XXXII - Il vero Giulio Angeli
“Porca vacca, che fuga!” si mise a ridere il ragazzo “non è che vuoi metterti tu al mio posto? Guidi meglio di me.” propose lui che, incollato al sedile per lasciarmi spazio, aveva osservato meravigliato le mie prodezze al volante compiute nientemeno che dal sedile passeggero.
“Al primo semaforo rosso facciamo a cambio.” gli promisi, ma, quando incappammo nella coda tipica torinese, lui sorrise imbarazzato.
“ Ecco, io… Non posso scendere, altrimenti mi riconoscono tutti. Dopo la finale, un po’ di notorietà l’ho acquistata.” si gonfiò il petto tutto orgoglioso, aggiungendo subito dopo con una leggera irritazione nella voce “... Anche se il mio gol non è servito a nulla, la coppa ce l’hanno tolta lo stesso. Dobbiamo cercare di scambiarci rimanendo in auto.”
“Come?”
“Per esempio così… Ahia!” esclamò Giulio cadendomi addosso.
“Fammi prima spostare!” esclamai, ma lui non riusciva più a muoversi, era rimasto ingabbiato fra il cambio e chissà cos’altro. Si rialzò, ma crollò di nuovo sul mio stomaco.
“Può essere un nuovo gioco caderti addosso, è divertente! Ti ho fatto male, per caso?” sorrise imbarazzato.
“Noooo, mi hai fatto bene! Non riesci a metterti dietro?” gli chiesi infastidita. Dovevo essergli grata per avermi salvata, ma da quel momento non ne stava combinando più una giusta.
“Dietro? Come i bambini piccoli?” si lamentò lui sgranando gli occhi alla mia proposta.
“Certo, stai facendo tante storie come loro, è il posto che ti meriti! Se continui appiccico pure la targhetta con scritto bebè a bordo. Ora spostati.” dissi spintonandolo verso i sedili posteriori.
Il semaforo era diventato verde e sentivo già i primi clacson degli automobilisti di una Torino troppo frenetica per i miei gusti. Dopo alcuni tentativi, Giulio riuscì a sedersi e ad allacciarsi la cintura nel posto dietro al mio, non senza sbuffare.
“Dove mi stai portando, di bello?” mi chiese, ma nemmeno io che ero al volante sapevo dove condurlo.
“Suggeriscimi un posto, tu conosci Torino meglio di me.”
“Prendi l’autostrada, quella che porta al Sestriere.” mi consigliò lui.
“Addirittura l’autostrada?”
“Perchè no? L’auto finalmente può un po’ correre, in barba a tutti i semafori torinesi. E' tutta dritta e ci sono due comode corsie. Viaggiamo senza una meta. Poi quando siamo stanchi torniamo indietro.” propose lui. Dallo specchietto lo vidi sollevarsi le maniche del felpone che chissà come faceva a indossare anche a giugno inoltrato. I raggi del sole gli illuminavano il viso molto più rilassato e la pelle pallida, piano piano gli si chiusero gli occhi. Se si fosse addormentato sarebbe stato il colmo!
Entrammo in autostrada. Giulio aveva, beato lui, il Telepass e la coda al casello fu solo un ricordo. Da neopatentato qual’era, aveva optato per un’auto non troppo potente, ma guidarla era un piacere, era sempre meglio del mio macinino. Continuavo a osservarlo dallo specchietto: ora era completamente spaparanzato, aveva il gomito poggiato sul finestrino e si reggeva la testa a fatica. Aveva riaperto di poco gli occhi, ma intercettò il mio sguardo e accennò un sorriso soddisfatto che poteva appartenere a uno che si stava facendo una sauna in un hotel di lusso, non a un ragazzo che schiattava dal caldo sul sedile posteriore. Si vede che per lui, in quel momento, essere lì era il massimo della goduria.
“Quando ero piccolo adoravo viaggiare, ma sbuffavo ogni volta che arrivavo.” commentò con uno sguardo all’improvviso nostalgico “E purtroppo la mia famiglia non viaggiava molto.”
