Capitolo XIX
Avrai molte passioni, aveva predetto la mappa astrale che mamma Cheryl le aveva fatto appena nata. «Un'egida di amori intensi e fugaci. Un rosario di nomi tenuti insieme dai baci. Alcuni di loro distaccati, altri teneri. Più alti o più bassi, castani o bruni, ce n'è di ogni tipo.» «Potrai amarli molto ma non li avrai mai. Potranno amarti anche di più ma non ti avranno mai.» Aggiungeva Tabitha con finta aria seria. «Dietro non lasceranno scia o impronta. Giusto il ricordo, incerto e nostalgico, delle ore felici, le sole che contano, quelle realmente vissute.»
A quel punto Cheryl perdeva la pazienza e sbuffava ridendo: «Miscredente!».
Pur essendo cresciuta tra oroscopi, tarocchi e roba varia, lei non riusciva proprio a prendere sul serio le ciance con cui la madre irretiva i clienti affezionati che si presentavano anche a casa per una lettura urgente. Quel pomeriggio c'era la petulante signora Allen, una delle più assidue clienti. E cosa stava chiedendo la bionda del Garden District allo sdrucito mazzo di carte di Cheryl? Se il marito l'amava ancora. Tabitha sbuffò sonoramente, non era più semplice chiederlo a lui? Quando intravide con la coda dell'occhio il Diavolo tra la Luna e le Stelle, stesi sul tavolo del soggiorno, imboccò di gran fretta la porta di casa, prima che sua madre spiegasse il loro significato alla signora.
Sul pianerottolo si fermò un attimo per guardare in alto, verso la porta di Fabrice. L'aveva sentito qualche minuto prima salire le scale in compagnia.
L'aria del pomeriggio non era particolarmente calda, nonostante si stesse avvicinando l'estate, e l'abito di lino verde insufficiente per tenerla al caldo. Si cinse le spalle con le braccia, rabbrividendo. Forse il freddo è solo una mia impressione, pensò, guardando le persone che camminavano per strada. Era il pensiero di Fabrice con la donna bruna a farglielo sentire. Forse. Si impose di non pensarci.
«Ciao.»
Si voltò verso la voce sconosciuta senza fare il minimo rumore. Fu piuttosto il ragazzo a mostrarsi sorpreso dopo essersi imbattuto in lei. Il viso era magro con un lieve accenno di barba, i lineamenti delicati, ma gli occhi scuri sembravano quelli di un adulto. I capelli rossi erano mossi e portati più lunghi di quanto la moda richiedesse. Alto, ma non robusto, era vestito bene, non come i ragazzi del Quartiere con cui era solita azzuffarsi.
«Ciao» gli rispose.
Lui, persa l'iniziale titubanza, si avvicinò. «Abiti lì?» chiese, indicando il suo palazzo.
Lei lo guardò dritto negli occhi, incuriosita. «Perché ti interessa saperlo?»
Lui alzò le mani, ma non distolse lo sguardo. «Mi pare di aver visto mia zia entrare dentro» rispose, indicando il portone.
C'era qualcosa che non le tornava, si prese un attimo prima di rispondere. Lui notò l'esitazione.
«Chi è tua zia?» si affrettò a domandare.
«Louise Bosco.»
Stava per rispondere di non conoscere nessuno con quel nome, ma poi si ricordò della donna mora che frequentava Fabrice. Non voleva metterlo nei guai, per cui fece la cosa che più odiava al mondo: mentire. Pregò che sua madre si sbagliasse nel dire che non sapeva farlo. «Ah... è una delle clienti di mia madre, mi pare. Le legge le carte.»
Lui assottigliò gli occhi e il suo viso assunse una sembianza maligna.
«È venuta qui a farsi leggere le carte?» chiese, scettico.
«Be', cosa c'è di strano? Sapessi quante persone vengono da lei per conoscere il futuro!»
Lui fece per ribattere, ma fu interrotto dall'arrivo di un uomo.
«Tabby!»
Maurice Langella si avvicinò ai due ragazzi con un sorriso stampato in faccia.
