Capitolo VII
Paul quella sera aveva, contrariamente al solito, voluto guidare l'auto di Louise con cui erano usciti. C'era qualcosa che non andava, e la moglie ne aveva colto i segnali. Paul Bosco era un uomo moro e piuttosto attraente, con occhi verdi con tanti puntini dorati che catturavano la luce per poi diffonderla trasformata in un bagliore ardente e languido. Occhi che si incrociarono immediatamente con quelli di lei e scambiarono con essi una breve occhiata significativa. Non poteva essere l'interesse del pianista del Louisiana, il motivo che gli faceva aggrottare la fronte in quel modo. Le infedeltà erano reciproche e non avevano mai scalfito la strana unione matrimoniale a cui avevano dato vita. «Cosa c'è?»
Lui continuò a guardare la strada, ignorando l'occhiata penetrante di Louise. Dopo qualche minuto, fece un sospiro. «Arturo non è contento di come Frank e io gestiamo gli affari ultimamente.»
Arturo Bosco era il fratello maggiore di Paul, abitava a New York, dove la famiglia gestiva il grosso degli affari: edilizia, sindacati, sanitari. E molto altro che lei ignorava. Paul e l'altro fratello, Frank, invece si occupavano di quelli di New Orleans, ma la longa manus del maggiore dei fratelli Bosco si faceva sentire anche lì.
«Non ti sei mai preoccupato delle "strigliate" di Arturo...» obiettò.
«Mamma vuole venire qui. La preoccupa il fatto che ancora non abbiamo figli.»
Louise si lasciò sfuggire un sorrisetto derisorio. Paul adorava la madre: venerava un tiranno. Un tiranno, sì, ma un tiranno riverito; la venerava con lo stesso trasporto che certi popoli riservano al loro dittatore e continuano a farlo (almeno una parte di essi) anche dopo la sua caduta in disgrazia e dopo aver scoperto che ogni gradino della scala indispensabile all'ascesa del despota era posata su omicidi, corruzione e soprusi. Letteralmente: Paul adorava la madre. Senza la perseveranza di quella donna formidabile, senza la sua ferrea volontà, si diceva, cosa ne sarebbe stato di lui? Cosa ne sarebbe stato dei Bosco? Tutti e tre i figli la veneravano allo stesso modo. La madre li ricambiava; di più provava l'emozione di un legittimo orgoglio davanti alla consapevolezza chiara ed evidente che in fondo a tutti i successi e i fallimenti della sua vita, al di sopra di qualsiasi altra cosa, aveva pulsato, vigoroso, l'amore per i figli, una passione non concupiscente e tuttavia, ben più violenta e sfrenata di quelle carnali. In lei il sentimento più serio, il più profondo, molto più dell'amore per il marito, era sempre stato l'affetto materno. Orgogliosa di aver concepito solo maschi. Una femmina non avrebbe potuto perpetuarla, aveva confessato il giorno del matrimonio con Paul a Louise, non aveva mai sperato e neanche immaginato che potesse essere femminile l'essere che avrebbe ereditato il suo sangue, il suo spirito. Perché se lei se l'era passata già abbastanza male, essendo donna, sapeva perfettamente che, in quel mondo le donne non erano altro che cittadine di seconda classe e che avrebbero dovuto cambiare parecchio le cose perché la situazione migliorasse. In qualsiasi caso, lei non avrebbe fatto in tempo a vedere un mondo migliore per le donne, e probabilmente neanche i suoi figli.
In Italia, paese d'origine dei Bosco, i genitori di Carmela avevano vissuto di stenti coltivando a patate una terra ingrata. A peggiorare la situazione, di per sé difficile, il padre dilapidava alla cantina quel poco che guadagnava dissodando la terra. Gli piaceva stare lì a raccontare le sue avventure, fare il generoso e, nel calore dell'amicizia improvvisata al sapore del vino, offriva da bere a tutti i clienti abituali. Quella mania alla fine diventò un vizio, la passione dello sprecone, perché gli piaceva darsi arie del munifico e disprezzava il denaro, di cui c'era tanto bisogno in casa, con grande prosopopea; e così, mentre lui si perdeva nei suoi sogni, i compari di bevuta, tra lusinghe e lodi sperticate, gli scroccavano un bicchiere dopo l'altro. In questo modo Carmela aveva imparato il valore del denaro basandosi sul dolore della madre che ne lamentava l'assenza. «Preferirei mille volte che si fosse messo a correre dietro alle donne» diceva la povera donna. «Ma non è abbastanza uomo neanche per questo. L'unica cosa che sa fare è bere.» E tale consapevolezza della miseria aveva fatto crescere Carmela prima del tempo, e le aveva impresso fin da giovanissima un'austerità prematura e il buonsenso fermo e freddo che l'avrebbe contraddistinta per il resto della vita. Appena le era stato possibile, aveva scelto il modo che le pareva più logico per andarsene da casa: il matrimonio. La scelta era caduta su un compaesano dai modo semplici, scuro e prosaico nei lineamenti, nelle azioni e nelle parole, molto sveglio, sicuramente ambizioso. Appena dopo sposati erano immigrati in America e avevano fatto fortuna, grazie all'appoggio di un cugino di Luigi Bosco, che si era costruito una fortuna a New York, ma soprattutto grazie a Carmela che aveva convinto il marito a gettarsi in affari di ogni tipo e che di lecito avevano ben poco. E i figli, di questo, erano consapevoli.
