Capitolo L

Dopo il bagno Louise tornò in camera da letto per rivestirsi. Voleva andare a fare una passeggiata per la città e godersi quello che con ogni probabilità sarebbe stato il suo ultimo giorno a New Orleans. Si disse che le avrebbe fatto bene contemplare antichi palazzi, strutture che avevano resistito incolumi al passare del tempo, alle intemperie, alle guerre e ai cataclismi naturali. Per contrasto, i suoi problemi si sarebbero ridimensionati, si sarebbero ridotti ad aneddoti senza importanza, incidenti che non avrebbero alterato troppo il corso della storia dell'umanità e neanche, se lo si considerava da una certa prospettiva, quello della sua stessa vita.

Tutta presa da queste considerazioni andò dritta al piano di sotto, fino in cucina. La luce del giorno brillava sulle bianche superfici di marmo della stanza. Rosa stava rosolando del bacon e Frank era seduto su uno sgabello intento a leggere il Times-Picayune. Non aveva più di trent'anni ed era magro e di aspetto ordinario. I capelli castano scuro potevano aver bisogno di essere tagliati, ma in qualche modo si addicevano ai suoi lineamenti decisi. Elisa le aveva confessato che a lei i capelli ribelli del marito piacevano molto. Indossava un completo grigio che aveva visto giorni migliori. Non aveva l'eleganza naturale di Paul, né quella studiata avuta in vita da Arturo.

Rosa gli mise sotto il naso un piatto di pane tostato, bacon e uova, poi si voltò e vide Louise sulla porta.
«Buongiorno, senõra. Fame?»
«Un po'.»
«Venga» le disse, indicando lo sgabello accanto a quello di Frank. «Le preparo subito la colazione.»
«Grazie, Rosa.»
L'anziana donna sorrise.
Louise si sedette accanto al cognato. «Ciao, Frank.»
Lui si pulì la mano con un tovagliolo. «Buongiorno, Louise. Scusami se mi sono approfittato di Rosa. Stamani sono uscito presto di casa per... quello che sai.»
Lei fece un gesto di noncuranza. «Qui sei di casa, Frank... Grazie per tutto» aggiunse in un sussurro.

«Anche tu qui?» La voce di Paul giunse dal soggiorno.
Louise si voltò per vederlo in piedi nel vano della porta. Sembrava pallido e inquieto.
Rosa sorrise. «Buongiorno, senõr
«Ciao, Paul» disse Frank.
Benché sul viso di Paul fosse dipinto un sorriso, fissò il fratello con sguardo corrucciato. «È successo qualcosa a mamma?»
«No, non credo. Elisa e io abbiamo lasciato la villa qualche giorno fa, siamo tornati a casa nostra.»
«Preparo anche per lei qualcosa da mangiare» chiese intanto Rosa.
«Grazie, ma non ho fame. Frank, ho bisogno di parlarti un minuto giacché sei qui.»
Paul fece un passo indietro nel soggiorno.
Frank guardò Louise. «Parleremo dopo...»
Raggiunse Paul, mentre Rosa le portava il piatto.
«Senõra, si sente bene?»
«Ho un po' di mal di testa. Non preoccuparti, passerà.»
La voce di Louise si affievolì al pensiero di tutte le cose che doveva fare. Avrebbe dovuto rimettere insieme la sua vita. Ogni cosa. Sopraffatta da questi pensieri, perse l'appetito.

Frank tornò al ripiano della cucina, terminò di mangiare la colazione in silenzio. Quando Rosa uscì dalla stanza, rivolse la parola a Louise. «Devi partire oggi stesso. Questo primo pomeriggio, prima che inizi la parata» sussurrò. Non notò, o fece finta di non notare, lo sgomento disegnato sul volto della cognata. Tirò fuori dalla giacca una busta. «Qui dentro ci sono i documenti con la tua nuova identità.»
Louise rabbrividì mentre li prendeva. Le mani le tremarono. «Frank... » tentò di parlare, ma il groppo in gola glielo impedì.
«Lo so che è difficile, ma questa è l'unica soluzione, se hai deciso di confessare...»