La sua famiglia! Sapevo di quelle devastate di Lorenzo e de la.camyyy, ma della sua nulla, zero assoluto. Mi era sempre sembrato un ragazzo abbandonato a sé stesso, ero convinta che abitasse da solo e che avesse cercato in Lorenzo un qualcosa o un qualcuno che gli era mancato.
“Non so niente dei tuoi, ti va di parlarne?” gli chiesi non sapendo se si trattasse di un argomento delicato, per tutte le persone che aveva incontrato in quell’avventura lo era. Eppure mi era sembrato che lui avesse accennato alla sua famiglia di proposito. Le origini di una persona erano sempre qualcosa di oscuro e facile da modificare, mentire sul proprio passato era fin troppo semplice, in pochi si sarebbero sforzati di scavare a fondo. Infatti sobbalzai quando Giulio sputò la verità, parole frettolose che teneva nascoste da chissà quando che erano venute a galla all’improvviso dal profondo degli abissi.
“Mio padre mi aveva abbandonato da piccolo e mia madre era una mezza tossica." disse con il solito tono neutro.
Mi venne istintivo voltarmi, in barba a qualsiasi norma. Lui non guardava più lo specchietto, fissava il mio sedile. Avrei voluto fermarmi e abbracciarlo, ma dal suo sguardo capivo che lui non voleva essere consolato o autocommiserarsi, mi aveva semplicemente cercato di raccontare com’erano andati i fatti. Il suo sguardo era sempre perso nel sedile, vedeva qualcosa che a me non era concesso, immagini nella sua mente alle quali non avrei mai potuto assistere.
Ero convinta che, se fossi stata dietro con lui e gli avessi posto la stessa domanda, non mi avrebbe risposto così: era più facile dire la verità a un seggiolino piuttosto che a un volto. Non era il tipo a cui dovevo rispondere “mi dispiace” o “ti capisco”, i luoghi comuni non lo avrebbero soddisfatto.
Dovevo solo lasciarlo parlare.
“Mio padre aveva viaggiato, ma senza di me. Mia madre gli unici viaggi che faceva erano all’ospedale. Io viaggiavo solo nella mia mente, immaginandomi le trasferte e gli stadi dove avrei voluto giocare. Era in quel periodo che avevo iniziato a dedicarmi al calcio: quando correvo in campo, scappavo dalla mia famiglia. Speravo di trovarne un’altra, devo ammetterlo. Si dice, no, all'asilo o alle elementari per invogliarti a fare sport, che il calcio sia uno sport di squadra, che un team è come una seconda casa… Stronzate! Esiste l’invidia, esiste la competizione anche fra quelli che dovrebbero essere i tuoi primi alleati. Aggiungi a tutto questo il mio carattere non così amorevole, è scontato che io sia sempre rimasto da solo."
"Dopo essere stato abbandonato fisicamente da mio padre e mentalmente da mia madre, non ero più riuscito a fidarmi di nessuno. Ma proprio nessuno. Avevo trovato un gruppo di ragazzi con cui scambiare quattro chiacchiere e giocare a calcio, ma non mi ero mai confidato con nessuno di loro, non eravamo davvero amici. C’era una ragazza che mi piaceva, lei mi ricambiava e me l’ero limonata più di una volta. Poi l’avevo vista in giro con un altro, ma non era questo il peggio, il peggio era che non mi ero nemmeno arrabbiato. Non eravamo davvero fidanzati. Non mi ricordo nemmeno che suono avesse la sua voce… Solo Lorenzo mi sembrava diverso. Era troppo buono. Era troppo puro. Quello che faceva, lo faceva perché lo amava. Ma poi ha rovinato tutto ciò che aveva costruito."
