Capitolo XIV
🔞Il capitolo contiene scene esplicite di sesso.
Louise si avvicinò al vecchio divano e passò la mano sul bracciolo in una pigra carezza; poi si tolse le mutandine bianche con calma, sentendosi addosso lo sguardo di Fabrice. Lui aveva le labbra leggermente dischiuse e appoggiava la lingua ai denti inferiori, spingendo, e sulla bocca si coglievano movimenti leggerissimi e impercettibili, che non arrivavano ad arricciarla.
Lei si mise due dita in bocca e le bagnò al meglio. Quindi insalivò a dovere in mezzo alle gambe. Le pupille di lui si dilatarono tanto che gli occhi parvero diventare scuri. Louise si rilassò sul divano come se si preparasse a un volo transoceanico. Si penetrò con le dita guardandolo negli occhi.
Fabrice era sempre lì, appoggiato alla cornice della porta. Non tradiva eccitazione tranne che per il respiro affrettato, il cui ritmo si fondeva con il battito del cuore di lei, e il movimento dei muscoli del suo avambraccio che si irrigidivano e rilassavano.
Lei affondò di più le dita muovendole in circolo. Il labbro superiore di lui tremava leggermente. Il petto di lei si alzava e abbassava in modo scomposto. Fabrice si portò la mano all'inguine.
Louise si sfregò le dita sul clitoride e si morse il labbro inferiore.
Esplose alla fine in convulsioni così intense che sembravano provocate da scosse elettriche.
Rimase così per un po' a riprendere il controllo, concentrata sul ritmo del proprio respiro.
Quando li riaprì vide lui, che si era avvicinato elegante e sinuoso come un serpente.
«Eri bella» sussurrò, ansimante. «Mi hai fatto pensare a un quadro di Klimt, la Danae.»
«Non conosco Klimt» disse Louise.
Lui le sorrise e prima ancora che se ne rendesse conto la stava baciando. Lei non aveva niente da dire e lasciò che lui le levasse il vestito, alzò le braccia per facilitargli l'operazione. E quando lui poi non riuscì a sganciare la chiusura del reggiseno, quel marchingegno di raso e ferretti disegnato per fare credere che i suoi seni di donna-donna, di donna fatta e sputata, si reggessero sfidando la legge di gravità come se fossero quelli di un adolescente, il reggiseno pensato per offrire le sue morbidezze su un vassoio, insomma, balconcino di décolleté e opulenza di tiepidi candori, armeggiò lei stessa i ganci con abilità di chi è abituata a lottare ogni giorno con quel genere di trappole. E quando le tette, liberate dalla prigione, si sciolsero recuperando la loro forma originale, Louise non poté evitare di chiedersi se non ne fosse rimasto deluso.
Ma lui cominciò a baciarle i capezzoli e allora fu lei a doverlo aiutare a liberarsi della giacca con cui stava lottando, a sbottonare come poté i bottoni della camicia, stupendosi di trovare quegli addominali lisci come assi di lavoro, i bicipiti sviluppati che lei non ricordava, meravigliata dalla pelle che era bianca quasi come la sua, costellata di lentiggini sulle spalle, e poi quella cosa dura e grande e calda tra le gambe, così grande che inizialmente faticava a entrare; molto più grande di quanto Louise ricordasse, decisamente, eretta, vigile, pronta.
E poi le carezze e i baci, gli abbracci, i brevi sospiri, i profondi lamenti da animale in calore, le mani abili a sfumare le frontiere tra carne e spirito, la brutalità e la delicatezza, il corpo e la testa, il maschile e il femminile, Louise e Fabrice, la pelle e l'emozione.
Formarono una creatura con due centri uguali in cui si riconciliavano le discordanze. Il lento meccanismo del tatto svelava misteri e faceva apparire immagini perdute. Il corpo che emergeva al contatto delle dita di Fabrice non era il corpo di Louise, era il corpo di un'altra sé stessa, una sé stessa accettata e riappacificata. Quel delirio, quel miraggio, quell'uscita dal proprio corpo per fondersi con quello dell'altro, quella piccola morte in vita, foriera di altre mille morti e mille nuove rinascite racchiudeva qualcosa di prezioso. Una nausea di odori mescolati: il profumo di tiglio di Louise, la colonia agrumata di Fabrice, la traccia del sudore e i feromoni e, come ultima nota, su tutto, a presiedere la vertigine di fragranze, un odore acre, di candeggina: l'odore boreale dello sperma.
«Credevo che non ti avrei più rivista» disse lui.
«Lo pensavo anch'io» rispose lei.
«Il fatto è che...»
«Anche io.»
