Capitolo XIII
«Mi stavo chiedendo dove fossi finita», la voce squillante di Evelyn colse Tabitha di sorpresa.
La maison si trovava in una viuzza del Quartiere, ed era resa ancora più appartata dal fatto che solo un lato secondario della casa si affacciava sulla strada. Da fuori sembrava una normale dimora. Tutt'altra storia per quanto riguarda l'interno. Era sufficiente varcare la soglia per capire di trovarsi in un bordello.
Tabitha, dopo aver seguito Madame e Fabrice nella stanza di lei e aver notato, con una punta di gelosia, con quanta familiarità i due si muovevano al suo interno, era andata in giro a curiosare. Non c'era il rischio di incontrare clienti; visti gli accadimenti della serata a due passi dalla casa, questi se n'erano tenuti lontani. Infine si era fermata in un salottino carico di arredi e suppellettili con l'aria spersa e mille domande in testa. Si chiedeva soprattutto se dietro l'aggressione al Louisiana ci fosse dietro Donny Ryan. Qualcosa non tornava però, il pestaggio era stato diretto su Jim e Joseph, Fabrice era entrato in scena in un secondo tempo. E poi era passato troppo poco tempo dall'affronto subito perché l'irlandese facesse la sua mossa.
Guardò Evelyn, che aveva interrotto le sue elucubrazioni, con mal celato fastidio.
«Fabrice come sta?» chiese, brusca.
«Celeste dice che non ha niente di grave. Dovrà starsene per un po' di tempo a riposo.»
«Fabrice a riposo...» sbuffò Tabitha, prima di lasciarsi cadere su un divanetto damascato con l'aria rassegnata. Si guardò di nuovo intorno con occhio critico. «Come ci sei finita in questo posto?»
Evelyn andò a sedersi vicino a lei. La ragazza le piaceva, nonostante il sentimento non fosse ricambiato. Capiva bene anche il perché. «Era di mia zia. Quando è morta l'ha lasciato a me. Stavo attraversando un brutto periodo, e ho colto l'occasione al volo... Non è così male, sai...»
Tabitha la guardò con aria scettica e per un po' tacque.
«E se ti dovessi innamorare di qualcuno, continuerai a gestire il bordello?»
La donna fece un sorriso amaro. «L'amore non mi ha portato granché fortuna, sto attenta a tenermene lontana e questo mestiere» disse, indicando l'ambiente, «aiuta».
«E Fabrice?» chiese Tabitha, prima di impedirsi di porgere la domanda.
«Mi piace molto, tanto che non permetto a nessuna delle ragazze di avvicinarsi a lui, lo riservo per me... ma ho tante possibilità di essere ricambiata da lui quante ne hai tu» disse, fissandola negli occhi.
L'altra non abbassò lo sguardo, lo sostenne e non si mostrò colpita dal fatto che Evelyn avesse intuito i sentimenti che provava. «Potresti sempre smettere con questa attività, se pensi che sia un ostacolo tra te e lui. Io non ci penserei due volte.»
«Non è il fatto che sono una madame a impedirmi di essere ricambiata da lui...»
La risposta colpì entrambe come un pugno nello stomaco. La ragazza cercò di cambiare discorso, evitando di tirare in ballo l'uomo per cui entrambe nutrivano dei sentimenti.
«Perché hai scelto di fare la tenutaria?»
Non c'era ombra di giudizio nel tono di Tabitha, solo sincera curiosità.
«Mi ero innamorata di un uomo. Ero felice. Dovevamo sposarci, o almeno, così andava dicendo lui. Poi la solita storia, mi ha lasciata quando è giunto il momento di sposarsi con un'altra donna. Era promesso a lei da tempo, io non andavo bene per lui, ero figlia di poveri immigrati irlandesi e nipote di una tenutaria di bordelli.»
«Mi dispiace», la voce di Tabitha si ridusse a un sussurro.
Evelyn agitò la mano in un gesto di noncuranza. «Ero incinta, e i miei genitori non la presero bene. La mia è una famiglia molto cattolica. Mi cacciarono di casa e mia zia mi offrì sostegno e un posto in cui vivere.
«Hai un figlio?»
Un velo di tristezza coprì gli occhi smeraldini di Evelyn.
«L' ho avuto per poco... morì durante il parto. Non l'ho mai neanche visto. Stetti male per giorni, tra la vita e la morte. Quando ripresi coscienza, mi dissero di averlo già seppellito. Mia zia morì l'anno dopo.»
