XXVI
Me ne andai volentieri da quell’inferno che era diventato San Siro, quella era la serata giusta per nascondersi sotto le coperte, chiudere gli occhi e aspettare il giorno seguente, anche se avrei ancora dovuto cercare di trattenere le lacrime per tutto il viaggio di ritorno.
Stranamente Inter-Juventus veniva giocata alle sei di sera, era stata una trovata della lega per rendere la partita visibile anche negli stati arabi. Poco male, avrei potuto cenare una volta tornato a Torino. Per il viaggio di ritorno Giulio mi aveva tenuto il posto al suo fianco come sempre. Io mi sedetti, anche se titubante, non avevo dimenticato lo spintone.
“Giulio, mi perdoni?” pigolai.
Lui, che aveva già una cuffietta nell'orecchio e l'altra in mano e me la stava passando come sempre, mi guardò stralunato.
“Perché, abbiamo litigato?”
“Be', per colpa del mio braccio il tuo gol è stato annullato...”
Lui esplose in una risata fragorosa che mi spiazzò.
“ Ma ti pare che io mi arrabbi con te per una cosa simile? È capitato e basta, è stata la conseguenza logica di azioni che non sono state a nostro favore.” spiegò lui per evitare il termine “sfiga”, in cui non credeva.
“Ma mi hai spintonato via...” insistetti.
“Lorenzo. Cazzo. Il tuo non era più un abbraccio, era un tentativo di stupro. Ti avevo addosso da cinque minuti buoni, permetti alla mia spalla di stancarsi ad avere ottanta chili sopra?”
“Ottanta? Ne peso settantacinque!” ribattei.
“Impossibile, sei ingrassato sicuro. Visto che ormai è troppo tardi per rifarsi l’addome, almeno rifatti le orecchie.” insistette sventolandomi la cuffietta sotto al naso.
“Non dirmi che è ancora quella cazzo di hardcore!”
“Se vuoi non te lo dico, ti limiti ad ascoltarla.” disse lui ficcandomela nell'orecchio.
Avevamo passato il viaggio di ritorno così, la nostra testa e il nostro cuore andavano allo stesso ritmo nell’amarezza generale. Io ero immerso nelle mie angosce, pensavo a come avevo deluso tutti: la mia squadra, i miei tifosi... Cielo, la.camyyy! Le avevo promesso che l'avrei portata a cena fuori dopo la partita e non ne avevo proprio voglia.
“Giulio, cosa devo fare con una fidanzata che stasera vuole cenare fuori?” gli chiesi sfilandoli la cuffietta.
“E lo chiedi a me? Non ho nemmeno una ragazza!”
“Dai, fai uno sforzo!” lo implorai “Sei tu quello intelligente!”
“Ammiro la tua autostima. Su questo hai ragione, ma stavolta non saprei...”
Rifletteva, potevo vedere i pensieri annidarsi nella sua testa, poi commentò: “La tua tipa si chiama la.camyyy, giusto?”
“Fino a prova contraria...”
“Allora non puoi farci niente, devi portarla al ristorante. Sennò è capace di farti una scenata, ormai la conosco. L' hai viziata troppo, quella ragazza.” spiegò lui con fare saccente.
“Oh, certo, tu che con le ragazze ci trascorri al massimo una notte mi spieghi come trattarle!”
“Sei tu che me l'hai chiesto, amico. Non è colpa mia se sei un Ciccino Dolcino.”
Strabuzzai gli occhi “Cos’è che sono?”
“Un Ciccino Dolcino. Credi nella forma più romantica dell’amore, quella delle rose rosse e delle serenate, quella dei matrimoni felici, quella della famiglia da Mulino Bianco. Ma rimarrai per forza deluso, perchè la tua tipa… Be’, non è una Ciccina Dolcina.”
“Che cavolo vuoi dalla mia ragazza?” m’inalberai io.
