Capitolo II

C'erano giorni che nascevano con il sapore giusto, di pane fresco o dolci appena fatti, e dopo mutavano il loro odore portando un qualche dramma. E allora pensavi: ecco, ma chi l'avrebbe mai detto! Ce n'erano altri invece che nascevano sotto un cielo sporco e ti iniettavano in vena un senso di terrore vago, scuro. E pensavi, spero che migliori. E non migliorava, e un ago affondava dentro il tuo cuore spento.
Quel giorno era del secondo tipo, pensò Fabrice, guardandosi allo specchio. La barba lunga, gli occhi rossi, il livido sullo zigomo destro e il labbro spaccato raccontavano la giornata che stava volgendo al termine.

Stanco del suo riflesso si staccò dallo specchio e si affacciò alla finestra che dava su Bourbon Street. Gli edifici gibbosi assumevano, nell'oscurità, l'aria di sinistre e immense ombre minacciose. Un'estensione splendente di finestre brillava nell'oscurità e riusciva quasi a disperdersi, evidenziando le dimore delle persone anonime che condividevano con lui la città.
Immaginò che la stragrande maggioranza di loro non fosse sola, e li invidiò con tutto il cuore.

«Non lasciarti prendere dall'autocommiserazione» ripeté a se stesso, come si era abituato a fare ultimamente. «C'è tanta gente che sta peggio di te.» Ma una voce insistente da dentro gli rispondeva che era assurdo paragonare le sventure, che tutte le pene sono enormi nella loro immensità.

Fabrice non sapeva perché lo aveva fatto. Le persone facevano le cose più strane quando vengono piantate. Alcuni fuggivano in un posto lontano; altre lasciavano il lavoro; si mettevano ad andare a letto con chiunque; cominciavano a fumare; si facevano di chewing-gum alla menta, o di caramelle al limone, o ancora di sostanze più pericolose; alcuni andavano addirittura da Marie Laveau per comprarsi una delle sue pozioni voodoo.

Le persone come Fabrice erano afflitte da un tarlo, la paura di essere abbandonati. Si trattava probabilmente di gente che aveva avuto un'infanzia infelice (e chi non l'aveva avuta un'infanzia infelice? Chiedeva l'insidiosa vocina dal profondo. Be', moltissima gente: non esistevano forse più di un uomo o una donna che ricordavano con nostalgia meravigliose feste di compleanno, illuminate da candeline su un'enorme torta di cioccolato, e dolcissimi Ringraziamenti da favola con tacchini succulenti e tutta la famiglia intenta a intonare canzoncine?). Ma non bastava una qualsiasi infanzia infelice, perché ce n'erano molte sfumature possibili. Doveva essere un'infanzia in cui il futuro angosciato si era sentito ab - ban - do - na - to, ma abbandonato sul serio.

Fabrice era il classico esempio. Il padre non c'era mai stato, neanche fisicamente, occupato con i suoi traffici illeciti; a volte tornava dopo mesi di assenza, ubriaco e indifferente.
A sette anni si ricordava di aver avuto per un po' una sorella; per tutto il tempo della sua breve esistenza non aveva fatto altro che piangere e dormire accanto a lui. Sentire il suo profumo di neonata gli rimescolava qualcosa in fondo al cuore. Poi un giorno si era svegliato e lei non c'era più.
La madre che, fino a quel giorno, era stata allegra, gli aveva insegnato a suonare il pianoforte e non mancava mai di fargli una carezza, aveva cominciato ad ammalarsi sempre più spesso, finché non aveva avuto più neanche la forza di parlargli; un giorno, anche lei, si era addormentata e non si era svegliata più.
A quel punto il padre aveva perso interesse a tornare a casa, e lo aveva spedito da una nonna piena di acciacchi e malanni che il più delle volte si scordava anche il suo nome.

Un'infanzia dickensiana, insomma. Ebbene, superata l'infanzia (anche se non la si supera del tutto: nessuno ci riesce) ogni volta che tornava a sentirsi abbandonato (e si sentiva abbandonato un sacco di volte, sicuro, ma solo per una mera questione di statistica, ma perché chi può mai sopportare una persona assuefatta alla sofferenza, che passa metà della vita a soffrire e l'altra metà a trattenersi dal farlo?), ogni volta che un amante decideva di non volerlo più, o che veniva licenziato, o che litigava con il suo miglior amico, zac!, gli tornavano gli attacchi d'ansia, ricominciava a non dormire più la notte, a formulare pensieri suicidi, a ubriacarsi fino a perdere i sensi, a fare a botte con il primo che aveva osato guardarlo male.