"È terribile, sono il suo migliore amico ma ancora adesso non riesco a perdonarlo, perché ogni volta che riascolto il vocale che mi ha mandato, ho davanti a me l’immagine di mia madre in overdose, così come ogni volta che ripenso a quella serata, a quel nostro incontro nel parcheggio dello Stadium. Lei la droga, lui il doping. Due cose troppo simili, due cose innaturali che forse ti soddisfano solo nell'immediato, quando in realtà la vera soddisfazione si ottiene solo con il duro lavoro. Questa è la lezione che non mi ha trasmesso mia madre e che ho dovuto imparare da solo. Il peggio è che sia lei che Lorenzo avevano bisogno di aiuto e io non ho mai saputo fornirglielo. Forse per mia madre no, in teoria era lei che doveva prendersi cura del me bambino, ma per Lorenzo avrei dovuto anche sollevare il mondo, se necessario. Proprio perché avevo avuto un precedente in famiglia. Qualcosa avrei potuto fare: invece non me ne sono accorto. Quando si è dopato a separarci era una porta, lo capisci che io, quella cazzo di porta avrei dovuto prenderla a calci! Vittoria, io con lui ci ho trascorso molto tempo e la sera della finale, dopo che aveva fatto schifo centoventi minuti e aveva sbagliato quel rigore non era più lui. Le partite di merda le ha avute come tutti, ma quella sera c’era qualcosa di diverso nel suo tono, nel suo sguardo, nei suoi modi: erano così… Arrendevoli. Scusami, Vittoria: io non riesco a capire al volo le persone, io non sono… Come te. Non sai quanto t’invidio. Sono convinto che, se ci fossi stata tu, Lorenzo lo avresti salvato.”
Le mie mani e i miei piedi guidavano da soli, la mia mente e il mio cuore erano rivolti solo alle sue parole. Tutto pensavo meno che Giulio volesse essere come me. In effetti, persone come la.camyyy o il signor Strozzi le conoscevo da dieci giorni e mi sembrava che avessero sempre fatto parte della mia vita. Solo lui non ero riuscita a identificare subito, ma piano piano stava iniziando a svelarsi. Feci per aprire bocca, ma lui lo notò dallo specchietto e mi precedette.
“Ormai siamo a Pinerolo, torniamo indietro? Appena puoi esci e torniamo dall’altra parte.” mormorò, la sua voce cercava di tornare decisa ma tremava ancora un po’, non doveva essere abituato a parlare con il cuore in mano, usava troppo il cervello.
“Come vuoi…” sussurrai con la gola secca dall’emozione, non avevo il coraggio di ribattere dopo ciò che avevo appena udito. Giulio non voleva che io parlassi, forse non avrebbe nemmeno voluto riferirmi tutto ciò che aveva passato, il suo sguardo chino sembrava vergognarsi. L'immagine del ragazzo freddo e un po’ stronzo si era dissolta, ora mi faceva tenerezza anche se era l’ultima idea che lui avrebbe voluto dare di sé.
Mi sembrava di essere l’unica ad avere una famiglia che la supportasse, che le volesse bene, che ci sarebbe sempre stata sia nei momenti di gioia che in quelli più cupi. I miei genitori erano la mia unica certezza, mentre quei ragazzi… Non avevano nemmeno l’amore di quelli che avrebbero dovuto essere i loro cari. Svoltai all’uscita e imboccai la via del ritorno.
“Scusa il mio sfogo, non mi era mai capitato di dire queste cose. Erano sempre rimaste nascoste, forse immerse in una felpa troppo larga o in un cielo notturno troppo vasto da contenerle tutte. Vuoi parlare di qualcos’altro o questo upgrade di Giulio Angeli ti ha traumatizzata?” mi chiese riacquistando la solita ironia.
Avrei voluto discutere su Lorenzo, lo ammetto, ma quel momento non era fatto per lui. Lui sul palcoscenico era stato il protagonista fin troppe volte, Giulio Angeli solo la notte della finale. Ora si meritava un momento tutto per sé.
“Parlo di quello che vuoi tu. Grazie per avermi salvata dalla situazione di prima.”
“Dovere.” rispose senza sbilanciarsi “Pazzesco, sei addirittura riuscita a farmi parlare della mia infanzia. Sei una grandis... buona giornalista, Vittoria.”