A Louise Carmela aveva raccontato con orgoglio la sua storia appena dopo averla conosciuta e approvato il matrimonio con il figlio. Già il primo giorno le aveva detto: «Sei intelligente, sostieni tuo marito, dammi tanti nipotini e sarai felice».
Ripensando alle parole della suocera a Louise venne da ridere, perché alla donna, che pensava di poter controllare tutto e tutti, era sfuggito il piccolo dettaglio che il bel figlio, quello di cui era tanto orgogliosa perché aveva pure studiato, era omosessuale e da quando si erano sposati, non l'aveva mai sfiorata con un dito.
«Cosa pensi di fare?» chiese.
«Dipende da te... »
Louise restò a bocca aperta, i suoi occhi si incupirono. «Cosa vuol dire dipende da te? Sei tu che ti rifiuti di venire a letto con me! »
Lui fermò l'auto sul ciglio dello stradone che portava alla villa, la guardò dritta negli occhi, ignorando il furore che vi si agitava dentro. «Non devi per forza farlo con me un figlio...»
***
Quel pomeriggio Louise si sentiva sola, sotto un cielo scialbo e distante con nuvole gravide di pioggia all'orizzonte. L'auto scivolava sulla strada sgombra di gente come se pattinasse. Si sentiva fuori luogo e decise che, siccome non sapeva in che tempo si stesse muovendo, non poteva neanche sentirsi responsabile delle proprie azioni.
La discussione con il marito, la notte precedente, le aveva lasciato dentro un senso di disagio che non voleva andare via. Non aveva replicato al non troppo velato suggerimento di farsi mettere incinta da un altro, perché era troppo sconvolta. Interpretando come assenso il silenzio, lui aveva rimesso in moto e non aveva aggiunto altro. Non si erano scambiati una parola neanche una volta arrivati a casa. Non gli aveva augurato la buonanotte, come era solita fare, prima di chiudersi in camera sua. Paul era rimasto per un po' impalato di fronte alla porta della stanza, poi era andato nella sua.
Quando tutto era diventato silenzioso nella grande villa, Louise si era ricordata del bigliettino di Fabrice. Lo aveva preso dalla tasca della pelliccia e letto. L' uomo le dava appuntamento al Cafè du Monde il giorno dopo. Lo accartocciò. Aveva altro a cui pensare che al bel pianista.
Negli anni di matrimonio con Paul non aveva mai messo in conto dei figli per più di un motivo, primo fra tutti suo marito non aveva mai accennato alla cosa; inoltre alle battute di familiari e amici, che chiedevano quando si sarebbero decisi ad allargare la famiglia, rispondeva sempre con siamo ancora giovani. Soprattutto c'era il non trascurabile problema che loro due non avevano mai avuto rapporti sessuali. E non perché lei non avesse tentato qualche approccio, ma dopo qualche rifiuto di troppo si era messa l'animo in pace. Paul non provava alcuna attrazione sessuale per le donne.
Inoltre lei non si sentiva all'altezza di essere madre. Non avrebbe saputo proprio da che parte iniziare, non aveva esempi positivi a cui attingere.
