Capitolo XII

Quando era arrivato, insieme ai ragazzi della band, davanti al Louisiana, e aveva visto il pestaggio di Jim e Joseph, una scarica elettrica aveva percorso il cervello di Fabrice mandandolo in corto circuito e, prima di capire cosa stava facendo, aveva già scaraventato a terra con un pugno secco e potente il primo energumeno che si era trovato davanti. E aveva proseguito così, ignorando tutto il resto, con il corpo teso, i pugni, serrati per la rabbia, che non davano tregua a chiunque gli veniva incontro. Non si era fermato mentre il suo sangue e quello degli avversari gli imbrattava viso, braccia e, soprattutto, le mani.
Fu il grido di uno degli assalitori: «Stanno arrivando gli sbirri», che mise fine al massacro.

Non era stata la sua prima rissa, si poteva dire che Fabrice vi fosse nato dentro. «È il sangue cattivo di tuo padre» gli diceva la nonna demente, le volte che tornava a casa lacero e ricoperto di sangue, e lei lo riconosceva. A pensarci bene, quelle erano le sole occasioni in cui lei sembrava riacquistare un barlume di lucidità. Quando invece aveva fame o qualsiasi altro bisogno di un ragazzo di dodici anni, lei lo cacciava di casa, urlandogli ladro!, e colpendolo con tutto ciò che trovava a portata di mano. Fabrice non sapeva se era colpa del cattivo sangue del padre, o della pessima stella che lo aveva fatto nascere in una famiglia e in un ambiente disgraziati, e neanche gli importava poi molto trovare la risposta.

Dopo aver rilassato il corpo, vagò con lo sguardo sugli amici. La maggior parte non sembrava aver riportato danni gravi. Jim era parecchio pesto ma si reggeva in piedi. L'unico a terra era Joseph. Andò, zoppicando, verso di lui. Respirava ancora, a fatica.
Percepì qualcuno arrivargli alle spalle, si girò pronto a ricominciare a lottare. Era Lee.
«Dovete andare via di qui!»
Fabrice sembrò non capire.
«I poliziotti stanno arrivando, non dovete farvi trovare qui», insistette.
Finalmente lui capì. Gli sbirri li avrebbero arrestati per disturbo alla quiete e magari trovato qualche altro capo d'accusa. La circostanza che si erano solo difesi era irrilevante. Erano neri e lui un bianco che si mischiava con loro. Mondo infame!
«Joseph è messo male. Ha bisogno di un dottore...»
«Me ne occuperò io. Prendi i ragazzi e andate via.»
Fabrice guardò Lee, sperando di trasmettergli tutta la gratitudine che provava, prima di fare un cenno di sì con il capo. Radunò gli altri e, un attimo prima che i poliziotti arrivassero, si dispersero tra i vicoli del Quartiere.

Non andò molto lontano, appena girato l'angolo si fermò a osservare i muri coperti di fuliggine di due magazzini. Nell'aria c'era l'odore acre e maledetto delle cose bruciate. Durante la rissa non si era preoccupato per niente dell'incendio. Idiota! Meno male ci avevano pensato gli abitanti del Quartiere. Alcuni ancora si aggiravano lì intorno per paura di qualche focolaio ancora attivo.
Si sentì afferrare per un braccio. «Fabrice!»
Madame lo osservava preoccupata. «Stai bene?»
Lui fece di sì con la testa, un attimo prima che Tabitha gli saltasse addosso, abbracciandolo così forte da fare urlare le sue costole già ammaccate. Sibilò per il dolore.
Lei si allontanò come scottata. «Scusami...» disse, imbarazzata.
«Lascia stare... Cosa ci fai tu qui?»
Il dolore era servito a fargli riacquistare un barlume di lucidità. Che Madame fosse accorsa per dare una mano a spegnere l'incendio non lo sorprese, il bordello si trovava proprio dietro i magazzini che avevano preso fuoco. Tabitha abitava invece dalla parte opposta del Quartiere. Cosa ci faceva lì a quell'ora?
«Sei con tua madre?» chiese sospettoso.
Sempre più in imbarazzo lei rispose di no.
«Allora si può sapere cosa cazzo ci fai qui?»