Non era vero che non riusciva a capire le persone, un complimento del genere fino a qualche giorno prima mi avrebbe fatta arrossire, sorridere timidamente all’esterno ed esplodere di gioia dentro di me. Infatti alle parole di Giulio, che non credevo che potessero uscire da quella lingua di solito tagliente, ero dapprima arrossita orgogliosa, ma poi le guance avevano continuato a essere vermiglie per un altro motivo.
Giulio era ancora convinto di avermi resa felice, me ne rendevo conto sbirciando dallo specchietto il suo sguardo improvvisamente più dolce. Evidentemente, da là dietro non riusciva a vedere le mie lacrime. Si preoccupò solo quando udì i miei sussulti.
“Vitto, scusa, è colpa mia? Cosa ti succede? Vuoi che ci fermiamo? ” mi bombardò di domande. Mi accorsi che era imbarazzatissimo, non sapeva come comportarsi così decisi di fare come aveva proposto lui. Posteggiai al primo autogrill con un po’ di fatica, le lacrime m’impedivano di vedere bene. Non riuscivo più a resistere: scesi di corsa, mi fiondai al fianco di Giulio e nascosi il mio viso sulla sua spalla inondandola di lacrime. Mi vergognavo, stavo inondando di lacrime la felpa di un ragazzo che al contatto inaspettato si mostrò rigido.
“Hey, mi dici che cos’hai?” chiese con una dolcezza inaudita, nonostante la rigidità del suo corpo tradiva che non sapesse come comportarsi. Chi aveva fatto inghiottire un barattolo di melassa al freddo e cinico Giulio Angeli? Io non riuscivo a parlare.
“Vittoria, te lo chiedo per favore. Un attimo fa ti ho detto che non sono stato in grado di aiutare mia madre e Lorenzo. Con te voglio che sia diverso. Ci tengo. Spiegami cos’è successo. È come un problema di matematica: come posso trovare la soluzione se non conosco i dati?” m’implorò Giulio regredendo al solito tono di voce. Io non capivo come facesse a buttarci sempre in mezzo la matematica e a cosa tenesse, non pensavo gli interessasse qualcosa delle mie difficoltà. Si stava sforzando di aiutarmi, anche se a modo suo.
La sua spalla era ancora più rigida e non osava sfiorarmi, ma almeno ci stava mettendo la buona volontà. Forse avevo capito perché Lorenzo non aveva confidato al suo migliore amico di essersi dopato: non sarebbe stato in grado di consolarlo!
Sollevai lentamente la testa per guardarlo in faccia, avevo gli occhi gonfi, le lacrime che ancora colavano e le labbra tremolanti. Lo sguardo di Giulio era sempre uguale. Era in attesa. Deglutii, sussurrai con voce smorzata: “N-non sono più una giornalista, Giulio.”
“Cosa?” si stupì lui, io ributtai la testa sulla sua spalla in un nuovo sussulto.
“Il mio capo mi ha licenziata. Ieri. Con una telefonata. E pensare che ero stata io a chiamarlo!” mi uscirono di getto le parole mentre mi aggrappavo al suo collo. Proprio con quella sottospecie di palo ero dovuta esplodere?
Avevo cercato di mantenere la serenità dopo quella telefonata, cercavo di convincermi che il caso Strozzi lo stessi risolvendo non solo per il giornale ma anche per me. Naturalmente quella felicità era solo falsa. Lorenzo ne sapeva fin troppo sulle maschere. Io per qualche ora ne avevo portata una ed era stata la sensazione peggiore del mondo. Forse l’avevo indossata proprio perché avevo perso ogni punto d’appoggio.
Su chi potevo contare? Sui miei? Erano troppo distanti da me. Su Lorenzo? Certo, sarebbe stato in grado di ascoltarmi, ne ero sicura, se solo fosse stato vivo!
Giulio Angeli era il meno peggio, anche se stavo iniziando a odiare quella spalla. Era dura e larga e magari in un’altra situazione mi sarebbe piaciuta, la mia testa ci stava tranquillamente, ma era solo questo. Era immobile, era un sasso. Non potevo aspettarmi nient’altro da lui, così sparai guardando il vuoto tutto quello che era successo ieri e che non avevo ancora raccontato a nessuno. E lui era nessuno, era come parlare al nulla.
