XXIII - Una strana voce in testa

Uscii dal ristorante camminando a passi rapidi sui tacchi, rischiando di cadere perché non ero abituata a quel tipo di scarpe e perché… mi stavo sorprendendo ad avere gli occhi appannati da lacrime di rabbia.

Era una delle giornate più lunghe dell’anno e c’era ancora un filo di luce che mi fece notare che non ero sola, la sua ombra mi aveva inseguita. Velocizzai il passo, possibile che quel bastardo per un’accusa dovesse arrabbiarsi così? Non mi sembrava nemmeno infondata.

“Vattene via!” urlai con la testa china senza voltarmi, avevo finalmente raggiunto la mia auto.

Perché mi inseguiva così lentamente? Io ero limitata dai tacchi, non ero poi così veloce. Lui invece era un calciatore, con uno scatto di neanche cinque metri mi avrebbe superata. Eppure restava dietro di me, sembrava quasi che gli piacesse essere alle mie spalle, palesare e non palesare allo stesso tempo la sua presenza.

Balzai in auto chiudendogli in faccia la portiera. Lui, da bastardo qual’era, si piantò dietro l'auto per impedirmi di fare retromarcia. Gli suonai, non eravamo nel parcheggio del ristorante e potevo permettermi di fare tutto il baccano che volevo. Non si mosse. Accesi i fanali per fargli paura, misi la retromarcia. Lui era ancora lì, impassibile, gli occhi decisi che cercavano di rubare scorci del mio sguardo dallo specchietto.

Abbassai il finestrino affacciandomi incavolata: “Levati dalle palle se non vuoi essere investito!” gli urlai, ma lui fece finta di non sentirmi.

Mi fece cenno di scendere e di raggiungerlo. Come no! Voleva sfidarmi? Le ruote dell’auto indietreggiarono di qualche centimetro, ma lui non mosse nemmeno un piede. Lo guardavo in faccia dallo specchietto, aveva sempre quello  sguardo impenetrabile.

“Investimi! La mia morte non vale nemmeno tre diciottesimi di quello che ho da dirti!”

Tre diciottesimi? O faceva sul serio o era un ottimo attore e, considerando quanto amava giocare con la psiche degli altri, avrei optato per la seconda opzione. Però, nonostante non lo sopportassi, non ero psicologicamente pronta per commettere un angelicidio.

Prendetemi per matta, ma scesi per ascoltarlo: “Non ti concedo più di una frase. Poi smamma.”

Lui mi guardò intensamente “ Non avrei mai tradito Lorenzo.” mi disse e poi, con mio stupore, mi voltò davvero le spalle andandosene: aveva rispettato la mia richiesta.

Non sapevo più cosa pensare. Non lo richiamai indietro, ero troppo orgogliosa e di lui continuavo a non fidarmi. Salii in auto e ripartii.

Per le strade di Torino pensavo solo alle sue parole, a quel puzzle che era il caso Strozzi di cui avevo troppi pochi tasselli: ogni volta che credevo di averne aggiunto uno, ecco che quelli che avevo unito prima si dissolvevano perché il nuovo non si incastrava a nessuno degli altri. E io mi perdevo, mi perdevo nelle ingannevoli parole di Giulio, mi perdevo negli occhi di Lorenzo ogni volta che stalkeravo il suo profilo, mi perdevo in quel labirinto di strade che era la città.

Un attimo, non riuscivo più a trovare la strada principale per davvero! Dov’ero capitata? Non avevo più prestato attenzione al tragitto ed ecco il risultato! Cercai di ripercorrere a memoria il percorso fatto. Avevo dovuto fermarmi a quattro semafori per arrivare lì, altro non ricordavo. Mi guardai attorno: ero in un quartiere periferico, le case sembravano delle caserme. Un rider passò al fianco della mia auto a tutta velocità. Anche se era immerso nel buio, anche se sfrecciava perché forse era in ritardo con qualche consegna, quell’uomo mi stava sbloccando un ricordo. Chi era? Perché credevo di avere già vissuto quella situazione?