Evelyn smise di parlare in modo brusco, si pentì di aver turbato la ragazza con i suoi racconti. Si era aperta, nonostante Tabitha avesse pochi anni per capire, per una sorta di connessione che sentiva con lei. La connessione che passa tra due donne legate dall'amore impossibile per lo stesso uomo. Non poteva dirle altro. Non poteva raccontarle che dal giorno in cui aveva perso il bambino continuava a sognare sangue. Sognava fiumi di sangue che le scorrevano tra le gambe. La cosa curiosa era che lei non rientrava più nella categoria delle donne che sanguinano, delle donne vere, quelle che diventano madri, fertili. Evelyn non aveva più il ciclo, o almeno non quel ciclo abbondante di donna-donna, che avrebbe dovuto avere, quelle connessioni di sangue che coincidono con i cicli lunari e che dovrebbero ricordare alle donne la loro natura misteriosa e feconda. Ce l'aveva avuto a tredici, quattordici, quindici, fino a diciannove anni, quando era rimasta incinta. Dopo il parto era tutto finito, e le era rimasto solo un rivolo rachitico che si vedeva appena, quattro gocce dimostrative che non arrivavano a macchiare le mutande e che si rivelavano solo un lieve solco rosso che colava nell'acqua del water. Nulla più.
Il medico le aveva propinato un sacco di spiegazioni fisiologiche. Ce n'era però un'altra che a Evelyn pareva tanto ammissibile quanto quelle mediche: lei stessa aveva rifiutato la condizione di donna, negava la propria femminilità; il suo caso dunque si riduceva a un problema psicosomatico. Perché lei, dopo il parto, odiava in toto il pacchetto in cui veniva rinchiuso il concetto di femminilità: odiava i piagnistei, il vittimismo, i rimproveri, e i ricatti sentimentali e le malattie della madre, delle sorelle zitelle del padre, odiava la loro vita sprecata e il loro dolore, odiava il costante confronto e la competizione fra donne, odiava la – imposta o accettata – dipendenza da un uomo, odiava l'obbligo di dover nascondere la propria libido e i propri desideri, le gonne con pizzi e merletti, gli anelli di fidanzamento e, come c'era da aspettarsi, odiava il sangue.
Dopo che la giunonica ragazza, a cui Evelyn lo aveva affidato, era riuscita a sistemargli il naso, Fabrice decise che era venuto il momento di alzarsi dal letto e portare Tabitha a casa. Dio solo sapeva come stava dando di matto Cheryl!
Il primo tentativo di alzarsi non andò a buon fine. Le costole ammaccate gli impedirono di erigersi in piedi. Il secondo andò meglio e, nonostante il dolore, riuscì nell'intento.
Scendere le scale risultò essere un'operazione complicata che gli portò via qualche minuto. Non fu necessario andare molto lontano prima di trovare le due donne, assorte nella muta contemplazione l'una dell'altra.
Lo zoppichio di Fabrice le fece voltare verso di lui.
«Non avresti dovuto alzarti così presto» fu la rassegnata constatazione di Evelyn. Tabitha si limitò a ispezionarlo in silenzio.
«È ora che togliamo il disturbo. Cheryl starà impazzendo...»
La ragazza si alzò in piedi, si era completamente dimenticata di sua madre, e andò verso di lui. Poi salutò con un cenno del capo l'altra donna. Fabrice invece le regalò uno dei suoi rari sorrisi e le sussurrò un "grazie", prima di uscire insieme a Tabitha dalla maison.
La notte era scesa rapidamente su New Orleans mentre Fabrice e Tabitha attraversavano il Quartiere Francese. Una sottile nebbiolina aveva cominciato a muoversi tra i vicoli. Prese a rotolare intorno ai grossi edifici e ad avvolgere come un fantasma ogni cosa. I lampioni in lontananza erano nient'altro che vaghe aureole di luce che brillavano nella nebbia. L'aria densa si appiccicava addosso. Tabitha era intenta a guardare Fabrice, che a sua volta, osservava i dintorni, come se temesse che, da un momento all'altro, qualche malintenzionato potesse uscire fuori dalla nebbia. Per le strade non c'era anima viva, la gente aveva rinunciato a uscire dopo ciò che era successo quel giorno.
La porta del Louisiana e di tutti gli altri locali era serrata. Nessuna coppia elegante né ubriachi sostavano nei paraggi. I magazzini incendiati si stagliavano minacciosi nel loro aspetto fuligginoso. Li attraversarono in fretta, per quanto fosse possibile, viste le precarie condizioni di Fabrice.
