Capitolo XI
Lee Bailey era da poco giunto nell'ufficio, sul retro del Louisiana, e stava esaminando delle scartoffie zeppe di numeri, quando un fruscio improvviso lo fece sobbalzare. Aspettando di trovarsi davanti Jim o qualcuno dei ragazzi della band, si sorprese di vedere Tabitha Baker che lo fissava assorta.
«Cosa c'è Tabby? Lo sa tua madre che sei qui?»
Cheryl Baker incuteva nell'uomo una certa apprensione. Non sarebbe stata felice di sapere che la figlia sedicenne se ne andava in giro per il Quartiere e, soprattutto, per locali clandestini, come il suo.
La ragazza scrollò le esili spalle.
«Ho bisogno di parlarti, Lee!»
Bailey si alzò in piedi e con un gesto della mano la invitò a sedersi sulla sedia di fronte alla scrivania. Lei ammirò l'eleganza naturale, non solo nel vestire, ma anche nei modi di fare dell'uomo. I capelli del tutto bianchi e le rughe, che contornavano gli occhi nocciola, accentuavano l'aria distinta.
Tabitha si sedette e girò pigramente lo sguardo per la stanza, senza preoccuparsi di dove cadesse. Tra due finestrelle c'era un camino e sulla parete stava appeso il dipinto di un paesaggio. Sembrava quasi fuori posto tra i mobili che arredavano la stanza. Una macchia luminosa di colore tra i toni scuri dell'arredamento. Quella chiazza esemplificava in modo perfetto i sentimenti che provava nei riguardi dell'uomo di fronte: Lee Bailey era una luce colorata che cercava di rischiarare la vita dei meno fortunati.
«Tabby... »
Quando lei parlò aveva nella voce una venatura di pianto a stento trattenuto.
«Penso di aver messo nei guai Fabrice» disse tutto d'un fiato.
Per un attimo la serafica calma di cui era dotato Lee sembrò vacillare; ebbe quasi timore di chiedere: «Cosa è successo?»
Tabitha si agitò sulla sedia. «Conosci Maurice? Ora è l'autista di Donny Ryan.»
A sentire il nome dell'irlandese, Bailey sbiancò. «Continua... »
«Camminavo per strada e loro si sono fermati con la scusa di volermi accompagnare a casa. Io ho rifiutato e Maurice ha tentato di costringermi a salire con la forza sull'auto. È arrivato Fabrice, tu sai com'è Fabrice, e lo ha steso... Ora ho paura che Ryan si vendichi su di lui.»
La Città della Luna Crescente, New Orleans, era la sua città! Una miscela eccezionale di costumi e cultura, ma irta di pericoli. Un po' come le ampie e magnifiche paludi vicine, il bayou. Una natura rigogliosa, dove fiorivano ninfee, iris e orchidee selvagge, dove potevi ascoltare il cinguettio degli uccelli e seguire il volo di farfalle colorate. Una natura fatta di foreste fitte costellate di tanto in tanto di palafitte di legno e immense distese d'acqua, abitate da procioni, aironi, serpenti. E poi c'erano loro, gli alligatori, i dominatori incontrastati del bayou. C'era una regola non scritta da quelle parti che suonava così: «Gli alligatori hanno sempre la precedenza, se vi attraversano la strada». L'alligatore era un sovrano benevolo, non attaccava, né mostrava aggressività a meno di non sentirsi in pericolo. Lo stesso non si poteva dire di Ryan.
Il fatto che Fabrice si fosse messo sulla sua strada avrebbe avuto delle conseguenze.
Era un bene che la ragazzina fosse corsa da lui, Fabrice non gli avrebbe detto niente, così poteva cercare di arginare la probabile vendetta.
Lee non apparteneva alla razza di Ryan; l'unica violazione alla legge in cui fosse incappato era quella alle stupide norme del The Noble Experiment. Per il resto si era sempre tenuto lontano da traffici loschi. Ma era ricco quanto l'irlandese, anzi di più.