Evelyn li guardava tra il preoccupato e il divertito. Non poteva inventarsi una scusa che reggesse per trarre d'impaccio la ragazza, se la sarebbe dovuta cavare da sola. Era curiosa di vedere come.

«Ero da Lee» disse Tabitha, secca.
«E cosa ci facevi da Lee?» chiese Fabrice, alzando la voce. Il pericolo che la piccola sventata aveva corso fece montare di nuovo la rabbia dentro di lui.
«Ero preoccupata per quello che è successo con Ryan...»
Il tono della ragazza non aveva più nessuna venatura di imbarazzo. Alzò il mento in una posizione ostinata e lo guardò fisso negli occhi.
Quelli di Tabitha, dal colore così insolito, si erano incupiti, diventando pozzi scuri da cui scaturivano bagliori che ferivano come strali. Segnale che anche lei era in preda alla collera.
«Ti sono venuti gli occhi d'Inferno» constatò. Era così che la chiamava quando lei si arrabbiava per qualcosa o qualcuno. Mai con lui. Questa era la prima volta.
Non gli rispose.
«Sono io quello arrabbiato per ciò che hai rischiato venendo qui.»
«Ti ho già detto perché sono venuta qui.»
«Non è una giustificazione. Ti avevo ribadito che ci avrei pensato io e, soprattutto, di evitare di andare in giro per il Quartiere, dopo l'episodio con Donny Ryan.»

Evelyn nel sentire per la seconda volta tirare in ballo il nome di Ryan smise di trovare il litigio divertente. Lo conosceva bene quel porco! Qualche mese prima si era presentato alla Maison e, dopo avere scartato tutte le ragazze, le aveva detto: «Sono troppo vecchie!» Avrebbe voluto contraddirlo, ben quattro delle sue ragazze non avevano ancora compiuto i venti anni; si era però limitata a sussurrare un mi dispiace fintamente contrito. Poi lui aveva aggiunto: «Dopo i sedici anni le donne cominciano a puzzare di stantio». Lei aveva represso a fatica la voglia di cavargli gli occhi porcini e cercato di dissimulare il disgusto che provava. Quando era andato via, aveva potuto tirare un sospiro di sollievo e si era augurata che il losco individuo stesse il più lontano possibile dal suo bordello. Con il mestiere che faceva Evelyn non poteva permettersi di giudicare i gusti sessuali dei clienti e non lo faceva, quelli che insidiavano le ragazzine però le provocavano un ribrezzo difficile da dissimulare.

Guardò Tabitha. Mostrava meno dei suoi sedici anni. Rabbrividì al pensiero delle sudice mani dell'irlandese su di lei. Poi spostò lo sguardo su Fabrice, notò la sofferenza e il pallore stampati sul viso. Il naso continuava a perdere sangue e una mano era poggiata all'altezza delle costole.
«Fabrice, dovremo fare qualcosa per il tuo naso... sospetto inoltre che tu abbia anche qualche costola incrinata.»
Lui sembrò sorpreso dalle parole, non si era preoccupato del suo stato di salute, nonostante il dolore che sentiva. Ovunque.
Si rivolse a Tabitha. «Dobbiamo tornare a casa.»
«Ci sono ancora i poliziotti e dovete passare davanti al Louisiana per arrivarci» obiettò Evelyn.
Lui parve riflettere.
«Venite alla Maison. Quando la situazione si sarà calmata potrete tornare a casa. Così Celeste ti darà un'occhiata. È più brava del dottore.»
Fabrice acconsenti. «E sia!» poi, rivolgendosi a Tabitha, «Tua madre mi ucciderà quando saprà che ti ho portata in un bordello.»