Quelle strade non mi erano nuove, anche se ero sicura di non averle mai percorse. Eppure quelle immagini erano già nella mia testa come dei ricordi lontani, appartenuti forse a un passato precedente, a un sogno fatto alle prime ore del mattino, a una seduta d’ipnosi.

Mi sembrava di vivere un mistero dentro al mistero. Quelle strade sembravano parlarmi di Lorenzo Strozzi anche se lui non aveva niente in comune con i residenti. Non sembrava un quartiere signorile, anzi, le auto parcheggiate erano addirittura più malandate del mio macinino.

Senza pensare mi voltai alla mia destra e il mio sguardo si soffermò su uno dei palazzoni, specialmente sul suo giardino. Non era nulla di speciale, anzi, era pieno di erbacce. Perché mi aveva colpito proprio quello? Sembravo un automa, non sapevo se le azioni le stavo veramente compiendo io o se qualcuno me le stesse suggerendo.

Ero ancora in quello stato di trance quando scattò il verde e nello stesso istante udii una voce nella mia testa, calma e pacata, molto invitante

“Scendi dall’auto.”

Anche se sembrava avere le migliori intenzioni di questo mondo, io urlai in preda al panico e schizzai via il più velocemente possibile. Solo quando cambiai strada, pensando di essere ormai al sicuro, mi calmai. Ma era solo un’illusione, non potevo essere al riparo da me stessa.

Quella voce era rimbombata nella mia testa. Quella voce, ne ero sicura, apparteneva a Lorenzo Strozzi.

L’avevo ascoltata in troppe interviste, l’avevo ascoltata, anche se meno profonda e macchiata ancora da qualche acuto infantile, molti anni fa in quel bar in centro. Forse aveva ragione Zaveri, non avrei mai dovuto intraprendere questa avventura, mi aveva coinvolto troppo e la mia immaginazione e la mia stanchezza ci stavano mettendo del loro. Cielo, mi sentivo Giovanna d’Arco! Mi ero affezionata così tanto a quel ragazzo defunto, forse troppo.

Morto, Lorenzo Strozzi era morto, esisteva soltanto nella mia immaginazione! Lorenzo Strozzi… Ma no, cosa pensavo, che bambinata! Eppure, perché avevo udito la sua voce? Odiavo ammetterlo, ma la parte più impressionabile di me cercava di convincermi che Lorenzo fosse diventato… Un fantasma! Ma no, che sciocchezza! Erano cose da poppanti, vero?

Anche se il fine del calciatore o di chi per lui era sicuramente buono, mi ero spaventata a morte, avrei potuto raggiungerlo nell’altro mondo di colpo. Tornai all’affittacamere spaventata e piena di dubbi, mi coricai sul letto con la volontà di dimenticare quella serata e mi addormentai di sasso. Non sapevo che, per me, la nottata era appena iniziata.

Ero in uno spazio bianco. Non sapevo bene se fosse una stanza enorme o il vuoto siderale. Iniziai a camminare, ma non ero sola: un’altra persona dalla parte opposta si stava avvicinando a me, mi stava venendo incontro.

Camminavamo allo stesso ritmo, i nostri passi sincronizzati rimbombavano nel vuoto. Eravamo sempre più vicini, io volevo rallentare l’andatura ma non potevo, qualche forza oscura mi obbligava a proseguire sempre con la stessa intensità. Forse era la stessa forza che mi aveva condotta nei quartieri popolari.

Sospirai: ormai quel ragazzo popolava anche i miei sogni. Era Lorenzo Strozzi. Lo vedevo nitidamente, come se fosse stato davvero davanti a me. I suoi capelli color del grano corti e mossi mi ricordavano quelli delle statue romane, i suoi occhi curiosi mi fissavano alla ricerca di chissà quale risposta, anche perché ero io ad avere delle domande per lui. Si fermò davanti a me, anche la forza che dominava il mio corpo si arrestò. Lui mi sorrideva con quel sorriso malinconico, i suoi occhi non si chiudevano mai.

