza i raptus umorali, che non sarebbe stata la stessa se non avesse avuto un uomo accanto per il quale soffrire, un bicchiere in mano in cui perdersi, uno specchio davanti a cui autocommiserarsi. Pensava che non sarebbe riuscita ad andare avanti se non continuando a essere quello che gli altri si aspettavano che fosse. E invece ci sarebbe riuscita. Ci sarebbe riuscita eccome. Sono Louise, non più Louise Alexander Louise Bosco. Devo ripetermelo tutti i giorni. Non mi chiamo più Louise Alexander Louise Bosco. Sono solo Louise. Mi sono ripresa finalmente il mio nome!

Con quella nuova consapevolezza aprì gli occhi e si trovò davanti Paul ed Elisa. Sbatté le palpebre. Assorta nei suoi pensieri, non si era accorta dell'arrivo della cognata. Il pallore di Elisa probabilmente superava il suo. Era successo qualcosa. Trascorsero diversi secondi, e intanto il cuore le esplodeva nel petto.
«Cosa?» domandò, alla fine. «Elisa...»
«Avrei bisogno di parlarti.» La voce le tremava quanto le mani.

Paul guardò interdetto prima l'una e poi l'altra. Infine sembrò prendere una decisione. «Allora, vi lascio. Vado a dire a mia madre che torniamo a casa.» Uscì dalla camera, lasciando le due donne sole. Elisa si torse le mani. «L'ho scoperto soltanto poco fa. Io non...»
«Parla.»
Elisa trasse un respiro profondo. «Mi dispiace... L'uomo accusato di aver ucciso Arturo è Fabrice Gautier» sussurrò.
«No, non può essere.»
Fece un passo indietro e deglutì. Si sentiva le lacrime in gola, ma doveva mantenere la lucidità. Inspirò, senza fare caso alla sensazione di bruciore. «Andrò alla polizia e dirò che sono stata io.»

Elisa la fissò, col petto che andava su e giù. «Non te lo permetterò.»
Louise la ignorò. «Sarei dovuta andare subito alla polizia, ma io... speravo che non saremmo arrivati a questo punto. Lo sapevo che era sbagliato ma...»
Riportò lo sguardo su Elisa. «Non posso permettere che Fabrice paghi per qualcosa che non ha commesso.»
Elisa scosse piano la testa. «Non ti permetterò di accusarti di un omicidio che non hai commesso tu.»

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