Epilogo
Venzone, 27 Ottobre 2048
A ripensarci sono venticinque anni esatti da quel giorno in cui sono salito su, allo Jof del Montasio, e ho recuperato Crowley dopo il suo infortunio. Quello scellerato aveva una frattura scomposta all'omero e una caviglia slogata, e mi costrinse a non chiamare i soccorsi. Coraggioso com'è sempre stato, e allo stesso tempo stupido e ostinato. Mi fa sorridere se ci penso, nonostante ancora mi faccia arrabbiare da un lato.
Sì, ha senso.
Venticinque anni.
Sono stati anni pieni ed intensi, non sempre facili né sempre felici, ma comunque li rivivrei dal primo all'ultimo giorno. Perfino quelle prime settimane in cui lui era immobilizzato a letto e io ho dovuto passate tante e tante ore notturne sul divano perché non eravamo ancora pronti per affrontare un'intimità così grande come quella di dormire nello stesso letto. Ricordo il suo russare lieve di quelle notti, perché costretto a dormire a pancia in su, e i deboli lamenti quando si girava. Quel braccio non ha più smesso di dolergli. Sì, rivivrei anche quel mese orribile dopo che morì suo padre, e lui se ne andò su nel piccolo rifugio su in montagna, rifiutando di avere contatti con chiunque, perfino con me. Ovviamente tornò qui, alla fine. Nonostante tutto, Crowley è sempre tornato da me.
Ricordo il primo bacio che ci siamo dati dopo la nostra separazione - dopo il suo infortunio. I suoi occhi, soprattutto. I suoi bellissimi occhi dorati, che sono sempre stati espressivi oltre la parola stessa. Era dicembre inoltrato ormai. Il suo braccio dopo l'operazione stava finalmente molto meglio, ed io ero dovuto tornare a Londra per qualche giorno perché avevo una conferenza a cui non potevo assolutamente mancare. Al mio ritorno lo avevo trovato seduto sulla panchina di fronte alla chiesa. La notte prima doveva aver nevicato, perché sul piazzale era tutto bianco ed immacolato, senza nemmeno una singola impronta. Era la prima volta che vedevo la neve lì. All'epoca però mi preoccupai solo che fosse rimasto lì seduto al freddo ad aspettarmi.
"Crowley" gli dissi, "sei impazzito? Ti congelerai!".
Mi avvicinai, e vidi che stava piangendo.
"Che ti succede?".
"Piango perché sono felice" mi rispose. "Perché sei tornato".
E poi mi prese la mano, ne baciò le dita, e il polso, e un attimo dopo era tra le mie braccia. Ricordo le sue labbra fredde sulle mie, salate delle sue stesse lacrime.
E ricordo come dopo abbiamo fatto l'amore subito dopo, a distanza di quasi un anno dalla prima - ed unica - volta, dopo quella cena al Ritz. E subito prima della nostra lunga separazione. È stato come tornare a casa. Mi ricordo di essermi spogliato in fretta, senza pensare a niente altro che a lui, alla meraviglia del suo corpo, alla bellezza e all'amore che mi venivano offerti di nuovo.
Dio, quanto lo amavo in quel momento.
E quanto ancora lo amo, e per sempre.
Ho sempre adorato sentirlo tra le braccia. Non è passata una sola notte che abbiamo speso sotto lo stesso tetto che io non lo abbia sentito nel letto appoggiarsi su di me e poi abbracciarmi. Anche quando litigavamo poi la notte mi si avvicinava ugualmente. Magari si svegliava prima la mattina e si voltava dall'altra parte - d'altronde ha sempre amato mantenere quella specie di aplomb da uomo fatto e finito, quella ruvidezza da montanaro, anche fosse solo per di facciata. Entrambi sapevamo che aveva voglia di essere abbracciato di notte, ed io l'ho lasciato fare, sempre, anche se io avevo ragione e lui torto e non aveva voglia di ammetterlo, anche nella peggiore delle liti. Così come lui è sempre stato presente per me, in ognuno dei miei momenti difficili, e mi ha aiutato e supportato in silenzio senza mai farmi pesare nulla, senza mai recriminarmi le mie insicurezze e le mie rigidità.
Ci ho messo un po' per decidermi ma alla fine, un bel giorno, casa è diventata più l'Italia e questo minuscolo paesino, che Londra. Questi sono diventati i luoghi che occupavano più spazio nel mio cuore, queste montagne aguzze e selvagge e a volte crudeli, questi paesini dove mi accettano nonostante il mio italiano mai perfetto, e mi sorridono, e non gli importa di niente altro che quello che sono nei loro confronti e con loro. Casa sono queste strade che ormai percorro quasi ad occhi chiusi, che ho visto bagnate di pioggia e coperte di foglie secche, a volte innevate ed altre invece calde di sole, o illuminate solo dalla luna di notte, o perdersi nella nebbia. Ho visto tutti i colori di questa terra e cieli di ogni sfumatura, tersi o pieni di nuvole, e migliaia di albe e migliaia di tramonti.
Casa è qui, alle pendici del Plauris, nella piccola chiesa che pian piano ha accettato anche me. Qualcosa è cambiato con la mia presenza. Ci sono sempre dei fiori in primavera, perché Crowley va prenderli e me li lascia nel vaso sul tavolo. Ci sono molti più libri. C'è più spesso il profumo del té. Qualcos'altro invece è rimasto identico a quello che era la prima volta che sono venuto qui, tanti anni fa.