Sua madre forse l'aveva amata e curata quando era troppo piccola per ricordarselo. Forse. Appena era cresciuta il rapporto madre-figlia si era trasformato in un incubo. La madre se la prendeva con lei per ogni cosa, l'accusava di essere la causa della propria infelicità, il motivo per cui il marito tornava sempre meno a casa. Quando la donna ancora usciva di casa per portarla da qualche parte, Louise ricordava perfettamente come diventava furibonda appena gli uomini la notavano per strada. La religione era il suo alibi perfetto. Non appena qualcuno le fischiava dietro, cominciava a rimproverarle un ipotetico atteggiamento provocante che stimolava la lascivia degli uomini, li induceva al peccato. Fin da ragazza Louise aveva compreso che non dipendeva dai vestiti che indossava o dall'atteggiamento che assumeva. Forse solo indossando l'abito talare, sarebbe riuscita a evitare di richiamare l'attenzione. O magari, chi lo sa, sarebbe successo anche con quello addosso... Era una circostanza che veniva a confermarle un sospetto sorto quando frequentava la scuola delle suore: qualsiasi cosa facesse, era destinata al peccato, nonostante tutti gli sforzi per evitarlo. In fondo in fondo, per quanto la sua educazione fosse stata formalmente cattolica, era cresciuta con delle idee calviniste. Era stato quello il periodo in cui aveva iniziato a odiare la madre con tutto il cuore, con una intensità tale da spaventarla. Ma la paura più grande di Louise era sempre stata quella di replicare il meccanismo familiare in cui era cresciuta.
Per Paul era diverso; bisognava tenere conto del fatto che lui non era mai stato un tipo sicuro di sé, per quanto volesse sembrarlo, e che per tutta la vita era stato succube della tirannia dell'amore materno, un amore che non era generoso e assoluto come lei lo spacciava, perché condizionato al comportamento di Paul. Lo amava quando era buono, quando si adattava all'idea di persona che lei gli aveva cucito addosso e, di conseguenza, lui non si era mai visto come un essere perfetto e completo, ma come un impostore che giocava a recitare una parte, a indossare una maschera sotto la quale si nascondeva l'uomo bugiardo che non dormiva con la moglie e andava a cercare il piacere altrove.
Non era, naturalmente, così stupido da non capire come funzionasse un simile processo mentale e persino come si era formato. Era perfettamente consapevole, pensava lei, di essersi abituato a far finta di vivere secondo certe regole, regole che erano importanti per lui o per le persone a cui teneva (alla fine, era lo stesso). Quando avvertiva di infrangere le norme in cui era stato educato, soffriva moltissimo, anche se, in fondo, sapeva perfettamente che si trattava solo di convenzioni sbagliate e obsolete, tanto arbitrarie quanto le regole del gioco dell'oca. Guidato dal desiderio di non deludere la madre, avrebbe accettato di crescere un figlio non suo e creare così altra infelicità. Louise no, non lo avrebbe permesso!
Con questo pensiero si era addormentata, dimenticandosi completamente del bigliettino di Fabrice. Solo la mattina dopo, quando si era svegliata, lo aveva visto appallottolato ai piedi del letto. Aveva deciso di incontrarlo per dirgli di togliersi dalla testa qualsiasi idea su loro due.
Era arrivata a una conclusione che l'unico motore, assoluto e solo, che finisce per guidare i passi delle persone era - triste a dirsi - l' inerzia, la volontà, probabilmente istintiva, di sopravvivenza. Sentiva un vuoto incolmabile. Il suo vuoto era lo stesso di molte altre donne che avevano inseguito invano una consolazione, un sostegno, un sedativo, un narcotico; era lo stesso vuoto di tante, di quelle mille migliaia di condannate destinate a vivere in qualche posto solitario, incastonate in un mondo che risultava tanto estraneo quanto loro lo erano al mondo.
E non c'era nessuno che potesse supplire a questa carenza.
L'amore si nutriva di fuochi sepolti, di fragori occulti, di braci sotterranee, di ceneri ravvivate, che non potevano vincere il freddo intenso, la cappa di bruma scintillante e adamantina, di un cuore congelato. Louise, però, aveva visto pelli bruciare al contatto, aveva visto schiene fiammeggiare incendiate, imperlate di sudore. Aveva visto ribollire la vita, prendere fuoco la notte; anche se poi, dopo, non erano rimaste braci ma solo ceneri. Perché la felicità, si ripeteva Louise ogni notte, non esisteva, non era uno stato dell'anima, ma un impulso fugace, come un orgasmo: puntuale effimero e strettamente legato ad altro.
Ma bisognava sopravvivere al miraggio, si diceva mentre parcheggiava l'auto. Dimenticare l'illusione romantica. Ricomporsi, farcela da soli. Era l'unica speranza, la stagione definitiva e più pura. Né l'amore né i baci erano in grado di corromperla. E adesso, si diceva mentre scendeva dall'auto fasciata nel suo vestito bianco, fai buon viso e cattivo gioco, tieni alta la testa e, con tutta la tua bravura di attrice da quattro soldi, indossa la maschera dell'algida signora che non sei e non sarai mai.
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