“Segui il tuo istinto” sibilò in tono mellifluo, le sue esse sibilline da serpente s’insinuarono con un’eco nella mia mente. Non era la sua solita voce, proprio no. Aveva ancora quel tono capace di calmare un mare in tempesta, ma sembrava molto più ingannevole, artificioso, si era forse fusa con quella di Giulio Angeli.

Mi presi la testa fra le mani. Lui chinò la testa di lato come la.camyyy, ma i suoi movimenti erano robotici, innaturali.

“Ti aspetti delle movenze normali da un morto?” chiese leggendo i miei pensieri

“Non dovresti muoverti, in realtà.” ribattei

“Le bare non sono fatte per un tipo dinamico come me.”

“Perché sei qui?”

“Perché TU sei qui?” domandò di rimando lui. Mi presi nuovamente la testa fra le mani, mi stava scoppiando, non capivo più niente. Pulsava, la mia fronte era calda. Lui me la toccò

“Stai indietro!” urlai, ma lui non obbedì. Quello non poteva essere il Lorenzo Strozzi che avevo conosciuto e che avevo immaginato leggendo i suoi scritti. Quello chi era? 

“Segui il tuo istinto.” ripetè ancora in tono solenne. Come faceva a conoscere quella frase? Era di mio zio, era il suo motto. Mi aveva risposto così su tutto, anche quando gli avevo chiesto dei consigli sulla carriera da intraprendere. Perché Lorenzo la ripeteva?

Le immagini si mischiavano, vedevo il viso di mio zio fondersi con il suo, i lineamenti dolci da ragazzo diventavano via a via più duri.

“Ti ho amata come… Un padre!” aggiunse Lorenzo Strozzi, ma che senso aveva? Era più piccolo di me, mi conosceva appena, cosa blaterava?

“E anche lei, ti ha amata come una madre. Voltati, Vittoria, voltati e guardala!” esclamò Lorenzo prendendomi con la forza la testa e obbligandomi a guardare nella direzione che voleva lui. Non mi aspettavo questa violenza e non riuscii a ribellarmi, anche perché… rimasi pietrificata.

Davanti a me c’erano solo due occhi enormi e scurissimi che mi fissavano sbattendo le palpebre, grandi quanto il mio corpo.

Urlai dal terrore e forse anche nella realtà visto che mi svegliai subito dopo. Il mio sguardo, dal vedere il bianco della stanza, passò a vedere il nero del soffitto, uguale a quello dell’iride di quegli occhi.

Avevo avuto ancora quella sensazione, di non avere mai visto ma di avere già visto quegli occhi. Di chi erano? Non ne avevo idea, eppure dovevano essere collegati in qualche modo al caso Strozzi. E a me. Perché credevo che quegli occhi mi avessero già osservata in passato?

Il mio petto sobbalzava, mi misi una mano sul cuore cercando di calmarmi, la bocca aperta a cercare l’ossigeno che mancava al mio cervello per ragionare. Mi toccai anche la fronte: no, non era solo un sogno, era bollente davvero. Mi sollevai un istante, mi accorsi di avere lasciato una chiazza di sudore sul lenzuolo. Natasha mi rifaceva il letto ogni quattro giorni, non si sarebbe accorta del superlavoro delle mie ghiandole sudorali. Il lampioncino davanti all’affittacamere che funzionava a intermittenza era ancora acceso, segno che era ancora notte. Provai a coricarmi di nuovo, ma il rumore delle auto e dei pianti di uno dei bambini della mia vicina mi facevano venire un cerchio alla testa, mischiandosi alle frasi di Lorenzo Strozzi che non riuscivo a decifrare.

Cosa significava quel sogno? Forse non stavo bene o ero rimasta condizionata da ciò che stavo lentamente scoprendo sul caso Strozzi, ma ero convinta di non essermi potuta inventare tutto. Quegli occhi dovevano essere reali, quelle iridi così scure non poteva averle inventate il mio cervello. Pensai che potessero essere gli occhi di Giulio Angeli, neri come la notte che immergeva ancora Torino, ma le ciglia erano troppo lunghe, erano occhi di donna. Ma di chi? Me lo sarei domandata fino alla mattina dopo, quando sarei dovuta tornare al lavoro in quella maledetta casa.

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