Lei si mise subito sulla difensiva. «Cosa vuoi?»
Sentì la rabbia cominciare a montare. Con che coraggio si fa vedere qui, pensò. «Devi starci... starmi lontano» aggiunse.
Il ragazzo osservò i due, a quanto pareva lo scimmione non era gradito da quelle parti. «Non hai sentito cosa ti ha detto? Sparisci!»
Maurice perse l'aria bonaria con cui si era presentato. «E tu, chi cazzo sei? Togliti dai piedi, ragazzino!»
«Chiamami ancora ragazzino e ti sbudello» sibilò il rosso, tirando fuori un coltello dalla tasca dei calzoni scuri.
Tabitha sbiancò. «Maurice, non voglio avere niente a che fare con te, per cui vattene.»
Lui imprecò. «Sono passato per parlare con Fabrice...»
Lei si affrettò a rispondere: «Non c'è. Prova da Lee».
«Sono già stato al Louisiana.»
«Allora sarà da qualche altra parte.»
Maurice la guardò sospettoso, poi si arrese. «Digli che voglio parlargli, quando lo vedi», poi rivolto al ragazzo, « e tu non ti intromettere più nelle mie faccende.»
I due si guardarono con aria di sfida, infine Maurice girò le spalle e si incamminò per Bourbon Street.
Tabitha tirò un sorriso di sollievo.
«Chi è Fabrice?»
Lei maledì Maurice Langelle tra di sé. «L'inquilino del piano di sopra.»
«Ah...»
Doveva assolutamente farlo andare via di lì, non si fidava e temeva che la zia fosse la donna di Fabrice. E se avesse scoperto che stavano insieme? Aveva paura che potesse accadere qualcosa di spiacevole.
«Mi chiamo Tabitha Baker, e tu?»
«Antony Hughes.»
«Senti, io sto andando al Cafè di Monde per un bignè, vuoi venire con me... se non hai cose più importanti da fare.»
Antony restò a bocca aperta. Non si era aspettato un invito. Aveva un lavoro da fare e l'istinto gli suggeriva che era sulla pista giusta. Non gli era sfuggito l'imbarazzo della ragazza quando l'altro uomo aveva nominato questo Fabrice. Aveva però un nome e un indirizzo avrebbe potuto indagare con calma dopo e, magari, riuscire a estorcere altre informazioni utili alla ragazza.
«Andiamo allora» disse.
***
Ogni persona è più di una persona, ogni persona è una determinata intensità esistenziale che si riversa in forme diverse a seconda dei momenti, una molteplicità contraddittoria. E in questo modo Evelyn sapeva, come tutti sanno o dovrebbero sapere, di non essere sempre la stessa persona, che c'erano tante Evelyn distinte. In numerose occasioni lei aveva avvertito diversi cambiamenti nella sua vita, ciascuno dei quali era stato come una marea, come un'enorme ondata che arrivava fino alla spiaggia e spazzava via qualsiasi cosa al suo passaggio, lasciando dietro di sé il bagnasciuga vergine di impronte, una nuova Evelyn dimentica delle sventure e dei dispiaceri precedenti. E solo per questo era sopravvissuta ed era sul punto di arrivare alla "giovane" e poco rispettabile età di trentacinque anni: perché si era imposta di dimenticare, perché aveva cancellato molte reinterpretazioni di se stessa per tornare a inventarsi daccapo ogni volta che si convinceva che non le sarebbe riuscito di sopportare la vita così come la stava vivendo in quel momento, e solo per questo aveva raggiunto la poco venerabile età di trentacinque anni; "poco venerabile" perché in genere l'opinione pubblica concordava nel dire che una donna arrivata nubile ai trentacinque anni non era altro che una zitella, per quanto nel caso di Evelyn a ciò si aggiungeva l'appellativo di ruffiana perché gestiva una casa di piacere. In ogni caso a costo di sentirsi definire zitella, quindi sola e sentimentalmente fallita, e ruffiana, Evelyn aveva raggiunto un equilibrio, lasciandosi ogni avvenimento doloroso del passato alle spalle. E Arturo Bosco in quel momento stava cercando di ricacciarla indietro, fino a quella Evelyn ingenua e innamorata, a un'Evelyn che non esisteva più.
