32- dolore


Accarezzai la pancia, ormai evidente. "Ciao Jamie," sussurrai, sorridendo. "Papà sarebbe così felice di sapere che sei un maschietto. Lo sapevo che sarebbe stato un bellissimo bambino."

Ricordai le lunghe conversazioni con Leo, i suoi sogni sul nome del nostro figlio. Jamie. Un nome semplice, ma che racchiudeva tutto il nostro amore.
Sei mesi. Sei lunghi mesi erano passati dall'ultima volta che avevo visto Leo. Sei mesi di silenzio, di attesa, di paura.

Ogni giorno mi chiedevo come stesse, cosa stesse facendo. Ma non avevo alcuna notizia. Il telefono taceva, ostinatamente muto.

Stavo guardando la televisione, assorta nei miei pensieri, quando il telefono squillò. Un numero sconosciuto. Il cuore mi si strinse in una morsa. Chi poteva essere? Risposi tremante.
"Pronto?"

"Signora...?" una voce maschile, incerta. "Parla con Luca. Sono un amico di Leo."
Il mio cuore si mise a battere all'impazzata. "Leo... come sta?" chiesi, la voce tremante.

C'è stata una lunga pausa dall'altra parte della linea. "Ascolti, signora..." iniziò a dire, ma la sua voce si incrinò. "C'è stato un incidente, durante la missione. È esploso un edificio dopo che suo marito ha ucciso il boss. Leo... è in coma. All'ospedale."

Il mondo mi crollò addosso. In coma? Da quanto? Tre mesi. Tre mesi e nessuno mi aveva avvertita? Mi sentii come se mi avessero tolto l'aria dai polmoni.

"Devo venire subito," balbettai. "Dove?"

Luca mi diede l'indirizzo dell'ospedale. Appena riposi il telefono, mi alzai di scatto e corsi a preparare una borsa. Jamie, il mio piccolo Jamie, era tutto ciò che mi teneva in piedi in quel momento. Dovevo andare da Leo, dovevo dirgli che lo amavamo, che lo stavamo aspettando.

L'ospedale mi accolse con il suo odore familiare di disinfettante e ansia. Trovai la stanza di Leo e mi fermai sulla soglia, il cuore in gola. Lì, sdraiato sul letto, c'era lui. Il mio Leo, pallido e fragile, con i capelli arruffati e le braccia coperte da bendaggi. Il bip regolare del monitor mi rassicurò, era vivo.

Mi avvicinai lentamente, ogni passo un'eternità. Le flebo attaccate alle sue braccia mi ricordavano la gravità della situazione, ma in quel momento vedevo solo lui, i suoi lineamenti rilassati nel sonno. Sembrava un bambino, così vulnerabile.
Mi sedetti accanto al letto e presi la sua mano. Era fredda e sudata. "Leo," sussurrai, la voce rotta dall'emozione. "Sono qui."

Non si mosse, ma sentii il suo respiro affannoso. Accarezzai delicatamente il suo viso, cercando di memorizzare ogni linea, ogni imperfezione. Sembrava così lontano, eppure così vicino.
"Jamie ti manda un bacio," gli dissi, appoggiando la mano sulla pancia. "Sta crescendo tanto e non vede l'ora di conoscerti."

Le lacrime mi rigavano il viso, ma non volevo svegliarlo. Volevo solo stare lì, accanto a lui, fino a quando non avesse aperto gli occhi.
Passarono ore, forse giorni. Non lo so. Il tempo sembrava essersi fermato. Continuavo a parlare con lui, a raccontargli delle mie giornate, di come cresceva il nostro bambino.

A volte, mi sembrava di sentire una leggera pressione della sua mano sulla mia. Ma forse era solo la mia immaginazione, la mia disperata speranza.

Nonostante tutto, non perdevo mai la speranza. Sapevo che Leo era un combattente, e che avrebbe trovato la forza di riprendersi. Avevamo un figlio da crescere insieme, una vita da costruire. E io sarei stata lì per lui, sempre.

LEO

Un flebile rumore mi raggiunse attraverso la nebbia che avvolgeva la mia mente. Era una voce, dolce e familiare. All'inizio, la confusi con un sogno, un ricordo di giorni passati. Ma più ascoltavo, più quella voce si faceva chiara, distinta. Era Ally. Il mio cuore, che pensavo ormai dormiente, iniziò a battere più forte.

"Leo," sussurrava il suo nome, come una carezza. "Sono qui."

Cercai di aprire gli occhi, ma le palpebre erano pesanti come macigni. Volevo risponderle, dirle che la sentivo, ma le parole mi rimanevano intrappolate in gola. La frustrazione cresceva dentro di me. Perché non riuscivo a muovermi? Perché non potevo raggiungerla con un semplice gesto?

La sua voce continuava a riempirmi le orecchie. Mi parlava di Jamie, del nostro bambino. Mi dipingeva immagini vivide di lui, di come stava crescendo, di quanto mi somigliasse. E io, immobile e impotente, potevo solo ascoltare.

"Ti aspettiamo, Leo," sussurrava. "Torna presto da noi."
Quelle parole mi davano la forza di lottare, di non arrendermi. Sentivo un bisogno viscerale di svegliarmi, di stringerla tra le mie braccia, di vedere il nostro bambino. Ma il mio corpo sembrava disobbedirmi.

La rabbia mi attanagliava. Come potevo essere così debole? Come potevo permettere a questa maledetta malattia di tenermi prigioniero? Volevo urlare, sbattere i pugni, ma non avevo la forza.

In quel momento di disperazione, sentii una presenza forte accanto al mio letto. Era un medico, il suo sguardo severo ma pieno di compassione. Mi stava informando delle mie condizioni, ma le sue parole entravano da un orecchio e uscivano dall'altro. La mia mente era concentrata solo su Ally e sul nostro bambino.

"Non mollare, Leo," mi sussurrò il medico, toccandomi la spalla. "Hai una famiglia che ti aspetta."
Quelle parole mi toccarono nel profondo. Aveva ragione. Non potevo arrendermi. Dovevo lottare per loro, per Ally, per Jamie.

Con uno sforzo sovrumano, strinsi la mano di Ally. Era così calda, così reale. In quel momento, capii che non ero solo. Avevo una ragione per vivere, una ragione per combattere. E con tutta la forza che mi restava, promisi a me stesso che sarei tornato da loro.


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