Capitolo 25
Mi ritrovo sul taxi a fissare le luci della villa mentre a poco a poco ci allontaniamo da essa.
Eric voleva darci un passaggio ma ho rifiutato perché non potevo rimanere oltre. È stato davvero troppo. Anche se sono riuscita a resistere mi sto sentendo completamente scarica. L'adrenalina infatti ha abbandonato il mio corpo scemando non appena ho posato i piedi nudi sull'ultimo gradino della bellissima scala su cui pochi istanti prima ero con il ragazzo che ha fatto ancora a pugni per me.
«Non vedo l'ora di vedere il tuo appartamento». Camille non sta più nella pelle. Le ho già spiegato che il mio spazio vitale non ha niente di speciale e che, non voglio vedere la delusione farsi strada sul suo viso radioso quando si accorgerà che non ho niente di mio lì dentro. Ma lei non sembra avere accettato la mia spiegazione.
Guardo fuori. Le tracce sull'asfalto di un acquazzone arrivato di colpo. Apro il finestrino lasciando entrare nell'abitacolo l'aria fresca dovuta al cambio repentino e breve del tempo. Mi godo i pochi minuti di piacevole sensazione generati dal cambio d'aria e chiudendo gli occhi inspiro ed espiro prima di rispondere. «Non c'è niente di speciale in quell'appartamento. È piccolo e puzza di moquette vecchia», replico ricevendo un'occhiata da parte dell'autista che nel frattempo guida sereno canticchiando di tanto in tanto seguendo una hit del momento. Picchietta persino le dita sul volante a tempo di musica.
Nel complesso è un uomo dedito al lavoro. Non fa domande. Non si impiccia nei nostri discorsi.
«Deve pur esserci qualcosa che ti piace del posto?»
Faccio una smorfia. «Si trova in una zona poco raccomandabile e i vicini sono dei ladri imbottiti di canne», esclamo con finto sarcasmo godendomi l'espressione di Camille improvvisamente nervosa. Il suo sorriso diventa plastico, forzato. Inizia ad avere dei ripensamenti e non solo sul fatto di avere lasciato Steve. Glielo si legge negli occhi grandi e sinceri.
«Però se fai amicizia con loro non rischi di essere derubata», cerco di salvarmi in extremis. Non voglio farla allarmare o preoccupare. Voglio solo che questa nuova giornata finisca in fretta così come il ricordo del mio compleanno.
Non ho più festeggiato da quel giorno. Dopo la morte dei miei genitori. Non voglio ricordare la loro mancanza, la loro perdita perché sono morti in un giorno di festa. Mi hanno lasciata sola e senza via di fuga. Senza un piano per il futuro. Ho dovuto reinventare me stessa costruendo tutto dalle fondamenta dopo una lunga e dura delusione da superare. Nella mia vita la morte è sempre stata una costante. Non conosco altro oltre il dolore. E non si tratta di certo della sensazione provata ma della sua assenza durante la prima fase.
Perché il mondo funziona così: quando tieni davvero tanto a qualcuno, ti viene strappato via dal destino, dalla cattiva sorte.
Camille posa una mano sulla mia riportandomi alla realtà. Stiamo entrando in città. I miei occhi vengono abbagliati dal riflesso delle luci dei lampioni e delle case, dei palazzi alti illuminati. Le mie orecchie inondate dal vocio e dai rumori che entrano nell'abitacolo riscaldandomi.
«Emma, tutto bene?»
«Si, pronta?» chiedo quando il taxi dopo un paio di curve e km, nonché fermate, frena la sua corsa di fronte il palazzo antico rosso dalle finestre bianche di pietra. Lo guardo sentendo la mancanza del mio appartamento, quello conquistato dopo mesi di sacrifici.
«Aspetta», Camille paga velocemente il taxi senza neanche darmi il tempo trascinandomi verso l'entrata più che entusiasta.