I Bailey erano un'antica famiglia di proprietari terrieri. Avevano posseduto piantagioni di indaco, cotone e canna da zucchero. Dopo la Guerra Civile, al contrario di molte altre famiglie, non avevano subito un tracollo finanziario per l'abolizione della schiavitù. Il padre di Lee aveva previsto che il "modello economico", basato sullo sfruttamento di manodopera gratuita, quella degli schiavi, appunto, sarebbe entrato in crisi per l'incapacità di riconvertirlo. Così aveva venduto tutto, eccetto la piantagione di indaco, dove c'era la villa di famiglia, e investito in altre attività. Era riuscito a mantenere intatta la loro fortuna e Lee, unico figlio, l'aveva ereditata.
Con quella ricchezza, grondante sudore e sangue degli schiavi, dopo esserne venuto in possesso, aveva cercato di fare ammenda. I soldi gli davano la possibilità di aiutare chi non era stato fortunato come lui alla nascita, e di opporsi in qualche modo a gente come Donny Ryan, o per lo meno, di cercare di limitare i loro soprusi.
Sospirò. «Hai fatto bene a venire da me. Cercherò di prevenire qualsiasi ritorsione. Ora vai a casa, tra poco il sole tramonterà e non sono tranquillo a saperti sola per il Quartiere» disse, guardando fuori dalle finestrelle. «Anzi, vedo se qualcuno dei ragazzi può accompagnarti» aggiunse, alzandosi e dirigendosi fuori dalla stanza.
Non fece in tempo a uscire dalla porticina, collegante l'ufficio al locale, che un odore acre di fumo gli invase le narici, mentre il volume di voci concitate si alzava ogni secondo di più. Nel locale non c'era nessuno, non si vedevano né Jim né gli altri. A lunghe falcate raggiunse l'entrata principale. Fuori si era formato un capannello di gente, e a qualche metro di distanza un paio di magazzini stavano andando a fuoco. Uscì per vedere meglio e l'orrore si dipinse sul viso aristocratico.
Erano passati solo pochi mesi dal massacro di Rosewood, quando con una scusa la popolazione bianca aveva aggredito quella nera che abitava il villaggio. C'erano stati almeno otto morti e la completa distruzione di Rosewood. La scena che si trovò di fronte aveva tutte le caratteristiche di uno scontro a sfondo razzista. Un gruppetto di uomini armati di bastoni avevano accerchiato Jim e Joseph. Il primo, grazie al fisico imponente, riusciva a stento a tenere lontani gli uomini che li avevano circondati, mentre Joseph era steso a terra sanguinante. Tutto ciò mentre il fumo si stava intensificando.
Con tutto il fiato che riuscì a trovare nei polmoni, Lee gridò: «Cosa sta succedendo qui?»
Uno degli uomini, corpulento e con i capelli rossicci, si voltò verso di lui ghignando. «Fatti gli affari tuoi, vecchio!»
Lee fece un passo avanti. «Sono affari miei! Sono i miei ragazzi quelli che state aggredendo.»
«Dopo penseremo anche a te. Non lo sai che le bestie si tengono alla catena!»
Approfittando di un attimo di distrazione di Jim, un altro gaglioffo, dalla faccia butterata, riuscì a colpirlo alle spalle. Il barista cadde in ginocchio. Avendo ormai fiutato il sangue, gli uomini smisero di considerare Lee e si avventarono sui due ragazzi con calci e bastoni.
L'arrivo di un altro gruppo fece fermare il pestaggio. Fabrice e gli altri cinque ragazzi della band avevano circondato a loro volta gli assalitori. Prima di gettarsi nella mischia, Fabrice gridò a Lee: «Chiama gli sbirri. Vai!»
