Il prigioniero
Io sono niente.
Ecco la frase che mi ripeto ogni giorno quando mi sveglio. Ogni volta che apro gli occhi e realizzo di non essere morta, tutta l'inutilità della mia vita mi travolge come un pugno nello stomaco, sempre pronta a ricordarmi che la mia esistenza è un susseguirsi di scelte sbagliate miste alla codardia di non volerla fare finita. Perché ogni volta che ci penso una vocina nella mia testa mi dice che la morte è definitiva e solo la vita è piena di possibilità. E mi aggrappo alla speranza di un cambiamento.
Ma per cambiare, per migliorare la propria condizione ci vogliono degli ingredienti che io non ho: forza di volontà e possibilità. Tutte cose di cui sono drammaticamente sprovvista.
E come ogni mattina, anche quella sembrava essere la milionesima di una routine perversa di cui non mi sarei mai liberata. Io sono la figlia bastarda, letteralmente, del capo clan di una famiglia di zingari. Noi siamo uno dei pochi clan ancora nomadi, e purtroppo sono nata dal tradimento di mia madre con un altro uomo, di cui l'unica cosa che so, è che è stata una tale vergogna da spingere suo marito ad uccidere il mio padre biologico.
E dal momento che mia madre è intoccabile, una sciamana per il mio popolo -cosí la chiamerebbe la gente normale- l'uomo che ha sposato non ha potuto fare altro che crescermi insieme agli altri suoi figli. Che ovviamente mi odiano, come mi odia lui.
E se non mi uccide è perché grazie a chissà quale intervento celeste, io sono l'unica della famiglia ad aver ereditato i poteri di mia madre. Ma anche da lei, le uniche attenzioni che ho ricevuto sono state quelle volte ad istruirmi. Mai un abbraccio, mai un bacio, o una mano ad asciugarmi le lacrime.
Io sono maledetta.
E quella mattina ne ho avuto la certezza. Mi ero svegliata all'alba come sempre, pronta a mettermi con la testa sui libri, a schivare gli insulti dei miei fratelli e sorelle, se non fosse stato per il trambusto fuori dalla finestra della mia piccola stanza. Mi affacciai, cercando di capire cosa stesse accadendo, e vidi un uomo incatenato con una museruola a tenergli la bocca ferma, mentre mia madre imprimeva sulla sua fronte un simbolo.
Riconobbi quel simbolo. Era un'antica maledizione, volta ad indebolire le forze di chiunque, normalmente avrebbe portato lo sfortunato vicino alla morte, ma quell'uomo aveva ancora la forza di dimenarsi. Inutilmente, perché le catene che gli ferivano i polsi erano sigillate da un incantesimo, potevo vederlo bene.
Stava accadendo qualcosa e la cosa strana, era che mia madre non mi avesse chiamata, in quanto sua erede. Così presi una coperta, me la gettai sulle spalle e uscii fuori. La faccia di quell'uomo era contorta dalla rabbia, e nemmeno la maledizione di mia madre riusciva a sopire la sua voglia di libertà. Qualcosa di questo aspetto mi attirava, forse perché in lui riconoscevo la mia prigionia, la rabbia che anche io trattenevo a stento. Ma io ero nata in prigione, e ne ero ormai sopraffatta, abituata. Lui no.
Era libero, e anelava quella libertà che gli era stata tolta.
Quando mia madre si voltò per far strada al gruppo che teneva fermo il malcapitato, mi vide, e senza nascondere lo sdegno per la vergogna che le ricordavo, mi disse di andarmene, che la cosa non mi riguardava. Senza nemmeno aspettare una mia risposta, continuò per la sua strada, tornando ad ignorarmi come se niente fosse.
Ma la mia natura, tutt'altro che obbediente, mi impose di rimanere li, a guardarli da lontano. Li seguii con lo sguardo, per vedere dove stavano portando il prigioniero. Senza farmi vedere cercai di avvicinarmi il più possibile per capire di cosa si trattava e cosa stava accadendo.
<Siete certi che sia questo il mostro che ha ucciso Sannah?>
Sannah era la cugina di mia madre, sposata ad uno sciamano di un altro clan, che qualche mese prima era morta per strane cause. Qualcuno parlava di un demone, ma nessuno, a parte suo figlio, lo aveva visto. Il figlio a cui io sarei andata in sposa, con l'intento di unificare i clan e rafforzare il potere della nostra magia.
Il matrimonio, per mia fortuna, era stato rimandato proprio per quell'avvenimento. Suo figlio, Karl, aveva giurato che prima di andare avanti con la sua vita, avrebbe catturato il mostro che aveva ucciso sua madre, ovviamente riempiendo di orgoglio suo padre.
Da quel giorno Karl si era stabilito nel nostro clan, viaggiando alla ricerca dell'assassino di sua madre insieme a noi.
La mia speranza era che non lo trovasse mai. Invece li c'era l'assassino di mia zia, e nient'altro avrebbe rimandato ancora il nostro matrimonio. Una volta avuta la vita del prigioniero, Karl sarebbe stato libero dalla sua promessa e libero di sposarsi. Con me.
<Ne sono certo, ricordo bene gli occhi di questo demone, e domani all'alba sarò io stesso a trafiggere il suo cuore!>
Quando Karl si voltò per andarsene, il suo sguardo incrociò il mio, e un ghigno di vittoria gli si dipinse in faccia. Odiavo quella faccia. Mi sapeva di viscido. Lui non era diverso dalla mia famiglia, e anche se mi avrebbe sposata, per lui non era altro che un dovere. Io non ero altro che un trofeo, figlia di una potente linea di sangue che avrebbe dato prestigio alla sua posizione. Niente di più. Mi aveva sempre odiato, come tutti del resto.
Sposando lui mi aspettava una vita di agonia, senza amore. Non che lo conoscessi, ma lo idealizzavo. Avevo scoperto quel sentimento leggendo di nascosto libri che avevo rubato. Ma non lo avevo mai provato se non attraverso le storie che me lo raccontavano. E anche se non era previsto per me un matrimonio d'amore, il mio cuore non aveva mai smesso di sognarlo.
Ma la sola presenza di Karl bastava a ricordarmi quanto i sogni fossero solo sogni e quanto la realtà fosse ben diversa. Per me non era previsto l'amore.
Ma quell'uomo, quel demone, quell'assassino, poteva in qualche modo tornarmi utile. In quel momento realizzai che forse la risposta a tutti i miei problemi era a pochi passi da me, incatenata e maledetta dentro un capannone di legno.
L'unico ostacolo erano i due omoni messi di guardia davanti alla porta. Niente che una strega maledetta come me non avrebbe potuto risolvere.
Ma avrei dovuto attendere la notte. D'altronde, le cose più belle vengono fatte sotto le stelle.
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