Nell'androne c'è una guardia diversa. Salutiamo salendo le scale anziché prendere l'ascensore perché traballa troppo per i miei gusti e inoltre ci mette parecchio per portarti al tuo piano.
Camille sorride con le guance rosee; ancora ubriaca, barcolla visibilmente rischiando di cadere lungo lo stretto corridoio trascinando dietro i quadri incolori e i vasi con i fiori ormai appassiti a cui nessuno ha dato loro cure amorevoli.
Osservo i petali secchi di una rosa ormai a testa in giù, quasi fosse triste. Mi sento proprio come lei. Rinsecchita, prosciugata dalla vita, stanca, pronta a crollare. Non servirà di certo un raggio di sole o una goccia d'acqua a farmi riprendere.
Non so con esattezza perché sento questo, so solo che adesso ho bisogno di chiudere la porta alle spalle e mettermi a dormire, magari per ore.
Aperta la porta lascio entrare Camille che ha tanto l'aria di una turista pronta a scattare qualche foto per immortalare un posto che probabilmente ha visto anche qualche omicidio. «È carino qui. Non capisco perché eri così preoccupata di mostrarlo», biascica avvicinandosi al quadro appeso sulla parete all'entrata dell'appartamento.
Sta mentendo. Lo leggo nei suoi occhi nocciola rotondi come biglie che vorrebbe trovarsi altrove.
«Non mentire», brontolo sentendomi in parte ferita.
Dovrebbe essermi riconoscente. Non sono arrabbiata con lei, sono solo stanca e delusa da me stessa, dal mondo o dal destino che continua a mettermi i bastoni tra le ruote.
Mi blocco un attimo prima di proseguire verso la cucina. Sul pavimento, in bella mostra ci sono dei pacchetti. Confezioni regalo per me.
Osservo inorridita la carta lucida color Tiffany e argento. La scatola di un rosa tenue di camoscio e una color crema marmorizzata.
Corrugo la fronte. Come ci sono arrivati questi qui dentro? Chi mai potrebbe ricordare il giorno del mio compleanno? È già arrivato?
«Mi dispiace disturbarti ma... ho bisogno del bagno», esclama Camille saltellando non accorgendosi della tempesta che mi investe rischiando di annegarmi.
Glielo indico distratta avvicinandomi ai regali. Mi tremano le mani quando li porto in cucina. Toccarli mi regala una strana sensazione. Era da tempo che non provavo niente di simile. Mi sembra impossibile e... sono davvero curiosa di capire chi sia il mittente.
Aperta la scatola marmorizzata trovo dentro una torta con glassa al fondente e granella di pistacchio con la scritta: "Buon compleanno".
Posandola sul ripiano indietreggio e stordita mi ritrovo seduta sul materasso. I due regali ancora non aperti accanto. Scarto il primo che ha uno strappo all'interno. Trovo una confezione di popcorn, una ciotola e il mio film preferito. La pellicola originale con tanto di contenuti extra ed interviste.
Sollevo il coperchio della scatola. Tolto l'involucro di velina bianca le mie dita si fermano a mezz'aria. Spalanco gli occhi incredula. Davanti a me: il tubino rosa che non avevo preso al centro commerciale quel giorno perché non ero convinta del colore.
Sollevo il vestitino davvero bello rispetto a come lo ricordavo e mi cade in grembo un biglietto. Sollevandolo leggo:
"Abbiamo saputo che oggi è il giorno del tuo compleanno. Tantissimi Auguri Emma! – Ethan, Anya e Mark."
Dalla mia bocca sfugge un singhiozzo attutito dalla mano che porto subito sulle labbra.
Stringo gli oggetti come se fossero le cose più preziose della mia vita.
Loro non hanno la minima idea di quello che sento. Di come sto soffrendo. Non sanno che in questo giorno ricordo momenti che mai più riavrò indietro. Non sanno che odio me stessa per essere arrivata viva superando un altro anno di vita senza la parte più importante di me: la famiglia.
