Capitolo VIII
Louise lasciò la Packard V12 un po' distante dal luogo dell'appuntamento. Con gli occhi scuri ben aperti per il pericolo di incontrare conoscenti, che l'avrebbero fermata per fare inutili chiacchiere, si incamminò spedita verso Decatur Street.
In un certo senso era bello essere in giro; dopo gli eventi della notte precedente, stare confinata in casa non sarebbe stato salutare, meglio sgranchirsi le gambe all'aria che sapeva di pioggia.
Le strade erano poco affollate, nonostante l'ora. Forse il rischio di un temporale aveva scoraggiato molti dall'uscire di casa. Il tasso di ubriachi era al minimo, ma nel giro di qualche ora, nonostante il Volstead Act, la legge che introduceva il divieto di produzione e di vendite di alcolici, ce ne sarebbero stati un po', probabilmente un bel po', seduti sul marciapiede perché incapaci di proseguire. Le guardie, che ogni tanto passavano di lì, facevano finta di non vederli.
La maggior parte dei residenti si teneva alla larga da Bourbon Street, lontano dalle vie più conosciute, gradendo altre parti del Quartiere Francese o la zona degli affari. Molti avrebbero preferito nuotare nelle acque limacciose del Mississippi piuttosto che avventurarsi su Bourbon Street, ma Louise non era una donna facile da impressionare.
Il Cafè du Monde era a cinque minuti dal cuore pulsante del Quartiere, sotto il tendone a righe bianche e verdi c'era sempre un capannello di gente, ed era così anche quel giorno. Sospirando, sorpassò una coppia che riteneva opportuno tenersi per mano e andare alla velocità di una tartaruga a tre zampe.
Una folata d'aria fredda le scompigliò i capelli. Quando si fermò sotto la tenda, aveva la pelle d'oca. Ignorando il cameriere che le stava dicendo qualcosa, si voltò di scatto. Il cuore le schizzò in gola. Il tempo sembrò fermarsi. A pochi passi dal locale stava avvenendo una colluttazione. Fabrice aveva appena dato un pugno a un energumeno bruno e ora torreggiava su di lui. I capelli biondi erano scompigliati e gli occhi verdi accesi mandavano strali all'indirizzo dell'altro.
Quando Louise si riprese dallo sgomento, si accorse del chiacchiericcio indifferente intorno a lei e sentì l'aria tornare tiepida. Il profumo zuccheroso dei bignè le riempì le narici.
Tornò a concentrarsi sulla scena che tanto l'aveva spaventata, c'era una ragazza bruna accanto a Fabrice. Era giovanissima e le sembrò tremare mentre stringeva al petto la custodia di un violino. Poi l'attenzione fu attirata dall'uomo che scese dalla lussuosa A-68 Roadster V8 nera. Lo riconobbe subito e una smorfia di disgusto si dipinse sul viso. Donny Ryan. Allora tutta la scena acquistò un senso. I vizi di Ryan erano risaputi, ma nessuno aveva il coraggio di mettersi contro di lui perché era uno degli uomini più potenti di New Orleans. Si sarebbe dovuta preoccupare per Fabrice che aveva osato contrastarlo. Nei suoi occhi però non c'era altro che ammirazione e... desiderio. Le stesse emozioni che si agitavano in quelli della ragazzina. Louise sorrise con malinconia. In fondo, si disse, ognuno di noi prova le stesse cose, dal momento che in definitiva veniamo dalle stesse cose: idrogeno, elio, ossigeno, metano, neon, argon, carbonio, zolfo, silicio e ferro, i composti fondamentali dell'Universo, le molecole elementari che esistono dal principio dei tempi e che, combinati tra di loro, hanno dato luogo ad altre più complesse. L' inevitabile sviluppo della vita. In fondo le donne sono mondi compiuti, simili seppur distanti. Pianeti orbitanti intorno alla loro stella: l'affetto o la mancanza di esso. Ecco perché tutto quello che c'era negli occhi della ragazza si rifletteva nei suoi. Louise vedeva lui nello stesso identico modo in cui lo faceva la ragazza. Perciò non le importò poi molto quando Fabrice, dopo essersi voltato un attimo verso il Cafè, si allontanò con lei, invece di restare lì, dove le aveva dato appuntamento. Lo avrebbe aspettato. E se lui non fosse ritornato quel giorno, avrebbe trovato un altro modo per incontrarlo ancora.
***
Per tutto il tragitto fino a casa, Tabitha non parlò, intenta a rimuginare sul guaio in cui lei e Fabrice si erano messi. Non era così ingenua da illudersi che non ci sarebbe stata una ritorsione da parte di Donny Ryan. Intanto erano arrivati a destinazione; Fabrice si appoggiò al muro accanto al portone della loro palazzina.