Riscuotendosi dalla trance momentanea in cui era caduto, Lee fece come gli era stato detto; rientrò nel locale, e si trovò davanti una Tabitha sconvolta. «Stai ferma lì. Non pensare minimamente di uscire.»
Andò dritto nell'ufficio, dove su un mobile campeggiava un apparecchio telefonico. Compose con una certa agitazione il numero della polizia di New Orleans. Se si fosse trattato di chiunque altro, sarebbe stato ignorato, ma Lee Bailey era un finanziatore troppo generoso per ignorare una sua richiesta di aiuto.
Tabitha era rimasta immobile a fissare da dentro il locale ciò che stava accadendo fuori. Lee le aveva detto di non muoversi e la sua parte razionale avrebbe voluto dargli ascolto. C'era però una parte di lei, fatta di puro istinto, che in quel momento le stava urlando di andare fuori e dare una mano alle persone a cui voleva bene.
Tabitha Baker era dotata di uno spirito guerriero e, soprattutto, di uno spiccato senso di giustizia che la spronava ad agire, non certo a rimanere imbambolata come una donnina ottocentesca. Aveva parecchie risse all'attivo. Sua madre le gridava, quando tornava lacera e contusa, che si comportava peggio di un maschio. Ma Tabitha non aveva mai capito fino in fondo la differenza tra i sessi.
I bambini si vestono di azzurro e le bambine di rosa. Il blu è il colore delle uniformi di lavoro. Blu. Tute da meccanico. Cravatte. Penne per la contabilità. Il rosa è il colore degli affetti. Rosa. Copertine di romanzi d'amore e scatole di cioccolatini. Bazzecole! *
Nasci che sei una persona. Due giorni dopo ti bucano le orecchie. Ti mettono un paio di ghette rosa. Ed eccoti diventata una bambina. Frequenti una scuola femminile. Ti vestono con le gonne e ti fanno i codini. Compi quattordici anni. Il primo lucidalabbra. Ed eccoti diventata donna. Ne compi quindici. Scarpe con i tacchi. Arrossisci davanti ai maschi che ti guardano per strada. Non corri i cento metri. Non fai risse per difendere te o gli altri, ma aspetti il cavalier servente che venga in tuo aiuto. Ed eccoti diventata una cretina.
Il concetto di genere è sottoposto alle manipolazioni sociali. È una convenzione che ci viene imposta. Nascere uomo o donna non implica necessariamente comportamenti irreversibili. I ruoli sessuali si apprendono in funzione delle abitudini culturali. Non sono innati. Le donne non sono femmine perché portano i tacchi alti. E gli uomini non sono maschi perché si mettono la cravatta.
Quindi, pensò Tabitha, niente mi impedisce di difendere i miei amici nel modo in cui ritengo opportuno.
Questa volta non si trattava di teppistelli del Quartiere da mettere in fuga, erano uomini grandi e grossi. Per non parlare del fatto che invece di aiutare avrebbe potuto dare fastidio a Fabrice, che si sarebbe dovuto preoccupare anche di lei. La parte razionale del suo cervello ebbe finalmente il sopravvento (a riprova del fatto che le donne mica sono solo sentimentali, sanno pure essere razionali!), e rinunciò all'idea. Non voleva però restare impalata lì a non fare niente.
Spostò lo sguardo oltre la rissa sui magazzini che stavano andando a fuoco. Sul posto era arrivata gente che, ignorando la lotta, stava trasportando secchi d'acqua e cercava di spegnere l'incendio. Presa una decisione, si precipitò fuori. Diede di sfuggita un'occhiata agli uomini che si picchiavano. Fabrice era lacero e perdeva sangue dal naso, ma a quanto sembrava aveva provocato altrettanti danni al diretto avversario, un uomo corpulento dai capelli rossi.
Si sforzò di ignorarlo e corse verso i magazzini. Una bella donna dai lunghi e folti capelli ramati, vestita in modo elegante, la fermò. «Dove credi di andare, ragazzina?» le disse, stringendole il braccio per cui l'aveva afferrata.