Perché il dolore ti travolge senza preavviso. Ti afferra, ti colpisce forte al petto, allo stomaco, alla testa senza mai abbandonare del tutto la tua mente, il tuo corpo. Superare il dolore non è facile. Puoi anestetizzarlo ma non puoi evitarlo per sempre.
Attaccato al vestitino, non c'è la solita etichetta bensì una busta bianca. Aggrotto la fronte indugiando un momento prima di aprirla.
"Cara Emma,
O dovrei dire, ciao?
A dire il vero non so come iniziare questa lettera. Anche se in parte è solo uno stupido pezzo di carta.
Vorrei parlarti di tante cose ma non trovo mai le parole per farlo come si deve. Di solito non mi è così difficile esprimermi con le persone ma con te non è mai facile niente. Mi fai sentire in difficoltà, mi fai ammattire come pochi, soprattutto quando mi guardi.
Già, adesso gongolati pure per questo...
Lo so, sembrerà banale o assurdo che uno come me faccia ancora queste cose ma credo sia l'unico modo in questo momento per arrivare almeno sulla soglia del tuo cuore. Come dicevo prima, non è facile raggiungerti. Ma io non sono il tipo che si arrende facilmente.
Spero ti piaccia il pensiero che ho scelto, l'ho comprato perchè tu e solo tu possa indossarlo. Mi sono assicurato che nessun'altra lo abbia acquistato. È unico, per una persona altrettando unica... per me.
Non chiedermi come ho fatto a sapere che è il giorno del tuo compleanno, sappi solo che mi piacerebbe vederti sorridere una volta tanto in modo sincero e sapere che il motivo sono io.
Sarò pure egoista ai tuoi occhi e forse un po' stronzo ma sono anche testardo e se dico che mi farò perdonare, lo farò. Farò qualsiasi cosa per dimostrarti che ci tengo a te. Ti auguro di passare al meglio questo giorno.
- Ethan"
Il pavimento inizia a tremare e le lacrime a lungo tenute a freno per giorni interi a straripare travolgendomi come un fiume in piena pronto a trascinarmi alla deriva.
Con gli occhi appannati e i singhiozzi trattenuti a stento, leggo per ben tre volte la lettera scritta da Ethan.
Mi è quasi impossibile crederci. Mi ha regalato tanto senza pretendere nulla in cambio. Mi ha fatto sentire importante e non più sola.
«Dio», tiro su con il naso passando una mano tra i capelli. I miei occhi ancora una volta si posano sulle ultime righe e la mia bocca, inizialmente si piega in un sorriso che lento si trasforma in una smorfia carica di dolore.
«Cazzo, cazzo, cazzo», piagnucolo piegandomi sul materasso stringendo il petto che fa tanto male; fa fottutamente male da non riuscire a respirare. «Perché mi fai questo effetto? Perché non puoi starmi lontano?»
Quando sento cigolare la porta del bagno, asciugo in fretta gli angoli degli occhi. Non voglio turbare in alcun modo Camille.
Quando sbuca rimanendo sulla soglia, trattengo il fiato. I suoi occhi lucidi a causa dell'alcol, saettano sui regali posandosi sulla torta la cui candelina non è ancora stata accesa.
Tappa subito la bocca dopo avere emesso un verso strozzato poi inizia a saltellare strillando come una pazza sotto effetto di sostanze illecite. «Oh mio Dio!» sorride, «Auguri!» lanciandosi su di me mi abbraccia iniziando a cantare la canzoncina. Lo fa proprio come una bambina in preda all'euforia causata dai troppi zuccheri assunti.
«Ti va un po' di torta? C'è anche lo spumante dentro il frigo».
Mi ritrovo a sorridere mentre dentro sto morendo. Mi ritrovo a trattenere altre lacrime di fronte la sua dolcezza e il suo immenso affetto quando cercando un accendino accende la candelina correndo a spegnere le luci. «Tanti Auguri a te...», canta ancora una volta prima di attendere. «Esprimi un desiderio».