“Ieri ho chiamato il mio direttore perché ero convinta di avere trovato la pista giusta, di avere capito chi fossero i colpevoli del caso Strozzi. Ero entusiasta, credevo che anche la sua reazione sarebbe stata simile, invece mi aveva risposto con una freddezza inaudita...”
“Cosa ti ha detto?” incalzò Giulio
“Colpevoli? I suicidi non hanno colpevoli.” citai Zaveri continuando a piangere.
“Io gli ho ricordato che, senza il mio intervento, il caso Strozzi sarebbe stato dimenticato e irrisolto e lui mi ha risposto che voleva proprio questo, che la gente si scordasse del morto. Mi ha detto che le mie indagini mettevano in pericolo la redazione.”
“Addirittura?” si mostrò interessato Giulio, ma io ignoravo i suoi commenti.
“Io gli ho urlato che si trattava della verità e lui mi ha risposto...”
“Cosa?”
“Vittoria… La verità è sempre un pericolo. Sei licenziata in tronco. Mi dispiace, ma credo che tu non abbia capito nulla del nostro mestiere.” urlai ricominciando a piangere, ora parlare stava diventando più difficile “Io gli avevo urlato che era lui a non avere capito il senso del nostro mestiere, ma mi aveva messo giù il telefono in faccia. Giulio, tu non puoi capire, quello era il mio lavoro. Il mio sogno. La ragione della mia esistenza. I miei valori, la giustizia, la verità. E ora è andato tutto a puttane. Qualche volta, quando mio zio era direttore, avevamo provato a fare delle indagini interessanti, non ci limitavamo a dire che a Parma fosse tutto perfetto, ma che ci fosse qualcosa che non andava e che si poteva migliorare. Molte persone ci apprezzavano per questo, avevamo degli alleati ma ci eravamo procurati anche molti nemici. Con Zaveri, invece, si parlava e si scriveva del nulla e quelle diecimila copie le vendevamo lo stesso. Io non capisco più niente, non so più se ho ragione io, con i miei ideali, o lui. Scusa ma avevo bisogno di sfogarmi. Ora torno al volante.” conclusi spostando la testa dalla sua spalla dura e alzandomi, ma forse avevo sottovalutato Giulio Angeli, che mi richiamò.
“Vittoria, vieni qui un attimo.”
Mi sorprese, la sua voce era tornata decisa e convincente come quando faceva gli scherzi, ma c’era sempre un pizzico di dolcezza. Non potei fare altro che obbedire, mi sedetti di nuovo al suo fianco. Lui si grattò la nuca guardando in basso e fece una smorfia.
“Senti, io non sono bravo in questi momenti. Sono proprio fesso, ma posso dirti quello che penso. Quel tuo Zaveri è stato proprio uno stronzo, un giornalista che non vuole conoscere la verità non è nemmeno degno di questo nome. Non ti deve nemmeno passare per la testa che sia lui ad avere ragione. Continuerà a vendere le sue fottute copie e quando morirà sulla sua cazzo di tomba ci sarà scritto questo, che vendeva le copie al vicino di casa e a sua nonna, solo loro si ricorderanno di lui. Vittoria, tu ti meriti più di questo schifo. In questa avventura sei stata impeccabile, una vera e propria detective. Ti rendi conto che mai prima di te nessun giornalista aveva messo piede in casa Strozzi? Tu, cronista di un giornaletto qualsiasi, sei riuscita a fare ciò che anche i professionisti del settore si sognavano!”
“Scommetto che, se Lorenzo fosse stato in vita, non sarei riuscita a entrare, la casa sarebbe stata più sorvegliata. E poi la gloria vale ben poco, se non si ottiene un riconoscimento.” ribattei distaccata.
Mi aveva colpita che Giulio avesse elogiato il mio valore, ma in quel momento non avevo bisogno di tutte quelle parole. Mi servivano solo un abbraccio, un lavoro in un nuovo giornale e la verità sul caso Strozzi. Il ragazzo mi fissava con gli occhi profondi e liquidi, il suo sguardo sembrava voler vedere oltre ai miei occhi scuri. Si spostò appena verso di me. I suoi movimenti erano sempre veloci e molto spesso difficili da notare, sarebbe stato un ottimo prestigiatore. E forse lo era davvero, visto come riuscì a farmi cambiare umore.