***

Louise si controllò nello specchio dell'armadio. La prospettiva di passare del tempo con Arturo Bosco non la entusiasmava. La suocera, per fortuna, era stata trattenuta a New York e aveva dovuto rimandare il viaggio a New Orleans. Il vestito colore avorio aveva lo scollo a V e le arrivava fino al ginocchio. Aveva il reggiseno incorporato, era aderente al petto con le spalline strette e la gonna con cui si poteva ballare senza intoppi. Il tessuto di quest'ultima era tagliato in quadrati di varie grandezze, che pendevano in modo asimmetrico e le ondeggiavano intorno alle gambe, che con i tacchi sembravano molto più lunghe. Aggiustò la lunghezza di una catenina fino a fare cadere lo smeraldo a un centimetro dalla scollatura, tra i seni. Mise un paio di orecchini abbinati. Regali di Paul che indossava solo nelle uscite pubbliche. Non amava i gioielli. Decise di non truccarsi. Andava bene così. Corse fuori di casa salutando Rosa.

I fanali dell'auto del marito illuminavano il portone e il motore girava a vuoto.
Raggiunse Paul in auto, indossava uno smoking classico e aveva i capelli impomatati all'indietro che rivelavano un piccolo neo vicino all'attaccatura dei capelli a V.
«Wow» disse, prima di riuscire a trattenersi. Paul era un bellissimo uomo. Lui, per un momento, ridacchiò, compiaciuto, e la passò in rassegna. «Wow a te! Ti sei tirata a lucido per essere una che non sopporta la mia famiglia...»
Il sorriso sparì del tutto dal volto, sostituito da qualcosa che sembrava vicino alla sofferenza.
«Scusa...» mormorò.
Louise ignorò la battuta pungente. Paul era già nervoso, non era il caso di litigare. Non replicò dunque, e non parlarono più durante il tragitto, persi ognuno nei propri pensieri.

La casa di Arturo a New Orleans si trovava su un'ansa del Mississippi, l'acqua borbottava delicatamente nella sera. Era in fondo a una strada ben lastricata ma poco usata, senza case in vista. Era stata costruita su un terreno elevato, una collinetta circolare e uniforme, chiaramente artificiale, a circa sei metri sul livello del mare, più alto di qualsiasi altra cosa la circondasse. Come sentinelle a guardia della notte, querce sempreverdi con rami piegati formavano un arco sopra il lungo vialetto.
La casa di mattoni a tre piani verniciata di bianco era un misto di stili architettonici tutti suoi, con gli abbaini sull'alto tetto di ardesia e i timpani a ogni angolo, con le camere a torretta all'ultimo piano.
Le lampade nascoste tra il fogliame lanciavano un tenue bagliore bianco sui muri esterni, mentre altre illuminavano il vialetto e i sentieri. Era una casa costruita nel XIX secolo, con il lavoro degli schiavi.
Le altre auto si muovevano intorno e dietro di loro. Arturo Bosco aveva manie di grandezza. Ai piedi della scalinata un uomo distinto, il maggiordomo, indicava la casa, come se gli invitati potessero non capire dove andare una volta arrivati. Quando si fermarono, aprì la portiera dell'auto e disse: «Buonasera, signori. Il signor Bosco vi sta aspettando».

Prima della porta d'ingresso c'erano una dozzina di scalini. In cima, una donna in divisa offrì loro dello champagne; Louise prese il bicchiere per avere qualcosa con cui tenere occupate le mani, umide per l'apprensione. Aveva un vago presentimento di disastro e poi odiava le feste, i vestiti eleganti, i modi di fare da ricevimento e la gente abituata a questo genere di cose che se ne andava in giro chiacchierando.
L'atrio aveva il pavimento rivestito di marmo bianco. Nella sala al centro c'era una vera fontana di pietra. Spruzzava acqua, accanto a tavoli carichi di frutta, formaggi e carni calde e fredde. Un odore speziato di cibo si spargeva nell'aria insieme alla musica da camera proveniente da un'altra stanza.