Chiudo semplicemente gli occhi soffiando e lei batte le mani sollevandosi come una molla per andare ad accendere la luce. Aperto il frigo mi porge la bottiglia e quando la apro mi passa i bicchieri per riempirli.
Mangiamo torta e beviamo standocene comodamente sedute sul letto, mentre una lieve brezza e i rumori nel vicolo accompagnano la nostra chiacchierata.
«Davvero stava per mettersi a piangere?» chiedo biascicando.
Camille per poco non si strozza dalle risate. «Si, dovevi proprio vederlo.»
Rido poco prima di ingoiare l'ultimo pezzo di torta insieme al nodo che rischia di asfissiarmi. «Adesso come ti senti?» chiedo alzandomi.
Barcollo visibilmente e lei indicandomi scoppia a ridere fino ad avere il singhiozzo. Notandomi ubriaca e priva di equilibrio rido anch'io cercando di raggiungere la finestra. La spalanco lasciando entrare un po' di brezza notturna poi, intuendo di non essere capace a stare in piedi torno a letto.
Camille abbraccia il cuscino. Si è già spogliata. «Adesso? Mi sento libera», chiude gli occhi. «E tu invece?»
Prendo aria. «Io... io sto bene», mento girandomi dall'altro lato. Dovrei cambiarmi ma non ne ho la forza.
Voglio solo che questo giorno finisca in fretta.
La notte è troppo lunga e silenziosa per i miei pensieri. Voglio ricordare il passato senza sentire questo enorme vuoto dentro. Voglio ricordare senza mai dimenticare di vivere. Invece sto solo sopravvivendo.
Mi alzo dal letto sentendo russare rumorosamente Camille. Sono ancora ubriaca, ma ho bisogno di togliermi di dosso questo abito che pesa più della mia sfortuna e riprendermi dalla sbronza il prima possibile.
Tiro giù la cerniera e anche l'abito lasciandolo all'angolo. Avvicinandomi alla finestra osservo il panorama. I grattacieli a specchio, qualche luce nelle abitazioni vicine ancora accesa, un gatto randagio impegnato in una folle corsa per catturare un povero topo. Giù nel vicolo ci sono dei ragazzi. Uno di loro, il ragazzo più basso del gruppo dai capelli a rasta e una bandana sulla fronte: alza lo sguardo, mi sorride poi inizia a fischiare.
Mi allontano immediatamente dalla finestra sentendo addosso una forte nausea.
I miei occhi si posano sui segni che ho ai polsi e rabbrividisco abbracciandomi.
Di colpo Camille si alza dal letto con una mano sulla bocca. Ha il viso pallido e gli occhi fuori dalle orbite. «Mi sa che devo vomitare», biascica scappando in bagno.
Corro ad aiutarla ma a stento trattengo i conati.
«Come diavolo ci siamo ridotte in questo stato?» chiedo passandole un panno bagnato per metterselo sulla fronte.
Mi guarda con un occhio solo. «Non ne ho idea ma ne è valsa la pena!» sorride radiosa prima di avvicinarsi ancora al water e vomitare.
Quando finalmente smette, l'aiuto a spostarsi a letto. Quando arriviamo in camera, ci rendiamo conto che è già ora di pranzo. Il sole picchia forte in alto nel cielo e fuori regna sovrano il caos di clacson, cinguettii, vocii e tanto altro mescolato agli odori che arrivano dalla strada, dove una comunità etnica a quanto pare sta dando vita ad una festa di quartiere.
«Sai che cosa ci vuole adesso?»
Non riesco a risponderle perché corro in bagno. Non appena arrivo davanti il gabinetto però, non riesco a vomitare. Allora mi avvicino al lavandino sciacquando i polsi e la bocca. Frastornata torno in camera mettendomi supina sul letto. Fissò il soffitto cercando di non implodere anche se sembra inevitabile.
Camille si mette in ginocchio osservandomi. «Allora, sai che cosa ci serve adesso?»