«Entra...»
Lei lo guardò ancora una volta con gli occhi pieni di gratitudine. Pensò che era un uomo coraggioso e bellissimo con i capelli biondi, tutti spettinati, e con gli occhi verdi luminosi e intensi. Soprattutto era così vivo.
Lui venne verso di lei e l'abbracciò. La stringeva così forte e non gli importava di quello che potevano pensare i passanti. Lei lo abbracciò strettissimo a sua volta. Restarono così per quella che sembrò un'eternità.
«Stai bene?» Fabrice si staccò da lei, guardandola attentamente.
«Sto bene» rispose con voce rauca per l'emozione.
Lui le circondò le spalle e l'attirò a sé di nuovo. «Mi dispiace, piccolina.»
Tabitha gli affondò le dita nel braccio. «Non sei responsabile per le azioni del tuo amico!» sputò le ultime due parole con disgusto.
Lui si scostò di nuovo, passandosi una mano tra i capelli. «Lo so. Eppure non riesco a non pensare al fatto che mi sono fidato di lui per anni; ho amato come un fratello una persona disposta a passare sopra ogni cosa per denaro.»
Tabitha non si era mai fatta illusioni sulla natura di Maurice. Spesso si era chiesta come Fabrice potesse considerarlo un amico, ma non aveva voglia di infierire. La delusione che aleggiava sul volto di lui non necessitava di essere alimentata.
«Devi stare attento, mi raccomando...»
Lui sbuffò. «So come tenere a bada Maurice.»
«Non è di lui che mi preoccupo.»
«Piccolina, tu pensa a non girare troppo da sola per il Quartiere, al resto ci penso io.»
«Fabrice, parla con Lee...»
Lui fece distrattamente di sì con la testa. «Vai ora o tua madre si preoccuperà.»
«Tu non vieni?» chiese, mentre spingeva l'usurato portone.
«No, ho da fare.»
Lei si girò verso di lui ancora per un attimo, poi gli sussurrò: «Grazie», mentre scompariva dentro la palazzina.
Fabrice allungò il passo, mentre faceva a ritroso la strada. Voleva tornare al Cafè du Monde. Forse lei non era neanche venuta all'appuntamento; oppure non l'aveva trovato quando era arrivata e se n'era andata. In ogni caso c'era qualcosa che lo spingeva a tornare.
Sollevò il capo. In lontananza cominciavano a vedersi un guizzare di lampi, subito seguiti da un sordo rombare di tuoni. Non si era reso conto, nella concitazione degli avvenimenti del pomeriggio, che un temporale si stava preparando e sarebbe scoppiato da un momento all'altro. Non pensò neanche per un attimo di tornare indietro; continuò a camminare a capo chino. Il suo umore rispecchiava la furia del temporale che stava per abbattersi sulla città, mentre nell'animo si agitava una tempesta tutta sua. La paura per ciò che poteva accadere a Tabitha, la fine dell'amicizia con Maurice. La fine, sì! non avrebbe mai potuto perdonargli ciò che aveva tentato di fare. E infine c'era il desiderio per una donna da cui, se fosse stato meno idiota, si sarebbe dovuto tenere lontano.
Con questi pensieri arrivò al Cafè du Monde. Erano rimasti quattro o cinque avventori, tutti impegnati a occhieggiare una solitaria figura di donna, seduta in disparte a un tavolo all'angolo della sala. Leggeva un libro corrugando la fronte in un'espressione concentrata. Di quando in quando alzava gli occhi con espressione assente, come se cercasse un'idea, e subito dopo tornava alla lettura con rinnovato interesse. Gli piacque vederla così assorta, ignara degli sguardi maschili. In un mondo tutto suo. Altrove. Andò dritto verso il tavolino a cui era seduta.
«Ciao...»
Lei alzò gli occhi dal libro e gli fece un sorriso radioso.
«Ciao. Ti ho aspettato.»
Fabrice fece segno di sì con la testa, prese la sedia di fronte a lei e si sedette.
«Sei bagnato...» notò.
Lui scrollò le spalle con noncuranza. «Un po'... Cosa leggi?»
«Il dolce danno di Alfonsina Storni» disse passandogli il libro.
Lui lo prese e lo sfogliò. Dopo un po' sussurrò: «È scritto in spagnolo, non conosco la lingua».
«La sto studiando da poco, non è difficile.»
Lui la guardò in modo intenso. «Leggimi qualche verso, vuoi?»
«Vivo tra quattro pareti
matematiche
Allineate al metro. Mi
Circondano apatiche
Animelle che non conoscono
nemmeno un grammo
di questa febbre azzurrina
che nutre la mia chimera.
Uso una pelle posticcia che
mi disegna grigia.