Salutarono qualche conoscente. Louise lasciò a Paul il compito di scambiare convenevoli. Lei si limitava ad annuire in modo distratto.
A destra della sala c'era una cucina da ristorante, con dentro due cuochi con cappelli bianchi e almeno una dozzina di camerieri che andavano e venivano.
A destra dell'atrio e del cibo, c'era un bancone con tre camerieri che servivano alcolici. Alla faccia del famigerato Volstead Act! Louise prese un secondo bicchiere di champagne e continuò il suo giro, staccandosi da Paul.
Attraversò una porta comunicante e si trovò davanti uno studio. Sulla porta c'era Arturo Bosco che parlava con un ometto basso e barbuto. Appena la vide, il cognato si accomiatò dall'uomo e venne verso di lei.
«Louise!»

Il maggiore dei Bosco non somigliava ai suoi fratelli. Di altezza media e fisico smilzo, aveva una carnagione chiarissima e occhi neri. Il viso squadrato raramente mostrava ciò che provava. Il più delle volte sembrava di trovarsi davanti a una statua. Anche il tono di voce era neutro.
«Arturo, è un piacere rivederti.»
Louise cercò di mantenere un tono colloquiale, ma c'era qualcosa nell'uomo che la metteva a disagio. Lui la guardò dritta negli occhi. «Mi sarei evitato la visita ma ci sono situazioni che richiedono la mia "attenzione".»
Fu in quel momento che Paul si palesò, affiancando Louise. In leggero imbarazzo fece per avvicinarsi al fratello per salutarlo, ma questi si scostò.
«Lasciamo stare i convenevoli. Ho degli ospiti da intrattenere e sono già stanco. Non appena ho messo piede a New Orleans ho dovuto sistemare una faccenda piuttosto spiacevole.»

Paul e Louise si guardarono interdetti. Nessuno dei due aveva idea di ciò che stava passando per la testa di Arturo.
«Ho mandato i miei saluti al tuo ragazzo negro» disse, rivolgendosi al fratello che sbiancò.
«Credevi davvero che non fossi stato messo al corrente di chi frequenti?»
Poi rivolgendo uno sguardo accusatorio a Louise, continuò: «Forse solo tua moglie non lo sa, troppo occupata a fare la sgualdrina in giro... Ma non è colpa sua, se ha per marito uno schifoso che preferisce gli uomini a lei».
Paul si lanciò sul fratello, afferrandolo per il bavero dell'elegante giacca. Lo superava in altezza e prestanza fisica, ma Arturo non arretrò, né si mostrò impaurito.
«Non te lo voglio ripetere più: comincia a fare l'uomo o sarò costretto a prendere provvedimenti ancora più seri.»
«Cosa gli hai fatto?»
La voce di Paul tremava.
Arturo sogghignò, finalmente un barlume di emozione si dipinse sul viso. «Ho mandato gente fidata a portargli i miei saluti dove lavora, il Louisiana. Non volevano neanche essere pagati per il disturbo, non gli pareva vero di poter avere una scusa per dare una lezione a uno di quegli animali.»
Si scrollò il fratello di dosso e si allontanò, dirigendosi verso la sala e i suoi ospiti.

Louise, che aveva assistito ammutolita all'alterco, si avvicinò a Paul.
«Devo andare a vedere come sta...» le sussurrò.
Lei gli mise una mano sul braccio.
«Paul, non puoi... Arturo te la farebbe pagare.»
«Tu non capisci...»
Un sorriso amaro le fiorì sul volto. Lo capiva benissimo invece. Quando Arturo aveva nominato il Louisiana, il cuore le si era fermato in petto. Aveva subito pensato a Fabrice. Qualunque cosa avessero fatto gli uomini mandati da Arturo, era certa che anche lui ci fosse andato di mezzo. Doveva impedire a tutti i costi che Paul peggiorasse la situazione.
«Paul, non puoi fare niente ora o Arturo se la prenderà di nuovo con... con il tuo amico. Ricomponiti e andiamo di là a comportarci come bravi ospiti, omaggiando il padrone di casa. Quando tutto questo maledetto baraccone sarà finito, andremo a vedere cos'è successo.»
«Potrebbe essere troppo tardi...»
«Lo so» sospirò Louise.

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