Metto un cuscino sulla faccia. Ho le tempie che mi esplodono e sento muovere ogni cosa. Devo chiudere gli occhi per ritrovare l'equilibrio e non voglio sentire niente, neanche un rumore. «Che cosa?» chiedo ingenuamente.
Smanetta con qualcosa e quando sbircio sta estraendo qualcosa dalla sua borsetta. Una busta bianca con due sigarette all'interno.
Accorgendosi del mio sguardo sorride maliziosa. «Tu hai bisogno di distruggerti e io ho bisogno di distruggermi», aprendo la bustina trasparente mi passa una delle due sigarette.
La prendo quasi restia. «Non sai che cosa hanno messo dentro, Cami», cerco di redarguirla.
Alza le spalle accendendo la sua. «Mi hanno detto che è roba buona, niente di pericoloso. Tra poco vedremo», aspira una boccata rilassandosi sul letto. Pochi istanti dopo mi passa l'accendino. Indugio prima di fare lo stesso fregandomene per qualche ora della legge, della morale e di tutto il resto.
«Visto?» tossicchia poco prima di scoppiare a ridere senza una ragione.
Inarco un sopracciglio. Non riesco a seguirla perché la mia mente fluttua facendomi sentire priva di peso.
Camille è davvero un'allegra compagnia in un giorno così pessimo per la mia esistenza. In parte però: sono felice di non essere sola.
Togliendole la sigaretta dalle mani, per non esagerare, la spengo sul posacenere. «Ok, ne hai fumata troppa. Lasciane un po' per dopo», parlo male, malissimo.
Aiuto Camille a mettersi a dormire nonostante le innumerevoli proteste. Rimasta di nuovo in silenzio, osservo fuori dalla finestra. Il cielo plumbeo del tardo pomeriggio mi fa ben sperare. Riesco quasi a respirare di nuovo normalmente.
Chiudo anch'io gli occhi provando a dormire. In un certo senso ci riesco pure ma quando sento i primi botti partire, spalanco gli occhi e, avvicinandomi alla finestra, appoggiata al vetro, osservo i fuochi d'artificio che tempestano il cielo colorando quel nero, illuminandolo con musica, applausi, urla per la festa del 4 Luglio.
Mi sento ancora stordita e non solo a causa dell'alcol. Staccandomi dalla finestra mi sposto verso la porta dove qualcuno sta bussando ripetutamente. Insicura e spaventata afferro un vaso e piano apro la porta.
Quando mi ritrovo davanti un ragazzo assonnato, in boxer e pantofole dagli occhi rossi, abbasso le spalle nascondendo dietro il vaso perché lo riconosco: è il vicino. Sorrido come una stupita, non sono più me stessa.
«Emma, giusto?»
«A quanto pare», rispondo cercando di non fissarlo troppo.
Ha un sorriso malizioso e un corpo niente male. «Hanno lasciato questa per te dolcezza», biascica.
Trattengo una risata. Siamo così buffi quando perdiamo il controllo cedendo a qualche tentazione?
Corrugo la fronte quando mi porge una busta bianca. C'è un timbro. «Chi?», domando interdetta.
Alza le spalle. «Un tizio ingessato», replica dirigendosi alla porta.
«Grazie», dico chiudendo la porta con il piede.
Rigiro la busta tra le mani. C'è il timbro di uno studio legale. Mordo la guancia strappando l'angolo estraendo il foglio ripiegato.
Leggo le prime righe confusa. Di colpo il mondo mi cade addosso e mi ritrovo a precipitare sfracellandomi al suolo proprio come il vaso che, pochi istanti prima tenevo tra le mani.
Non riesco a credere ai miei occhi, adesso improvvisamente stanchi. Non riesco a credere a quello che mi ritrovo davanti.