“Hey, sta’ calmo, non volevo farti infuriare, solo dirti la verità: lei non è come te.” si difese lui, poi aggiunse con un sorriso amaro: “E comunque stai tranquillo, non credo che molti ristoratori vogliano averti nel loro locale stasera. Mi sa tanto che cenerete a casa vostra alle due di notte con il cibo che vi porterà qualche rider, altro che cenetta romantica.”
“Cosa intendi dire?” gli chiesi mentre lui intonava “Qualcuno ha detto Just Eat?” con un farsetto invidiabile e io lo mandai a quel paese senza pensarci più.
La risposta la ebbi poco dopo, quando mi ritrovai in auto a vagare a vuoto con la mia fidanzata nel parcheggio del nostro ristorante preferito, L’Iperuranio.
"Non avevamo il posto riservato?” pigolò lei al quarto giro.
“Hai detto bene: avevamo.” risposi con finta freddezza, avevo il presentimento che Giulio avesse ragione. Trovai un posteggio per miracolo, una Porsche se ne stava andando proprio in quel momento. Ma avevo la netta sensazione che non avevo perso solo il posto auto.
“Siamo al completo, signori.” ci fermò infatti un omone in smoking all'ingresso facendo il gesto dello stop con una mano, come se dirigesse il traffico. Sembrava davvero un vigile inflessibile, nemmeno io che non ero un moscerino avrei voluto averci a che fare.
“Ci dev'essere un errore.” insistette la.camyyy “Siamo dei clienti abituali, conosciamo il proprietario. Ci aveva detto che potevamo venire tutte le volte che volevamo.”
“Tutte le volte eccetto oggi.” ribadì con un sorrisetto “Signorina, le consiglio di affrettarsi a prenotare, forse riuscirà ancora a trovare un tavolo libero entro il 2028.” le suggerì facendo entrare una coppia di anziani elegantissimi che salutò con un inchino.
“Lory, digli qualcosa!” andò in panico la mia ragazza non abituata ai rifiuti.
“Grazie dell'informazione, ci affretteremo a prenotare.” gli sorrisi balbettando.
"Andiamo” mi rivolsi a la.camyyy.
“Ma...”
“Andiamo!” la presi per il braccio trascinandola verso l'auto.
“Ahia! Lorenzo! Mi fai male!” si divincolò lei.
“Esagerata, non ho stretto.” ribattei aprendole la portiera e poi salii in auto anch'io. L'auto era chiusa, il mondo esterno non poteva entrarci. Quell'uomo non poteva entrarci. Mi aveva guardato attraverso.
Era una sensazione alla quale non ero più abituato. L'ultima volta era stata ai tempi delle superiori, quando ero fuori con una in un bar, mentre ai tempi delle medie e delle elementari era un’abitudine. Non mi ricordavo più cosa si provasse, mi ero illuso che non mi sarebbe più capitato perché ero qualcuno. Nulla di più sbagliato. Mi sembrava di essere discriminato. Vietato l’ingresso ai cani e a Lorenzo Strozzi.
“Spiegami perché non ti sei fatto valere!” insistettè la.camyyy con le mani sui fianchi.
Attesi che si spegnessero le luci dentro l'auto per rispondere, al buio mi vergognavo di meno.
“Perché sarebbe stato inutile. Non possiamo averla sempre vinta, tesoro, anche se non vuoi.” cercai di dirlo con dolcezza anche se mi tremava un po' la voce.
Speravo potesse capire, era difficile comorenderlo per lei che era figlia di un ricchissimo industriale che ora viveva a New York e che da sempre le comprava tutto quello che voleva. Io non lo avevo mai visto se non in un collegamento via meet e non mi aveva nemmeno impressionato, eppure ogni mese faceva recapitare alla mia ragazza dei regali stupendi.