Guardò le spalle dritte davanti a sé, stava leggendo il libretto che illustrava le attrattive della maison. Un vecchio retaggio di quando a New Orleans la prostituzione era legale. «Interessante questo Boudoir...», lasciò la frase in sospeso, come a dare il tempo a Evelyn di capire le implicazioni. Lei infatti sussultò, si scostò un ricciolo ramato, sfuggito alla crocchia con cui aveva tirato su la folta capigliatura quel giorno. «Pauline non è disponibile oggi.»
«Hai solo lei?» chiese ironico.
«Per quello che si fa nel Boudoir ho solo lei.»
Lui si girò a guardarla. «Tornerò quando sarà "disponibile" allora.»
«Abbiamo altre stanze...» provò a dire lei, con la speranza che quella farsa finisse il prima possibile; non voleva tirarla troppo per le lunghe e, soprattutto, non voleva che lui ritornasse alla maison.
«Non mi interessano altre stanze.»
Il ricciolo ribelle continuava a solleticare la guancia, lo scostò con fastidio. «Siete consapevole che io dovrò assistere al di là dello specchio. Non lascio nessuna ragazza senza protezione in quella stanza.»
Il Boudoir era una stanza attrezzata per i giochi sadomaso. Zia May le aveva spiegato che era fonte di grossi introiti e consigliato di tenere sempre almeno una ragazza "adatta" per quel tipo di pratiche. Sosteneva che erano soprattutto gli uomini facoltosi a cercare quel tipo di divertimento. Nonostante l'iniziale scetticismo, Evelyn aveva dovuto dare ragione alla zia e aveva sempre trovato un paio di ragazze disposte a fare determinate pratiche. Bisognava avere una predisposizione particolare a quel tipo di sesso, e lei non lo avrebbe imposto a nessuna delle sue ragazze. Siccome fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio e visto che ci teneva alla incolumità delle sue ragazze, c'era la regola che la madame sorvegliasse, attraverso un vetro-specchio che permetteva di vedere dentro la stanza, ché nessuno dei clienti esagerasse o andasse oltre i limiti stabiliti. Aveva mentito ad Arturo, Pauline era libera quel pomeriggio, ma non aveva nessuna intenzione di assistere. Era troppo anche per lei. Si sentì in trappola, se gli avesse detto di no, lui sarebbe comunque tornato a tormentarla. Conosceva la luce ostinata che animava gli occhi di lui.
Arturo Bosco non avrebbe sfigurato in nessuno dei libri di Dostoevskij dal momento che non era inusuale vederlo camminare per strada con una faccia lunga e nei mesi freddi con un cappotto cupo come il suo umore. Nella vita aveva sempre avuto due grandi aspirazioni: rendere orgogliosa la madre portando in alto il nome dei Bosco e risultare sempre vincitore a qualunque costo e con qualsiasi mezzo. E questo gli era stato chiaro fin dalla culla quando Carmela aveva riversato su di lui tutte le sue aspirazioni. Non si era per niente preoccupata quando fin da subito aveva messo in luce un carattere prepotente, tiranneggiando i suoi coetanei, anzi le sembrava che ciò denotasse caratteristiche da leader e che, più dello stesso marito, il primogenito avrebbe dato lustro al nome dei Bosco. Quello che in lei era germinato solo come un'aspirazione si sarebbe effettivamente realizzato con lui, diventando un fatto consumato. Inoltre, considerava i successi negli affari del figlio come una cosa sua. Il ragazzo era in gamba, ma sua madre lo era anche di più. Lei lo aveva reso un uomo a forza di sacrifici, vergogne, sudore, calcoli, sopportazione ed energia. Di conseguenza, non le sembrava chiedere poi tanto se sperava una contropartita per tutti i suoi sforzi. Suo figlio avrebbe conquistato il mondo in sua vece, in fin dei conti lui era roba sua. Come tante donne in una società che rendeva difficile alle donne vivere per se stesse, Carmela aspirava a farlo attraverso i figli.