Corvo che da sotto l'ala
guarda un fiore di giglio.
Mi fa sorridere il mio becco
fiero e torvo
Che io stessa mi sento pura
farsa ed ingombro»
La voce roca di Louise scandiva ogni parola, come se l'assaporasse, alzando ogni tanto gli occhi scuri verso Fabrice, che l'ascoltava rapito.
«Ti piace la poesia.» Era una constatazione.
«Mi piace leggere. Mio padre mi ha tolta presto da scuola e mi è mancata. È stato solo grazie a...» si interruppe un attimo, aveva quasi paura di pronunciare la parola marito davanti a lui. «È stato grazie a Paul se ho potuto ricominciare a studiare.»
Fabrice sembrò imbarazzato da quella rivelazione, ma lei lo tolse dall'impaccio alzandosi in piedi. «Vieni, usciamo di qui.»
Aveva un abito bianco, leggero, che lasciava indovinare le curve del seno, presagire la precisa rotondità delle natiche, l'ellisse del ventre. A Fabrice tornò in mente un verso di Edgar Allan Poe: "La rara e raggiante fanciulla che gli angeli chiamano."
Di sicuro lui non la conosceva bene e pertanto non poteva sapere come si vestiva abitualmente, ma le poche volte che l'aveva incontrata di persona era sempre vestita di bianco. Le immagini, i simboli non costituiscono un mero ornamento, ma una forma incosciente di espressione e, perché no, di terapia; un tentativo di esprimere l'inesprimibile. Un'immagine, un simbolo, costringe a saltare dalle cose alle idee che racchiude. Un vestito bianco fa pensare alla purezza, a una tela per dipingere, a un foglio di carta da scrivere, a una storia ancora da raccontare, a un'offerta. Insomma, Louise, senza saperlo o forse sapendolo nel più profondo del cuore, si vestiva da sposa.
Lei mise il libro dentro la borsa e lui si alzò a sua volta. Con un gesto cavalleresco l'aiutò a infilarsi la pelliccia. Portava le scarpe con tacchi alti ma, anche così, lui torreggiava sulla sua piccola figura.
Uscirono dal Cafè. L'aria della sera era umida, il grosso del temporale stava scemando. Camminarono a lungo uno accanto all'altro, senza meta. Fabrice pensava a qualcosa da dire ma non gli veniva in mente niente e, incoraggiato dal silenzio di lei, che sembrava rasserenarla più che metterla a disagio, continuava a tenere la bocca chiusa.
Di colpo lei si fermò davanti alla vetrina di un negozio che esponeva profumi con un'espressione stupita.
«Vuoi andare da qualche altra parte?» le chiese Fabrice.
Louise si girò su un fianco e si ritrovarono uno di fronte all'altra. Lui si rese conto che non aveva ancora avuto il coraggio di guardarla in faccia da quando erano usciti dal locale. E così si stupì di trovare il suo sguardo già inchiodato su di lui e come in attesa. Per alcuni secondi rimasero immobili, a guardarsi negli occhi condividendo la stessa ansia. Fabrice intuì anche un lampo di desiderio. Louise, dal canto suo, ebbe l'impressione di scorgere un bagliore di affetto protettivo e sorrise mentre protendeva il mento e chiudeva gli occhi. In modo confuso anelava a qualcosa, senza sapere bene cosa. C'erano molte aspettative racchiuse nel gesto insignificante e, tuttavia potentissimo di protendere il mento e socchiudere gli occhi per ricevere un bacio. Veicolava un immenso carico di speranza e di paura, che viaggiavano accanto, nella stessa stiva. Si trattava di un gesto fugace che annullava qualsiasi altro movimento del corpo perché tutta l'anima si concentrava in quella timida offerta di labbra.
Gli occhi di Fabrice si accesero in una sola fiammata color smeraldo, illuminati dal pensiero di quanto stava per accadere. Lei sentì come una vertigine, un mulinello di luce, e si asciugò una lacrima con il dorso della mano. Abbracciando Fabrice, Louise fu contagiata dal suo stesso desiderio. Ma mentre per lui il desiderio era semplicemente desiderio e si traduceva in una semplice e terrena erezione, la commozione di lei si manifestava in un disperato bisogno di capire la forma perfetta e il significato di tale desiderio. Si sentì come se la sua personalità fosse improvvisamente evaporata e non ne avesse un'altra pronta, di ricambio. Nella mente le ronzavano di colpo strane lucciole. Stordita si rese conto che non riusciva ad afferrarle e studiarle, perché la felicità è un attimo fuggente, una questione chimica, un bagliore del momento e non uno stato d'animo.
Louise era sicura che l'Amore fosse il Demonio. Ma tale consapevolezza svanì nell'istante in cui Fabrice la baciò.
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