***
Quella notte Paul Bosco si muoveva tra le strade di New Orleans, la città in cui aveva assaporato per la prima volta una parvenza di libertà, con un senso di estraneità. La famiglia, nella persona di Arturo, era arrivata fin lì, a Joseph. Finché non si fosse sincerato delle sue condizioni di salute, non avrebbe avuto pace. Aveva saputo dal barista del Louisiana che era stato portato alla tenuta di Lee Bailey, ed era lì che stava andando, dopo aver lasciato la moglie al Quartiere a occuparsi dei suoi affari. Quali fossero non gli importava sapere.
Nel corso della vita, Paul non aveva fatto altro che attenersi al ruolo che gli era stato assegnato. In fin dei conti, si pensava che lui, secondogenito di una famiglia 'importante', avrebbe seguito la traiettoria radiosa tracciata in precedenza dal padre e dal fratello maggiore.
All'educazione in una buona scuola di New York era seguita l'iscrizione e la laurea a Princeton, visto che era portato per gli studi, al contrario di Arturo, e la madre aveva insistito perché almeno lui avesse una formazione universitaria. Avrebbe dato maggiore prestigio alla famiglia sosteneva. Dopo la laurea era quindi entrato in pompa magna negli affari di famiglia, e poi mandato a New Orleans per espandere l'influenza dei Bosco anche in Louisiana.
Non restava che trovare una moglie, una ragazza di buona famiglia, possibilmente cattolica. Ed era stato a quel punto che per lui erano cominciati i guai; nonostante il suo aspetto fisico suscitasse più di un sospiro tra il gentil sesso e avesse un carattere amabile, nessuna donna riusciva ad attirare il suo interesse. Aveva ripetuto fino alla nausea, in primis alla madre ma anche a sé stesso, che ancora non era arrivata quella giusta. E mentre Arturo si era sposato, avuto un paio di figli con la moglie e seminato in giro vari bastardi, lui non aveva mai neanche sfiorato una donna.
Aveva sempre rifiutato gli inviti del fratello maggiore ad accompagnarlo nei bordelli, con la scusa di essere troppo schizzinoso per andare con una prostituta. Era arrivato a trent'anni così, accampando scuse, più o meno fantasiose, per non condividere i suoi spazi, la sua vita con una donna.
Poi la madre aveva perso la pazienza e lo aveva messo davanti a un bivio: o si trovava una moglie o avrebbe provveduto lei.
A quel punto era arrivata Louise. L'aveva incontrata in un piccolo Cafè del Quartiere in un afoso pomeriggio di giugno. Lui ne aveva invidiato il fascino, lei ammirato la bellezza. Si erano scambiati brevi occhiate complici mentre sorseggiavano i loro caffè alla cicoria. Poi lei era andata verso di lui e, con il più disinvolto dei sorrisi, si era presentata. «Ciao, mi chiamo Louise» aveva detto, «non sei del Quartiere, vero?»
Non era poi così normale che una ragazza si presentasse a qualcuno in modo così poco formale, ma quando Paul l'ebbe vicina, gomito a gomito al bancone, si rese conto che quella giovane donna avrebbe fatto parte della sua vita. Lo intuì senza bisogno di razionalizzarlo. Lo seppe in un attimo di luminosa chiarezza, grazie all'intuizione che la madre gli attribuiva, un sesto senso che avvisava Paul di quanto stava per accadere. E quando lui, a sua volta, si presentò per nome, Louise gli disse che doveva tornare a casa, ma che avrebbe preso volentieri un caffè con lui l'indomani.
Il giorno dopo si erano dati appuntamento in un bel posticino, con i tavolini di marmo e i camerieri con il farfallino e la giacca bianca di serge consumato e lì persero il conto delle ore che passarono in un'animata conversazione.
Sarebbe potuta essere un'ottima moglie, aveva pensato lui. L'idea non sembrava così folle. O meglio, lo era, eccome. Lui la trovava bella e intelligente, ma ne intuiva anche il grande bisogno d'affetto, bisogno che lui non poteva colmare. Non sentiva l'esigenza di avvicinarsi troppo a lei, anzi il pensiero di avere un contatto fisico lo ripugnava.
Era da un bel po' arrivato alla conclusione che la donna in generale per lui era una strada sbagliata da percorrere. Lo aveva capito a sedici anni quando un fotografo ventenne di belle speranze lo aveva invitato nella sua camera oscura per mostrargli le foto fatte a un ricevimento, a cui Paul e la famiglia avevano partecipato. Il primo vero amico e il primo uomo a cui aveva fatto un bocchino. Gli aveva regalato una delle sue macchine fotografiche e aiutato a capire che da grande lui sarebbe diventato un appassionato di fotografia e omosessuale, anche se non necessariamente in quest'ordine.