«Non pensi c'entri Donny Ryan in tutto questo, vero?» chiese Tabitha, rompendo il silenzio.
«No, l'aggressione non era diretta a me.»
«Fabrice... la nostra dichiarazione d'indipendenza dalla corona britannica afferma che "tutti gli uomini sono creature uguali" e "dotati dal loro creatore di alcuni diritti irrinunciabili". Allora mi chiedo perché dobbiamo ancora assistere a tutto ciò?»
Fabrice si fermò. «Siamo un paese fondato su un ideale e al tempo stesso una menzogna. Gli uomini bianchi che hanno scritto queste parole non credevano che valessero anche per le centinaia di migliaia di neri che allora facevano parte della popolazione.»
Ricominciarono a camminare ognuno perso nei propri pensieri.
Cheryl era in piedi davanti al portone del palazzo. Tabitha non si fece ingannare dall'apparenza calma. Sua madre era furiosa e preoccupata allo stesso tempo. Ciò che si agitava negli occhi scuri era eloquente.
«Piccola incosciente, dov'eri finita?»
Né la ragazza né tanto meno Fabrice ebbero modo di rispondere, perché una seconda figura di donna si stagliò nel loro campo visivo. Le onde di corti ricci domati ad arte incorniciavano zigomi scolpiti e labbra carnose in bella mostra. Indossava un abito bianco avorio che le calzava in modo perfetto sul fisico minuto e armonioso. Gli occhi scurissimi erano umidi, come se fosse preda di un'emozione intensa, che a mala pena riusciva a contenere, ed erano puntati su Fabrice. Ignara della preoccupazione di Cheryl e della curiosità di Tabitha. Quest'ultima non ebbe bisogno di guardare l'uomo per capire che ricambiava lo sguardo con la stessa intensità. Lo sguardo di due amanti che si ritrovano. Non voleva rimanere lì, testimone ignorata della loro passione; perciò non disse nulla, si limitò a prendere per un braccio Cheryl e a sussurrarle: «Andiamo a casa, mamma! Ti racconterò tutto».
Dopo aver tentennato una flebile resistenza, Cheryl la seguì.
Louise mosse un passo verso di lui. «Ho avuto paura quando ho saputo quello che è successo fuori dal Louisiana. Ho avuto paura... per te.»
Aveva la voce rotta dall'emozione. Fece un altro passo e si protese a stringere le dita intorno al suo avambraccio.
«Lo capisci?»
Un lampo di comprensione attraversò i lineamenti di Fabrice. Appena si rese conto di quello che aveva ammesso, lei fece marcia indietro. Lui la scrutò, poi appoggiò una mano sulla sua.
«Mi dispiace se ti sei preoccupata... non pensavo di contare qualcosa per te. Sei andata via l'altra sera senza dirmi niente, anzi sembravi pentita. Ho avuto l'impressione ti fossi già stancata... di noi.»
Il cuore di lei si contrasse, strappandole una promessa che sapeva di non poter mantenere e su cui non aveva nessun controllo. «Non succederà.»
Fabrice tacque per un momento, lo sguardo fisso in quello di lei con un'intensità tale da farle accelerare il respiro, quindi si mosse. Coprendo la distanza che li separava, la baciò. Fu diverso dagli assalti a cui l'aveva abituata. La carezza delle sue labbra era l'ultima cosa che si sarebbe aspettata, ma il modo in cui lo fece, dolce, quasi timido, la catturò. Si dischiuse a lui, e l'altra sua mano si posò sulla nuca di lei. Louise ricambiò il bacio. Smise di arrovellarsi il cervello sul perché con lui si sentisse così. Le risultava impossibile pensare, riusciva solo ad assaporarlo. Il battito furioso, si lasciò stringere.
Facendo scivolare le mani sulle sue braccia, Fabrice la issò sulle gambe, le ginocchia di lei aperte ai suoi fianchi. Non interruppe mai il contatto con la sua bocca.
Non sarebbe dovuta tornare da lui, non quando si trovava in una situazione familiare così spinosa, ma stava tremando e voleva di più. Ogni volta che lui la sfiorava, a ogni carezza delle labbra, si sentiva trascinare più a fondo, ma non riusciva a imporsi di fermarsi. Bramava quel contatto, la fitta incandescente di piacere e la promessa di beatitudine e dannazione che l'aspettava. Bramava lui.
Fabrice si staccò un attimo per sussurrarle: «Non credo che riuscirò a lasciarti andare così facilmente stanotte».
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