No, non è possibile, continuo a ripetere a me stessa scivolando sul pavimento. In realtà cado a terra, ma sono sotto shock per capirlo. Gli occhi pizzicano come se avessi tagliato una cipolla e una forte pressione mi schiaccia il petto annebbiandomi la vista. Perdo infatti il contatto con la realtà forse per un tempo apparentemente lungo.
«Chi era?»
Solo quando sento la voce stridula e impastata dal sonno di Camille mi riscuoto. Ma è come se avessi appena ricevuto una sprangata sulla nuca. Mi sento frastornata.
Scuoto la testa. Non è reale, mi dico. «Un altro scherzo del destino. Un fottutissimo regalo o forse... un terribile promemoria», replico a bassa voce ma con rabbia stringendo il foglio e la busta ancora tra le mani.
Camille si avvicina. Notandomi a terra piega la testa di lato. «Ti senti male?» toccandosi la tempia fa una smorfia. «Era davvero buona quella roba ma gli effetti sono ancora da vedere», brontola.
Fisso la parete davanti a me. «Si, sto bene», alzandomi come una molla aggiungo: «vado a fare una doccia».
«Non hai risposto: chi era?»
Replico accartocciando la lettera prima di lanciarla in un angolo del corridoio con una certa rabbia. «Nessuno. Non era nessuno», mormoro chiudendo in fretta la porta del bagno appoggiandomi con tutto il peso di cui dispongo prima di chiudere a chiave.
Mi guardo attorno stordita. La testa gira pericolosamente. Un conato mi costringe a muovermi e raggiungendo il water vomito più volte lo schifo che ho ingerito per il nervosismo, per lo stress accumulato, per il dolore provato, fino a quando non c'è più niente da buttare fuori, neanche l'anima.
In questo momento, se potessi, strapperei a mani nude il mio cuore ponendo fine a questo orribile nonché stupido dolore. Avrà mai fine? Una persona può resistere così tanto al dolore da uscirne del tutto illesa?
No, non credo proprio. Il dolore puoi solo anestetizzarlo. Non puoi superarlo semplicemente ignorandolo.
Mi infilo dentro la doccia vestita e senza attendere apro il soffione. Il getto dell'acqua arriva freddo facendomi urlare. Tappo la bocca tenendo tutto dentro per più di un minuto fino ad implodere. È quello che so fare meglio. Tenere ogni singola sensazione dentro fino a lasciarmi ferire.
Rimango sotto il getto per non so quanto tempo. Di colpo qualcosa scatta dentro di me e mi ritrovo a picchiare i pugni contro le piastrelle scivolose. Mi disintegro lentamente.
Quando non ho più forza di muovermi, chiudo il getto d'acqua scivolando in un angolo del box doccia. Porto le ginocchia al petto e dondolandomi rimango così, fino ad addormentarmi, completamente distrutta.
Di tanto in tanto mi sveglio, riapro il getto caldo ma non serve a niente perché sto tremando dentro.
Non capisco più niente. Non so da quanto ormai sono qui dentro. Il mondo là fuori ha subito qualche cambiamento?
Sento bussare per l'ennesima volta alla porta. «Emma, posso entrare?»
Dopo una manciata di secondi sospira. «Ok, andrò di nuovo dai vicini. Non sono male come mi hai fatto credere», lascia uscire i suoi pensieri affatto preoccupata.
«Ok», rispondo solo dentro la mia testa. Tanto non riesco ad alzarmi dal mio angolo; non rispondo; non è possibile ricacciare indietro la valanga che mi ha travolto all'improvviso.
Quello che voglio attualmente è rimanere dentro questo spazio ristretto e tranquillo per non sentirmi persa e sola.
Ho perso il contatto con la realtà. Forse sono proprio sotto shock. Non ne ho idea. È tutto così confuso.
«Emma», Camille torna a bussare provando ad aprire la porta.
Batto le palpebre. Ho aperto la porta della doccia ma non ce la faccio ad alzarmi. Sono troppo stanca.
«Emma», adesso sembra preoccupata. «Apri questa porta! Stai lì dentro da un giorno», appare agitata.