«Mi sento come se mi stessero amputando un arto all'idea di lasciare... tutto» rispose lei con una voce cupa che lo fece sussultare. Sembrava sgorgarle da qualche punto remoto in fondo alla gola. In un attimo le passarono davanti agli occhi i trent'anni trascorsi e, quando arrivò al suo ultimo amante, a Fabrice, capì che la sua immagine se la sarebbe potuta trascinare dietro come avrebbe potuto portare un reliquario magico stretto al petto. Era solo ieri, si suol dire, ieri, ma sembravano passati secoli. Lo aveva cercato per solitudine e nella solitudine lo avrebbe ricordato.
Da quando era andata a letto con Fabrice la prima volta, da quando aveva creduto possibile la felicità, il suo cuore si era trasformato in un'entità confusa, indefinibile, indecifrabile. Si era smarrita come le era già successo otto anni prima, quando girava per New Orleans e aveva incontrato Paul, e acconsentito a sposarlo per sfuggire all'infelicità della sua famiglia. La sua vita non era altro che una fuga dopo l'altra. Un errore dopo un altro. Una fuga dopo ogni errore. Era stato come sporcarsi le mani di sangue. Si sentiva come Lady Macbeth: sapeva che quelle macchie non si sarebbero potute lavare, così come non avrebbe potuto cancellare, nel suo cuore, gli anni passati a New Orleans, il rapporto irreparabile con sua madre, e il suo amore per Fabrice.

«Hai preparato la lettera con la confessione per l'avvocato?» La voce di Frank la riportò al presente.
«Sì...» Per evitare i suoi occhi, Louise guardò fuori dalla finestra accanto al tavolo. Un raggio di sole rimbalzò sulla panchina del giardino. Attraverso la finestra colpì il suo occhio. Si girò di scatto verso Frank. «Dirò a Rosa di consegnarla oggi stesso.»
«No. Dille di farlo domani mattina, quando avrai messo già un po' di distanza fra te e New Orleans» borbottò lui.
«Frank, anche se mi dovessero prendere, non dirò mai che è stata Elisa. Continuerò a sostenere che sono stata io perché Arturo aveva scoperto la mia relazione con... Jim di Pietro», lo rassicurò a voce bassa. «Mi disgusta tirare in ballo una persona che ho visto, sì e no, un paio di volte in vita mia.»
Frank aggrottò la fronte e si strinse nelle spalle. «È morto qualche giorno prima di Arturo e aveva la fama di correre dietro le donne sposate. Probabilmente a ucciderlo è stato qualche marito tradito. È perfetto.»
«Sei sicuro?»
«Sicuro.» Il tono del cognato non ammetteva repliche. «Se hai sensi di colpa» aggiunse in modo brusco, «non farteli per questo.»
Louise abbozzò un sorriso amaro. «I sensi di colpa li ho per aver coinvolto Elisa nei miei casini.»
Lui fece di sì con la testa con una strana tristezza. «Non avresti dovuto. Conoscevi la sua storia meglio di me. Per questo non sperare in una assoluzione da parte mia.» Piantò gli occhi su di lei. «Sparisci dalle nostre vite e forse potremmo dimenticare.»

Louise voltò la testa di scatto e tornò a guardare il giardino dalla finestra.
«Se pure riuscirai a sfuggire alla polizia, non pensare che mia madre si dimenticherà di te. Ti farà cercare fino in capo al mondo per avere vendetta. Questo a Elisa non l'ho detto, anzi ho cercato di farle credere il contrario. Deve saperti al sicuro» aggiunse Frank.
Louise annuì.
«Paul è uscito, starà fuori tutto il giorno per un affare, approfittane per partire il prima possibile.»
Lei drizzò le spalle e socchiuse gli occhi. «Fammi un ultimo favore: stai vicino a Paul» sussurrò, prima di alzarsi dallo sgabello. «Addio, Frank.»
Lui non le rispose. Louise stava per uscire dalla stanza quando lo sentì sussurrare: «Certo che gli starò vicino, è il solo fratello che mi è rimasto».