Casa sono anche i negozietti di cui conosco i proprietari, che mi ostino a visitare nonostante Crowley abbia cercato di convincermi centinaia di volte ad usare le consegne a domicilio. Qualche volta l'ho anche accontentato, ma sono troppo affezionato alle vecchie maniere e alle vecchie abitudini. Come vedrei Nina, altrimenti? E Maggie, la mia dolce Maggie, che di punto in bianco ha scelto di venire anche lei in Italia perché "le mancavo troppo". Ricordo quante preoccupazioni all'inizio, perché non volevo si sradicasse da Londra e dal negozio per me. E lei ha portato tutto il negozio, in qualche modo, aprendone uno a Gemona a dispetto di chiunque le dicesse che stava facendo una pazzia. Ed invece poi anche il suo trasferimento è stato fortunato, perché il negozio è diventato una piccola perla qui tra i monti del Friuli e soprattutto ha conosciuto Nina e si sono innamorate, e tutto è andato tutto splendidamente. Sono state molto più brave di me e di Crowley. Hanno fatto tutto bene, loro due.
Poco importa però, perché nessun uomo è stato felice come me, in questi ultimi venticinque anni. I migliori della mia vita. Mi è stato concesso molto, e ne sono immensamente grato.
Scrivo queste righe mentre preparo lo zaino per andare a camminare e seguire i passi di Crowley un'altra volta.
Quante escursioni abbiamo fatto in questi anni io e Crowley. Abbiamo seguito centinaia di percorsi, più e più volte. Abbiamo dormito in tenda, stretti nei rispettivi sacchi a pelo, e qualche volta, in estate, sotto le stelle. Dio, che notti abbiamo visto. Quante stelle, quanti milioni stelle. Non avrei mai e poi mai pensato che la via lattea potesse essere tanto bella. È vero, ci sono foto che si possono vedere ovunque su internet, ma niente può battere lo splendore di guardarla con i propri occhi. La prima volta eravamo insieme - ovviamente - e lui era più emozionato di me forse. Ha sempre avuto questo desiderio di rendermi partecipe del suo mondo, è sempre stato uno dei modi in cui mi ha dimostrato il suo amore. Ogni tanto, più raramente, anche con le parole. Lo ha fatto quando eravamo soli, al buio, magari sotto le coperte: allora gli ho sentito sulle labbra parole di poeta, molto più di quanto mi sarei mai aspettato. Il giorno in cui ho venduto casa a Londra e mi sono definitivamente trasferito qui mi scrisse addirittura una poesia. Il foglio ormai vecchio e stropicciato, con la sua grafia obliqua ed irrequieta è ora piegato in quattro nel taschino della mia camicia: lo porterò su con me.
Non sono triste, davvero.
Ho avuto più di quanto avrei mai sperato. Venticinque anni di amore, venticinque anni di felicità.
Crowley è partito ieri. Ha detto che voleva provare a fare quel percorso che non aveva mai finito venticinque anni fa. A nulla è valso ripetergli che era uno sciocco a pensare di potercela fare adesso che è oltre i sessanta, quando non c'è riuscito a quaranta'anni. Ma è sempre stato ostinato, e non mi è stato possibile dissuaderlo.
Questa volta Crowley non è tornato. E non mi ha chiamato ieri sera, quando sarebbe dovuto arrivare al bivacco. Glielo perdono perché è l'ultima volta.
So perché non lo ha fatto, e quindi parto per raggiungerlo - che qui da solo non ho affari che mi trattengano. Farò da solo quest'ultimo tratto di strada, e so che lo rivedrò presto.
Staremo insieme, in un modo o nell'altro.
Prendo la giacca a vento e il bastone da passeggio.
E questo non è un addio, ma solo un arrivederci.
Aveva guardato a lungo il foglio pieno di disegni intricati, nel buio alveolare che gli stava tutto intorno. C'era qualcosa che non gli tornava. Non come avrebbe dovuto. Vide una luce attraversare lo spazio sopra di sé. Una luce azzurrina e pura, bellissima.
"Scusami? Hey!" chiamò.
Era uno di loro. Certo, non c'era ancora nessun altro. Non c'era niente altro, in fondo. Lui, l'altro lui, aveva occhi grandi e splendenti, ed i capelli più candidi che avesse mai visto. Gli sorrise, incuriosito.
"Si? Eri tu?".
"Ah ciao, sì, ehh, senti ti dispiace tenermela mentre carico quest'affare?" gli aveva detto, e gli aveva messo tra le mani quella mappa.
Era importante mettersi a lavoro subito. Si assicurò che lo tenesse per bene e poi ci fissò la manovella che aveva tenuto in mano fino ad allora. Perfetto. Quasi perfetto. Non successe nulla, a dire il vero, tant'è che l'altro rimase un po' perplesso.
"Ahhm, beh, io mi chiamo Aziraphale".
Aziraphale.
Un nome molto appropriato. Lo ripetè nella mente, come per fissarlo. Come per ricordarlo, da un passato sconosciuto.
In quel momento però doveva fare prima il suo dovere. Recitò le formule che sapeva, agitando le mani nel vuoto. Nuovamente, non cambiò nulla. Si trovavano ancora nello stesso buio di prima.
"Dovrebbe accadere qualcosa?" chiese l'angelo accanto a lui, incuriosito e forse un po' deluso. Odiava deluderlo. Ma poteva rimediare.
"Aaah, giusto scusa, sì. Una cosa l'ho dimenticata. Che luce sia".
E luce fu.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top