Odiavo quella figura, perché ogni volta che donavo qualcosa a la.camyyy, lei commentava: “ Bello, ma mai come i regali di mio padre.” togliendomi tutta la soddisfazione. Io continuavo con testardaggine, chiedendole “Anche QUESTO è meno bello dei regali di tuo padre?” quando le avevo comprato un anello da centomila euro, quando le avevo comprato un lingotto d’oro, quando le avevo comprato un’auto sportiva. La risposta, però, non cambiava mai.
Non disse più niente per il resto del tragitto. Io pensai alla sua famiglia, di sua madre non sapevo nulla. Quando avevo provato a chiederglielo, mi era parsa molto seccata, rispondendomi sbrigativa che non le parlava più perché lei non aveva approvato alcune sue scelte fatte in autonomia quando era una ragazzina. Era terribile che potessimo abbracciarci solo noi due, se cercavamo un altro tipo di coccole non avremmo trovato mani soffici ma spine. Io e lei eravamo cercati da tutti tranne che dai nostri genitori.
Mi fermai ad almeno tre semafori rossi che mi fecero innervosire e la mia stizza aumentò appena la.camyyy mi chiese: “Proviamo ad andare in un altro ristorante?”
Non ci arrivava proprio?
“Stasera ci sbatteranno tutti le porte in faccia, amore.”
“Vuoi dire che LORO rifiutano NOI?” chiese incredula.
Aveva detto noi, ma sapevo che, di lì a poco, avrebbe colpevolizzato me. “ Se vuoi metterla su questo piano... Perchè cazzo sto' semaforo non diventa più verde?!” mi lamentai dando una manata al cruscotto. Volevo cambiare argomento. Ti prego, Camy, dimentichiamoci questa serata, nascondiamoci dal mondo che in poche ore ci è diventato ostile, rinchiudiamoci nella nostra reggia, nel nostro castello fatto di carte che potrebbe crollare da un momento all’altro ma che almeno ci da l’illusione della sicurezza che gli abbracci dei nostri genitori non potevano più darci.
“ Lory, perchè hai battuto quel rigore? Perchè lo hai battuto così?!”
“ Perchè non so dire di no.” risposi sempre più irritato, avevo capito dove voleva arrivare perchè certo, era colpa mia se lei non poteva più mettere il culo sulle sedie del ristorante più in di Torino. A me del ristorante non me ne fregava un cazzo, però la vergogna la provavo eccome. Avevo deluso tutti, i compagni, il mister, i tifosi, me stesso.
E anche la mia ragazza, che però continuava a ricordarmi quell’errore, rendendomi la vita ancora più difficile.
“ Non sai dire di no? E come...” ma un BEEEEP mi fece perdere l'ultima parte del discorso della mia fidanzata. Il conducente dell'auto dietro alla mia non aveva tutti i torti: era verde.
Ma la.camyyy era impazzita, aveva tirato giù il finestrino e aveva urlato.
“ Non rompere, stiamo litigando!”
Il problema era che era stata riconosciuta. E l'uomo alla guida di quella vettura poteva essere solo juventino, se aveva urlato con tutta la forza che aveva in corpo.
“ C'è anche lui, Camy? Bene, Lorenzo, menomale che quella puttana di tua madre è finita in coma, così non ha visto la merda che sei diventato!”
Mia madre.
Avevo già avvisato la.camyyy che sarei passato dall'ospedale prima di tornare a casa. Lei avrebbe aspettato in auto come al solito, non trovava particolarmente entusiasmante visitare la bella addormentata come la chiamava lei.
Ma ora ero io che volevo fare addormentare quello stronzo.
Per sempre.
Uscii dall'auto con una rabbia non mia, in macchina conservavo uno di quegli aggeggi che servivano a spaccare i vetri e ora avrei testato l'infrangibilità dei finestrini dell'auto di quel beota.