Con il cuore in subbuglio, Louise lasciò la cucina e andò al piano di sopra, nella sua camera da letto. Tirò fuori dall'armadio una valigia già pronta.
Rosa la raggiunse in quel momento.
«Senõra, io ho finito...», si interruppe quando notò la valigia. «Partite?» chiese, confusa.
Il viso di Louise era freddo, pallido. «Sì, Rosa, ma solo io. Vado via per una breve vacanza. Intanto devi farmi un favore. Domani mattina devi consegnare questa all'avvocato McTierney» le rispose, porgendole una busta.
Rosa l'afferrò, decisa. «Va bene, senõra. Posso fare altro per lei?»

Louise pensò di affidarle anche una seconda lettera, quella per Fabrice, ma ci ripensò. Non poteva rischiare che qualcuno o qualcosa lo collegasse a lei, altrimenti tutta la storia che avevano messo in piedi lei e Frank non avrebbe retto.
«No, Rosa. Grazie di tutto.» Guardò con affetto per l'ultima volta la sua governante. I capelli erano ormai completamente bianchi, raccolti in una stretta crocchia. I vecchi occhi castani erano luminosi e amichevoli. Era stata una presenza costante e, in un certo senso, consolatoria durante gli anni di matrimonio. Paul, ne era sicura, avrebbe pensato alla sua vecchiaia. Le era affezionato tanto quanto lei.
«Buon viaggio, senõra.»
Quando la donna le voltò le spalle, Louise sussurrò «addio», trattenendosi dallo scoppiare in lacrime.

***

Sceso dall'automobile, Antony disse all'uomo che lo aveva accompagnato di informare Giacalone che lo avrebbe aspettato in cantina per fare rapporto. Non incontrò nessuno nel tragitto dalla rimessa alla taverna. Carmela aveva dato la serata libera alla maggior parte dei dipendenti per il Mardi Gras. Anche di tirapiedi di Giacalone se ne vedevano pochi in giro. Meglio così!

Arrivato a destinazione girò intorno al tavolo, una mano sul fianco e l'altra affondata tra i capelli rossi. Tutto sembrava al proprio posto. Si sedette appoggiandosi allo schienale della sedia. Finalmente era giunto il momento.
«Eccoci qua...» ripeté a se stesso. Restò immobile per qualche minuto a fissare lo spazio davanti a sé. Si sentì come se non potesse più trattenere le emozioni, la sua disperazione aleggiò nel vuoto. Ne aveva fatto a meno per tanto tempo, perché proprio ora si sentiva così sopraffatto? Inspirò ed espirò lentamente, finché ritornò a essere il solito pezzo di ghiaccio. Pronto a uccidere.

«Già fatto?»
Antony impose al proprio corpo di stare immobile nel sentire la voce di Giacalone all'improvviso, ma il tentativo di non sobbalzare riuscì a metà. La sedia raschiò comunque sul pavimento, producendo un rumore stridulo. Avrebbe preferito avere ancora qualche minuto a disposizione per prepararsi al confronto.

Fermo sull'uscio, Giacalone indossava un maglione grigio che si tendeva sul petto poderoso. Sembrava incredibilmente forte, nonostante la non più giovane età.
«Potevi almeno cambiarti, sembra che tu abbia sgozzato un maiale!» esclamò, disgustato. Lo raggiunse al tavolo. «Non lo sai proprio fare un lavoro pulito, eh?» lo derise. Nel suo tono però c'era come una forzatura. Antony ebbe la netta sensazione che l'uomo lo temesse. E questo non era un bene.