Quando venne il momento di trovargli una moglie, la scelta era caduta su Victoire Kean. La ragazza non solo era ricca e aveva un padre che aspirava al senato, ma si vedeva da lontano che si trattava di una creatura docile con la quale sarebbe stato facile intendersi come Dio comanda, buona e affettuosa, decente come poche o nessun'altra, che non aveva mai avuto un ragazzo prima di Arturo, e di un carattere così mansueto che la si sarebbe potuta pilotare a piacere. E così la relazione, ben accetta da tutti (anche dall'aspirante senatore, a cui gli agganci dei Bosco nel mondo industriale facevano gola), bruciò le tappe e i due arrivarono al matrimonio in un baleno.
A Carmela, sempre attenta a tutto, sfuggì che il figlio aveva tutt'altro tipo di donna in mente e che, proprio mentre lei e la futura sposa organizzavano il matrimonio, Arturo, a New Orleans per iniziare anche lì l'ascesa dei Bosco, aveva conosciuto Evelyn. L'aveva incontrata durante il sopralluogo a degli immobili che voleva comprare nel Quartiere Francese. Era davvero bella e lasciava intendere di esserne inconsapevole. Malgrado una faccina da bambina spaventata, la disinvoltura sembrava avvolgerla in una specie di campo magnetico. Lui, subito colpito, l'aveva invitata in un café. «Sì, volentieri» gli aveva risposto con un sorriso radioso. Si era rivolta a lui, protendendo il corpo in una posa decisa, quasi provocatoria, che contrastava con una certa sua aria fragile, la stessa che a volte caratterizza le persone alte (lei era un metro e settantacinque), quasi la statura desse loro le vertigini. Forse l'aria di fragilità, che si intuiva sotto la prima impressione di forza, veniva dagli occhi dolci, da micetto domestico, che le lunghe ciocche di capelli ramati e folti sembravano sfumare. Evelyn non aveva una figura elegante, al contrario era piuttosto rotondetta: una figura che non andava molto di moda, ma che, in cambio, piaceva, e parecchio, a non pochi uomini.
In quel momento lui era stato impressionato dalla chioma spettacolare, aveva esasperato l'esotismo della sua immagine e aveva voluto che fosse sua. E quando al café gli aveva chiesto se poteva prendere un sandwich perché aveva fame, lui ne fu conquistato. La fidanzata raramente ammetteva di averne (a dire il vero mangiava pochissimo perché era perennemente a dieta, una dieta di cui non sembrava avere bisogno dal momento che era molto magra, quasi troppo magra, anche se questo non glielo aveva mai confessato: si vergognava di provare una segreta attrazione per le donne in carne che, secondo la madre, erano volgari).
A quell' uscita ne erano seguite molte altre, si innamorarono follemente – poiché non esiste altro modo di innamorarsi – e, protetto dal fatto che la fidanzatissima ufficiale (di cui Evelyn era all'oscuro) risiedeva a New York, Arturo si comportava come il fidanzato perfetto. Avevano trascorso un anno bellissimo. Non si sentiva per niente in
colpa. Traeva inoltre da quella relazione un piacere fisico mai sperimentato prima. Evelyn neanche quello gli negava. Non che volesse sposarla, le donne come lei vanno bene come amanti, non come mogli. E ora rivoleva indietro la donna che gli aveva fatto perdere la testa e poi lasciato. La circostanza che lei aveva rifiutato di seguirlo a New York era uno smacco difficile da dimenticare. Dopo sedici anni e tanta acqua passata sotto i ponti il rifiuto era un'onta che non aveva potuto cancellare neanche quando si era vendicato, togliendole il figlio, mettendo in atto la macchinazione che le aveva fatto credere che fosse morto. Se fosse stato necessario avrebbe usato il suo bastardo per piegarla, per ora aveva altre carte da giocare per punirla ancora e farla poi tornare da lui in ginocchio.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top