Avrà pure un nome questa ansia, questa paura. Ma cosa importa ciò che è stato? Importa tanto il nome che le si dà, quando non è altro che un modo di definire il riflesso di un fantasma che, in fondo, ognuno di noi si porta dentro? Importa tanto che stavolta fosse alta un metro e sessantotto, che avesse i capelli biondi, la voce dolce, gli occhi blu vicini e allungati, una faccia austera e spiritosa, e una bocca di quelle che ti fanno pensare che saresti disposto a morire per un suo bacio?
Importano le centinaia di liti che ci sono state prima della rottura definitiva?
Lei si vergognava di stare con uno come lui, uno spiantato che si guadagnava da vivere suonando nei locali clandestini con i neri. Lei, Amanda Pellier, figlia di una dinastia di prosecutors, con tutti i ragazzi per bene di New Orleans ai piedi. Lei che lo aveva inseguito, concupito, avuto tutte le volte che aveva avuto voglia. Sempre però nascosto agli occhi del padre permissivo, ma non troppo da farle rovinare la vita da uno spiantato pianista dai dubbi natali, e di quella società di cui lei era fiore all'occhiello e lui reietto che andava bene solo per scopare.

Alla fine Fabrice si era stufato di un desiderio che passava attraverso i corpi e non lasciava nient'altro.
Sostanze, sedimenti, illusioni, sfioramenti, ansie, inganni di grazia e bellezza, finzioni alate, fumo, niente...
Tutto ciò che Amanda aveva imprigionato, senza saperlo, nel fragile ridotto del suo corpo. Tutto quello che si era presa, in affitto.
D'un tratto si rese conto che malgrado l'alcool, le botte, la luna e le luci soffuse il fantasma di Amanda, di tutto quello che aveva visto in lei, si stava piano piano dileguando.

Qualcuno bussò alla porta del suo appartamento. Non si sorprese, quando aprì, di trovarsi davanti Cheryl, la cartomante che abitava al piano di sotto.
«Hai un aspetto orribile!» gli disse, entrando in casa con la solita accozzaglia di colori che costituiva il suo vestiario e un fagotto fumante tra le mani. Lo appoggiò sul tavolino, togliendo l'involucro che lo copriva.
Crawfish étouffée, uno stufato cremoso preparato con gamberi, riso, spezie e roux biondo.
«Mangia, che mi pare tu ne abbia particolarmente bisogno!»

Cheryl non smetteva di fissarlo. Infine emise un sospiro e andò a posare il suo sedere largo sul fragile divano (è una caratteristica di tutti i divani vecchi, come si sa) e vi sprofondò, scivolando verso il fondo come se si immergesse in un lago, mentre la sua cellulite tremava come l'Impero romano davanti ai cristiani. Si incastrò ancora un po' con enorme difficoltà, dopo di che ancheggiò con movimenti ampollosi e insidiosi, e a partire dal momento in cui ebbe accomodato sul divano i suoi sessanta e passa chili di temerarietà, si trasformò in un'ansiosa venere preistorica.
«Be', allora, cosa stiamo aspettando?» chiese impaziente. «Raccontami cosa ti è successo per ridurti così.»

Fabrice era affezionato a Cheryl. Da quando era andato a vivere nell'appartamento sopra il suo, lo trattava come uno di famiglia.
Un giorno, in vena di confidenze, gli aveva raccontato che il primo figlio, se fosse sopravvissuto all'infanzia, avrebbe avuto la sua stessa età. Come sua madre, Cheryl aveva provato il dolore di perdere un figlio. Da quel giorno lui si era abbandonato pieno di gratitudine all'affetto che la donna gli dimostrava. Si sentì in dovere di rispondere, anche se non ne aveva voglia.
«Amanda mi ha piantato perché il padre ci ha scoperti.»

Lei scosse la testa di capelli bruni e crespi, lunghi fino alle spalle, tenuti indietro da una sciarpa di cotone nera. Portava enormi orecchini a forma di luna che le pendevano sopra le spalle e una miniera d'argento ai polsi. Braccialetti che tintinnavano ogni volta che si muoveva. A Fabrice il suo aspetto faceva venire il mal di testa, ma sapeva che dietro l'abbigliamento 'esotico' Cheryl nascondeva una mente sagace.
«La figlia del procuratore...» sospirò. «Cosa ti è saltato in mente? Sei bello e intelligente, Fabrice, potresti avere centinaia di donne e invece...»

Non sapeva come replicare. Era vero. E pensare che quando aveva conosciuto Amanda, un pomeriggio di qualche mese prima al Caffè du Monde, aveva notato la sua amica, non lei. Lui era insieme al suo amico Maurice e si erano subito impegnati per abbordare le due ragazze. Operazione abbastanza semplice, dato che anche loro li avevano notati. Solo che, com'è risaputo, sono le donne a scegliere e lui aveva attirato l'attenzione della bionda, invece della mora che gli era piaciuta di primo acchito.
Le uscite pomeridiane a quattro erano finite presto perché Maurice e l'altra ragazza non si erano presi per niente, mentre lui e Amanda avevano cominciato a frequentarsi assiduamente.
Poi un giorno si era presentata alla porta del suo appartamento e, quando aveva aperto, lei lo aveva abbracciato con tanta forza che Fabrice aveva potuto avvertire il tremito che percorreva i muscoli. Il suo corpo di donna era flessibile, ardente e leggero come una fiamma.