«Importa forse il modo in cui si uccide?» rispose, cercando i suoi occhi. «Non è forse il risultato ciò che conta?»
L'altro annuì e si mise a camminare in circolo, finendo davanti alle bottiglie di vino. Ne prese una, guardò l'etichetta, la rimise a posto, passò a un'altra. Veniva di rado in cantina, non amava il vino, preferiva il whiskey.
«A te piace uccidere. Ci prendi proprio gusto. Sei un fottuto pazzo» sospirò e si fermò con un Bordeaux in mano.
«E tu, cosa provi quando uccidi?»
Giacalone fu colto alla sprovvista dalla domanda. Lo fissò. Occhi cupi e infossati.
«Dimmelo!» lo incalzò Antony.
Lui posò la bottiglia. Fece altri due passi lungo gli scaffali di legno.
«Potere... tu provi potere nel togliere la vita, io piacere. E qual è la differenza? Restiamo comunque due assassini» disse Antony.
L'altro si strinse nelle spalle e andò a sedersi davanti a lui.

«Hai una sigaretta?»
«Da quando fumi?»
«Da ora.»
Giacalone tirò fuori un porta sigarette e ne estrasse una. Rovistò nelle tasche per cercare la scatola di fiammiferi svedesi.
Accese la sigaretta e la diede ad Antony. Questi la prese. Non aveva mai fumato in vita sua, questa sarebbe stata la sua prima e ultima volta. Si era sempre tenuto lontano da tutto ciò che poteva comportare una dipendenza: fumo, alcol, droghe e sentimenti. Aspirò la prima boccata e represse un moto di disgusto.

«Qual è la prossima mossa?» chiese.
Nell'aria immobile, turbata soltanto dalle spirali di fumo, gli occhi di Giacalone lo fissarono da sotto le palpebre pesanti.
«Io preferisco occuparmi solo degli uomini. Le donne cerco di evitarle, se posso. Altri, come te, riescono a lavorare bene con le femmine. Ammazzare un mucchio di gente, stuprare qualche donna, fare saltare in aria cose sono faccende molto diverse. Quindi, visto che a te piace ammazzare le femmine e a me no, ti lascio tutto il piacere di fare fuori pure la tizia del bordello.»

Antony si alzò e andò verso il fondo della cantina, sparendo per un attimo dalla visuale di Giacalone.
«Ne vuoi un'altra?» chiese quest'ultimo quando lo vide tornare a mani vuote.
«No. Ho scoperto che non mi piace. Dimmi piuttosto dove trovarla.»
«Ci stiamo lavorando...»
Antony espirò lentamente. «Resto a disposizione allora» disse.
Andò verso la porta e si appoggiò allo stipite. Si guardò intorno. Vide gli scaffali con le familiari bottiglie di vino costoso, le tavole larghe del parquet. Una cornice anomala per l'atmosfera elettrica che permeava l'aria.

Come scorreva in fretta il tempo, dopo un'attesa interminabile, fatta di giorni in cui aveva giocato a fare la formichina, accumulando in quel luogo strumenti di morte.
Di solito, se si pensa alla propria morte, viene in mente un incidente o una malattia. A lui no. Lui aveva sempre saputo che la sua sarebbe stata violenta, premeditata, e ad Antony piaceva così. In fondo era scritto nel suo destino. O no?

«Be', puoi andare... O hai da dirmi altro?»
Antony si limitò a fissare le linee marcate del volto dell'altro. Nel silenzio della cantina, si rese conto che il mondo sarebbe stato un posto migliore senza loro due.
«Hai perso la lingua?» insistette Giacalone, minaccioso. Qualcosa lo distrasse. «Che cos'è questo odore?» si interrogò, sgranando gli occhi cerulei.
Si girò e andò verso il fondo della cantina, dietro l'ultimo scaffale. Lo sguardo cadde sulla botola aperta. Con orrore crescente si sporse sopra di essa: la miccia accesa stava terminando la sua corsa verso una quantità spropositata di esplosivi. Non perse tempo a chiedersi chi e perché. Non gli restavano che pochi minuti prima che quella Santa Barbara facesse saltare in aria non solo la cantina, ma tutta la villa.