“Senti, Vitto, so che ti sembrerà un consiglio assurdo, ma… Perché non provi a dimenticarti anche solo per un attimo del caso Strozzi? Finora ti ha creato solo stress e un mucchio di problemi, non riesci a vedere nient’altro, pensi solo a Lorenzo. Forse fra voi due c'era un legame profondo come quello che avevo io con lui o ancora di più, non hai voluto dirmelo, ma ora stai vivendo male questa avventura qui a Torino. Mi piacerebbe solo vederti sorridere di più, essere più spensierata, sei una ragazza in gamba e ti meriti qualcuno che ti apprezzi come professionista e come persona, non tutta questa sofferenza. Ora, per favore, non vedere nella tua mente la foto di un ragazzo sull’orlo di un ponte, ma vedi ciò che sta accadendo davanti a te. Guarda i monti, guarda il sole, guarda me. Vivi il presente, Vittoria.”
Lo fissai con gli occhi spalancati: lo aveva detto davvero? Lo guardai con tutto l'astio che conservavo da giorni. Ma il mio odio era verso Zaveri, verso la.camyyy, verso il signor Strozzi e si riversò sulla persona sbagliata: “Il presente? Certo, che bel presente: sono in un posto sperduto del Piemonte, senza lavoro e vicino a un coglione. Il caso Strozzi era l’unico obiettivo che mi era rimasto e tu mi dici di non pensarci? Sei un idiota, Giulio. Torniamo a casa.”
“Ma…”
Inutile, gli avevo chiuso anche stavolta la portiera in faccia ed ero tornata alla guida dell’auto. Giulio continuava a osservarmi mortificato nello specchietto asciugarmi le lacrime che sfioravo con le dita, io cercavo di non guardarlo ma il mio occhio cadeva sempre lì.
“Non ho fazzoletti, mi dispiace.” pigolò lui.
“Non mi servono.” lo zittii io.
Per tutta risposta, mi lanciò la sua felpa che piombò al mio fianco. “ Puoi anche soffiartici il naso sopra, tanto stasera la metto a lavare. Anzi, tienila tu. Penso che, la prossima volta che ci rivedremo, mi presenterò in maglietta. Hai già scoperto una verità su di me nascosta in un felpone, non avrebbe più senso usarlo. Inoltre ti piacciono le mie spalle, forse dovrei lasciarle il più possibile scoperte…” insinuò, era tornato il Giulio Angeli di sempre.
“Non mi serve la tua schifo di felpa, sto guidando.” urlai buttandogliela di nuovo indietro in malo modo. Mi aveva fatta piangere e ora voleva tornare a fare i suoi giochini stupidi come se nulla fosse accaduto?
“Tanto se facciamo un incidente muore solo il conducente.” canticchiò lui lanciandomi la felpa un’altra volta.
“Vaffanculo.” gli risposi mostrandogli le corna dallo specchietto, cacciando l’abito sul sedile posteriore.
“Non puoi non volerla, è dello stesso colore della tue iridi. Ti starebbe bene se non fosse di almeno quattro taglie più grande. È made in mercato rionale, un pezzo originalissimo ed è impregnata del sudore del ragazzo che ha segnato il rigore decisivo nella finale di Torino: non credere che sotto quel felpone non sudi!” commentò ripetendo lo stesso gesto. Stavolta la felpa mi cadde sugli occhi e sbandai, ma appena scivolò sulle mie gambe, Giulio Angeli poté scrutare dallo specchietto il sorriso che non riuscivo più a nascondere.
“Allora non ho solo dei difetti: riesco a farti sorridere.”
“Hai solo questo di positivo.” lo tagliai poggiando la felpa sul sedile al mio fianco.
“Anche le spalle...”
“Giulio?”
“Sì?”
“T-a-c-i!”
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