Non uscirono per andare a fare una passeggiata, come al solito, ma caddero avvinghiati sul letto senza una parola. Lei afferrò il suo membro con urgenza. Lui non gradì tanta decisione. Si mise immediatamente sopra e alla fine controllò la propria fame e vinse quella di lei. Disteso sopra di lei, esploratore, conquistatore, iniziò un periplo per tutta la sua geografia. Percorse strade, esaurì i sentieri, misurò una gola tra le montagne. Scoprì varchi segreti e avanzò strisciando in tutte le gallerie e alla fine si rifugiò in una valle ospitale e lì guadò fiumi e assaggiò l'acqua di ogni fonte. Poi si fusero. Ogni spazio, ogni territorio si diluì in quello dell'altro e il loro pianeta divenne comune, si allargò. Il letto era il cielo, e i cuscini le nubi, e l'universo in cui abitavano era fatto d'aria e di immaginazione.

Dopo aver fatto l'amore, allacciati, coricati sul fianco in modo che lui potesse tenerla in grembo come se fosse gravido, Fabrice capì di esserne forse innamorato. Il fatto che fossero quasi sempre chiusi in casa di lui e che lei non accennasse minimamente a presentarlo ai suoi non lo impensieriva. Povero scemo, pensò.
Quando stava con lei la sua personalità si diluiva in una sorta di trance in cui trascurava qualsiasi altra considerazione e cancellava una serie di fattori che, considerati razionalmente, l'avrebbero dissuaso dal restarle accanto. L'attrazione, però, era così forte che preferiva dimenticare la vita reale; proprio come il cirrotico, che sa di non dover bere ma che rimane ugualmente seduto al bar, felice e contento, perché in un certo qual modo preferisce vivere meno ma alla grande, piuttosto che sopravvivere alla noia.

Mentre Fabrice inseguiva le sue silenziose considerazioni, un bussare energico alla porta fece sobbalzare sia lui che Cheryl.

Non fu sorpreso, quando aprì, di trovarsi di fronte a una ragazzina gracile, ma dal corpo ben definito, con i lunghi capelli castani ramati raccolti in due grosse trecce e gli occhi del colore più straordinario che avesse mai visto, un bronzo tendente all'oro. Neanche lo salutò, e mostrandogli un vecchio violino, come se quello spiegasse tutto, entrò in casa.
«Tabby!» esclamò Cheryl.

«Sì, mamma, mi avevi detto di non disturbare Fabrice, lo so. Ma devo assolutamente fargli sentire questo» disse, mettendosi in posizione in mezzo alla cucina. Portò il fondo dello strumento sull'esile collo e il braccio sinistro si appese con la mano sulla tastiera, il gomito si direzionò verso il basso. Spostò il corpo dello strumento un po' più a sinistra del pubblico, costituito dalla madre e Fabrice. Mosse l'arco lungo le corde, applicando una leggera flessione. E la musica di Nikolaj Andreévič Korsakaov invase la piccola stanza.

Tabitha Baker, a soli sedici anni, era una violinista straordinaria. Fabrice la guardò affascinato mordersi il labbro nei passaggi più difficili. Il vecchio violino, che lui le aveva procurato grazie a Lee Bailey, era fermo nelle sue mani. Si lasciò trasportare dalle note che Tabitha riusciva a tirare fuori dallo strumento. Come il calabrone per la scienza, calcolando il peso, il volume, la forza e l'aerodinamica, non dovrebbe essere in grado di volare, eppure vola, così quel brano per una ragazzina dei bassifondi di New Orleans e per chiunque costituiva una sfida senza tempo e contro il tempo, che non poteva essere vinta, invece Tabitha lo aveva fatto. *
Quando terminò aveva le guance arrossate e lo sguardo fiero.

«Be', i soldi spesi per le lezioni di musica non sono andati sprecati» sospirò Cheryl.
Fabrice sapeva che solo grazie alla caparbietà delle due donne Tabitha aveva potuto raggiungere quel livello. Le condizioni economiche della famiglia Baker non erano floride. Ma quello a cui aveva assistito ripagava di ogni sacrificio.
«Voglio provare ad entrare al College-Conservatory of Music...»
Cheryl sobbalzò sul divano. «In Ohio?!»
Con gli occhi velati di malinconia perché egoisticamente quella ragazza così piena di vita e di talento gli sarebbe mancata tanto, lui disse: «Sarebbero degli idioti a non prenderti».

* Piccolo (probabile) anacronismo: il calabrone per la fisica non potrebbe volare è una bufala rafforzata da studi del 1934 "Les vol des insectes" di Antoine Magnan che aveva sbagliato i calcoli alla base della teoria. Lo studio ha rafforzato la bufala ma non è detto che già non circolasse negli anni '20.

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