Cosa voleva lui non contava granché. La passione per la fotografia era spesso accantonata perché doveva occuparsi degli affari, solo di tanto in tanto non resisteva all'impellente desiderio di fermare un'immagine, catturare l'istante. E gli uomini sarebbero sempre stati il suo sporco segreto. Non voleva deludere la famiglia, in particolare la madre; e non aveva il coraggio di affrontare il discredito del mondo che lo circondava. Così in un momento di puro egoismo, aveva deciso che Louise sarebbe stata la moglie perfetta, il perfetto paravento.
Il matrimonio non aveva cambiato niente in lui. Louise per un po' aveva provato a fare diventare reale la farsa, ma si era scontrata con il muro dei suoi rifiuti. Alla fine si era arresa e aveva cominciato a guardarsi intorno. Paul si era sentito sollevato in un certo senso. Ne aveva approfittato per comprare un appartamento nel Quartiere, isola di felicità e frustrazione allo stesso tempo, almeno lì sentiva di essere sé stesso, lontano comunque dalla prigione, rappresentata dalla grande villa al Garden che divideva con la moglie.
La galleria dei personaggi che avevano sfilato nell'appartamento era stata ampia ed eterogenea. Dai giovani inesperti fuggiti dalla casa paterna fino a maturi scrittori rinomati, che restavano imperterriti in mezzo al caos (Paul non aveva avuto il coraggio di assumere una cameriera per paura dei pettegolezzi, così puliva e ordinava lui o, in casi eccezionali, un amante solerte ) che regnava in quel posto, fingendo di non essere fuori luogo e, più o meno, consapevoli di chi lui fosse.
Il primo era stato il cameriere del bar di fronte, uno squallido locale con il bancone unto e opaco e porzioni generose ma grasse, in cui per caso un giorno era capitato. Poi era stata la volta del pittore di Valencia di relativo successo, che rispondeva al sonoro e germanico nome di Tristán, perché, a quanto gli aveva raccontato, la sua amatissima madre era una wagneriana devota. Tristán restò poco con lui e gli spezzò il cuore. Lo lasciò per una donna, di cui si diceva follemente innamorato, salvo poi ricercarlo dopo un paio di anni, dichiarandosi innamorato di lui. Paul non aveva neanche voluto stare a sentirlo. E non perché dubitasse dell'affetto di Tristán. Aveva già sentito tante storie di uomini che amano le donne e che si innamorano di un uomo e credeva che, per quanto uno sostenga che gli piacciono tanto le cozze quanto i gamberi, alla fine il lupo perde il pelo ma non il vizio; e se a un uomo piacciono le cozze non può ignorarlo di punto in bianco, benché incontri un gambero eccezionale.
Paul sapeva che per lui esistevano solo i gamberi, per cui non si fidava di chi si dichiarava goloso di entrambi, perché alla fine sarebbe tornato al gusto a lui più congeniale.
Dopo il pittore era seguito un periodo di relazioni occasionali, "il periodo da sgualdrina" lo definiva lui, finché era arrivato Joseph.
Era da lui che stava andando, o meglio da Lee Bailey, che lo aveva ospitato dopo l'aggressione. Tremò al pensiero di come lo avessero ridotto gli scagnozzi di Arturo.
Guardò la strada che aveva davanti e accelerò, la tenuta di Bailey si trovava appena fuori New Orleans.
Era quasi arrivato. Passò fra folti palmeti che di giorno oscuravano i raggi del sole. Quale scusa avrebbe accampato per una visita in piena notte? Cercò di calmarsi. Trasse soltanto qualche occasionale rumoroso respiro prima di raggiungere la proprietà.
La tenuta era splendida, l'aveva visitata di giorno molte volte per affari e ne era rimasto ogni volta impressionato.
Dei fiori sgargianti inondavano il prato: gli arbusti di poinciana mostravano i loro fiori scarlatti e grappoli di fucsie diffondevano nell'aria il loro profumo. Il prato ben tagliato si estendeva a perdita d'occhio, interrotto a intervalli regolari dai grandi tronchi di alberi torreggianti coperti di fitto fogliame. Solamente rari strali di sole riuscivano a trapassare le loro ombrose corone, screziando d'oro gli ampi portici che si allungavano intorno alla casa.
Anche di notte l'aspetto maestoso colpiva l'occhio. Arcate di mattoni bianchi proteggevano la veranda sopraelevata del primo piano, mentre al secondo pilastri di legno decorato rivestivano il porticato con grate che conferivano intimità alle camere da letto. Il tetto ripido era adornato di abbaini. Alcune porte-finestre collegavano i portici con quasi tutte le stanze della grande residenza.
Le luci erano accese. Lee in persona era fermo all'entrata principale, come se aspettasse qualcuno. Spense il motore dell'automobile. Scese, e percorse gli ampi gradini fino alla larga veranda. Lee lo stava fissando, mentre sulla sua fronte si disegnavano rughe pesanti. Paul lo guardò a sua volta e capì che non ci sarebbe stato bisogno di inventarsi una scusa. Lee Bailey sapeva.
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