Il cigolare della porta d'ingresso gli mise le ali ai piedi. Trovò l'unica possibilità di salvezza sbarrata dal corpo di Antony Hughes, fermo immobile, tra lui e la porta chiusa.
«Che cazzo hai fatto?» sibilò, scagliandosi sul ragazzo. All'ultimo momento si bloccò. Un coltello era apparso nella mano sinistra di Antony.
«Ritornando al discorso di prima, sai qual è in realtà la mia specialità? Fare saltare in aria 'cose'. Da quando il vecchio Gavin è morto, mio padre mi ha lasciato il compito dei 'rifornimenti'. Sono poche le persone che si trovano a proprio agio con gli esplosivi, sai. Qualche giorno fa ho pure arricchito le scorte» ghignò. Aveva gli occhi lucidi, come in preda a un delirio febbrile.

«Togliti di mezzo!» gli urlò Giacalone. Si maledì per essere sceso in cantina senza pistola. «Salteremo in aria tra pochi secondi... Morirai anche tu, fottuto pazzo!»
«Dettagli.»
Capì che il ragazzo non avrebbe ceduto. «E allora vuol dire che andremo all'inferno insieme.»
Caricò come un toro, afferrando Antony per la vita e sbattendolo contro la porta.
Tremando da capo a piedi, Antony ignorò il dolore, pur sospettando di aver stampato la propria sagoma sulla porta di metallo. Con il coltello stretto nella mano colpì, ma Giacalone si spostò e il colpo non raggiunse il bersaglio. Senza esitare il più anziano lo afferrò per i capelli e gli sferrò una testata sul naso. Quello iniziò a schizzare sangue come un geyser.
La reazione di Antony fu altrettanto veloce, restituì il colpo con una ginocchiata all'inguine, così forte che Giacalone credette di soffocare e si portò le mani sui genitali. Fu allora che Antony, il coltello stretto nella mano viscida di sangue, lo colpì al petto.
Nell'istante in cui la lama affondò nella carne, Giacalone sentì come se ogni nervo del suo corpo trasmettesse il dolore. Il cuore batteva sempre più irregolare; a un certo punto smise di pompare, e con la fibrillazione venne il freddo che lo travolse e intorpidì. Cercò di combatterlo, di obbligare il suo corpo a funzionare di nuovo, ma non aveva più energie a cui attingere. La mente voleva restare, la carne era spacciata. E fu buio.

***

Carmela Bosco detestava il Mardi Gras come poche altre cose al mondo perciò, come ogni anno che capitava a New Orleans in quel periodo dell'anno, decise di andarsene a letto presto. Dopo essersi addormentata, i sogni continuarono per un certo periodo a vagare senza meta nella sua testa, intrecciandosi e confondendosi l'uno con l'altro come in un caleidoscopio e senza assumere una forma precisa. Immagini, persone e luoghi sconosciuti vorticavano e ruzzolavano per la sua mente, finché la sua testa ne fu completamente ricolma.
Dopo un po' tutto divenne più nitido e riuscì a vedere più chiaramente. I corpi putrefatti di suo marito e di Arturo la salutarono, passandole accanto. Urlò.

Si svegliò con un sussulto. Ci mise un minuto per rendersi conto che era nella sua stanza. Si alzò e andò ad affacciarsi alla finestra, lo sguardo fisso su un querceto poco distante dalla villa. L'aria sembrava imbalsamata là fuori. Non c'era un alito di vento. Rabbrividì al pensiero del sogno che aveva fatto. A un tratto qualcosa si mosse nella notte. Fece un passo avanti aderendo con le mani al vetro, aprì la bocca, mormorò qualcosa.

Una fiammata. Un boato. Un'ondata di energia.
E poi solo una piaggia sottile di detriti.

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