Aveva tirato su il finestrino, il coniglio! Aveva perso tutta la baldanza! Be', io il vetro gliel’avrei rotto lo stesso. Presi la mira, chiusi gli occhi perchè mai avrei voluto vedermi compiere un gesto simile e li riaprii solo quando udii il rumore del vetro in mille pezzi.
Vidi l’uomo coprirsi il volto con le braccia e ansimare spaventato, ma io ero fuori di me. La mia faccia sbucò nell'interno della sua auto pronta ad aggredirlo.
“ Cos'hai detto di mia madre, eh? Cos'hai detto?” urlai assatanato con un demone in corpo. Non volevo nemmeno sapere chi fosse, non badai a come fosse fatto, a quanti anni avesse o se avesse degli accompagnatori, a me bastava sapere che mi aveva insultato e che l'avrebbe pagata. Ma lui fece una mossa inaspettata che mi stupì.
Mi prese il viso con le mani sanguinanti e zeppe di schegge e cercò di sbatterlo contro i punti più taglienti di ciò che rimaneva del vetro infranto. Le sue mani puzzavano di fumo, mi entrarono in bocca dei peli del suo braccio che sputai sbavando. Quell'uomo era stato un vero incosciente, se il vetro mi avesse tagliato le vene del collo avrei fatto una brutta fine e, anche se in molti quella sera volevano la mia morte, la mia polizza vita non era certo da ridere.
L'unica soluzione per togliermi da quell'impiccio era mordergli la mano con tutta la forza che potevo avere nei denti. Appena gliela addentai lui emise un urlo lancinante. Quelle dita avevano il sapore ferroso del sangue e qualche pezzo di vetro ancora incastonato, dovevo stare attento a non mandarne giù nessuno.
Mi accorsi però che non era solo lui a urlare.
Questo era un grido acuto, che aumentava d'intensità sempre di più, come io sempre di più aumentavo la potenza dei miei incisivi. Per un attimo, anche se non era scientificamente possibile, pensai di essere io a gridare così.
Basta, pietà, quell'urlo non lo potevo più sopportare! Sputai la mano dell'uomo, mi sporsi a controllare il sedile posteriore e raggelai: c'era un bambino.
Un bambino che aveva appena smesso di gridare e che aveva appena riaperto gli occhi per vedermi davanti a sé per la prima volta.
Un bambino che tremava, e non dal freddo.
Un bambino che stringeva a sé un pupazzo che mi pareva familiare: certo, rappresentava me! L'aveva fabbricato una nota azienda di giochi e aveva avuto un successo strepitoso.
Un bambino con gli occhi lucidi, il moccio al naso e le guance non rosse, ma violacee.
Aveva il cuore più spezzato dei vetri dell'auto. Eppure stava ancora accarezzando il suo pupazzo, aveva lo sguardo perso fisso su di lui, ma si rivolgeva a me
“ Tu là fuori non sei il vero Lorenzo Strozzi, vero? Perchè il vero Lorenzo Strozzi non farebbe mai una cosa del genere. Il vero Lorenzo Strozzi sei tu, il mio pupazzo, il campionissimo che fa sempre gol e fa felici tutti i bambini che sognano di diventare come lui.” sussurrò in una cantilena che si era amplificata nella mia testa con una voce molto profonda per essere piccolo.
Giocava con il suo pupazzo, lo faceva muovere, lo faceva calciare e lo faceva esultare. Era isolato dal mondo circostante, credeva solo alla sua versione, che io non potessi essere il vero Lorenzo Strozzi.
Ma l'aveva detto con lo stesso tono con cui io, dopo il 26 aprile, dicevo di amare mio padre.
Avevo un groppo in gola anche se sapevo di non avere ingoiato i cocci. Era strano: nella mia vita avevo risposto alle domande di centinaia di giornalisti, avevo risposto a tono a Laclausola quando voleva trasferirmi, e ora... Ora non avevo saputo rispondere alla domanda di un bambino.
Forse non era solo il suo cuore a essere spezzato.
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