Tabitha se la scrollò di dosso. «Voglio aiutare.»
L'altra la guardò, poi fece di sì con la testa. Adocchiata una florida ragazza bionda, gliela indicò. «Segui Beth. Dille che ti manda Madame.»
Ah, quella dunque era Madame!, pensò Tabitha, un attimo prima di correre dietro l'altra ragazza. Non aveva tempo per la gelosia.
Evelyn la guardò correre via come una giovane gazzella. No, pensò, l'accostamento non le rendeva giustizia. L'aspetto fisico poteva fare pensare a un leggiadro animaletto, ma la determinazione e il fuoco che bruciavano negli occhi ambrati ne facevano una leonessa.
L'aveva riconosciuta. Era la figlia di Cheryl, la cartomante, nonché protetta di Fabrice. Un moto di preoccupazione la fece voltare verso la battaglia che si stava consumando dietro di lei.
Quando era arrivata lì, non si era preoccupata degli uomini che se le stavano dando di santa ragione. Aveva pensato di trattasse dell'ennesima resa di conti tra bande rivali. Si era subito messa a coordinare la gente, accorsa per aiutare a spegnere l'incendio. Nonostante la concitazione degli eventi, era poi riuscita a dare un'occhiata per vedere se qualcuno di quegli idioti potesse essere dirottato verso la causa comune di evitare che il Quartiere andasse a fuoco. Con sgomento aveva riconosciuto Jim, il barista del Louisiana. Guardando meglio, si era poi accorta che una delle sue più grandi paure si stava realizzando. Fabrice era lì, e con lui i ragazzi di Lee. Non si trattava di una semplice scazzottata, ma di un odio ben più pericoloso che correva tra i due gruppi. Un odio tanto insensato quanto violento.
La violenza razziale era un cancro, difficile da estirpare, che si nutriva di singole aggressioni o di attacchi a intere comunità. Tra il 14 e il 15 dicembre dell'anno precedente c'era stato il massacro di Perry, in Florida, durante il quale i bianchi avevano attaccato la comunità nera. Avevano bruciato sul rogo un uomo di colore e ucciso un insegnante bianco, reo di lavorare in una scuola di neri. Il giorno dopo altri uomini di colore erano stati fucilati e impiccati. La scuola, la chiesa, il circolo ricreativo e le case di molte famiglie messe a fuoco. Neanche qualche settimana dopo, a gennaio di quello stesso anno, c'era stato il massacro di Rosewood. La violenza bianca si era scatenata per una falsa accusa di stupro di una donna bianca. Un'intera città messa a ferro e fuoco. La cosa più triste era che nessuno ne parlava, anche se tutti sapevano. Sotto certi aspetti, gli indifferenti erano più pericolosi di chi si macchiava della violenza.
*Anacronismo dovuto a esigenze narrative, dato che questo è un romanzo e non un saggio storico, me lo sono, diciamo così, "concesso".
Nel XVIII secolo i maschi indossavano spesso il rosa perché deriva dal rosso, ritenuto più aggressivo del 'calmo' blu, associato invece al femminile. Fino al secolo scorso, inoltre, gli abiti dei bambini erano per lo più bianchi, perché più pratici da lavare. Nei primi due decenni del '900 furono introdotti i colori pastello negli abiti dei bambini e ancora nel 1927 il Time notava che nei grandi magazzini americani si suggerivano vestiti rosa per i maschietti.
Lo "scambio" accade nel secondo dopoguerra, secondo la storica del costume Jo Paoletti che al tema ha dedicato il libro Pink and Blue: con il boom economico i vestitini dei bimbi iniziarono a diventare abiti da minidonne e miniuomini, mentre la bambola Barbie spopolava e dipingeva il mondo delle bimbe di rosa. Che da lì in poi, sarebbe ritenuto un colore femminile.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top