È passato così tanto? Davvero?
Non me ne sono accorta. Mi costringo ad allungare il braccio e a tentoni apro il getto dell'acqua facendole capire che sono ancora viva anche se impegnata ad annegare i pensieri che, confusi continuano ad affollarsi dentro la mia testa.
Sbuffa e pestando i piedi sulla moquette si allontana finalmente dal bagno.
Intuendo di avere commesso una cazzata, provo ad alzarmi. La gamba protesta e tengo tra i denti un urlo di dolore aggrappandomi alla porta della doccia che chiudo e aumentando il getto lavo via ogni cosa. Ma niente allevia lo squarcio che ho al centro del petto.
Strofino forte la pelle fino ad arrossarla. Gocciolante e stordita esco dal bagno in asciugamano rannicchiandomi in posizione fetale sul letto. È troppo morbido il materasso ma andrà bene lo stesso.
Sento il fiato caldo di Camille sulla nuca. «È successo qualcosa di brutto, vero?» tiene qualcosa tra le mani ma non riesco a mettere a fuoco perché i miei occhi continuano ad appannarsi ad ogni breve respiro.
«Sai cosa voglio? Stordirmi ancora fino a non sentire più niente. Neanche la tua voce che arriva come uno sparo dentro la mia testa», il mio tono roco fa paura.
La stessa Camille trattiene il fiato poi staccandosi sparisce per una manciata di minuti. Quando la porta principale sbatte chiudendosi con uno scatto, lei ricompare e salendo sul letto lascia scivolare davanti a me una bustina.
Sembra avermi letto nel pensiero perché ne accende subito due. Senza riflettere troppo fumo alleviando il bruciore alle viscere, il peso opprimente sul petto.
Quando smetto, sento le ossa pesanti come piombo ma la mia mente è ancora accesa, vigile.
«Questa è forte», mormoro.
Camille sembra già andata e io chiudo gli occhi perdendo subito i sensi.
«Emma», vengo scossa.
Apro gli occhi. Il cuore mi batte a mille. Camille sembra spaventata. Alzo il busto cercando di capire. «Che ti succede?» chiedo passando una mano sul viso.
«Ho delle brutte allucinazioni», tocca qualcosa davanti a sé prima di ridere.
Sbuffo e osservandola mentre ride scoppio in lacrime. Lei non se ne accorge nemmeno e io mi sfogo in silenzio tenendola d'occhio. «Non hai ancora pianto», le faccio notare.
Fa una smorfia smettendo di sfiorare il muro. «Non ho rimpianti», risponde saltando sul letto. Lega i capelli guardandosi intorno.
«Stiamo esagerando. Presto perderemo il controllo», le faccio notare alzandomi. Inciampo ritrovandomi a terra.
Camille trattiene la risata prima di scoppiare e coinvolgere anche me che, da questo comprendo di avere appena toccato il fondo. Inizio persino a sentire vergogna.
I miei occhi stanchi fissano il quadrato in cui mi trovo e che sto imparando a chiamare casa.
«È tutto in disordine. Tutto sottosopra», stringo i pugni sul viso prima di scuotere la testa.
In un angolo, sul ripiano della cucina, vedo quella maledetta busta bianca stropicciata. Guardo subito Camille. «Sei stata tu?» chiedo indicandola più che arrabbiata.
Batte ripetutamente le palpebre. Tiene il telefono tra le mani continuando a digitare qualcosa in maniera nervosa e frenetica. Non smette un secondo di vibrare emettendo un bip fastidioso.
«Camille», ringhio.
Annuisce.
Il sangue affluisce velocemente ovunque. «Hai letto qualcosa?» domando improvvisamente seria.
Annuisce ancora una volta.
Boccheggio. Inizio ad avvertire la mancanza di aria ai polmoni. Conosco bene la sensazione: sto per avere una crisi di panico.
«Dovresti andare», dice con franchezza.
Come un robot raggiungo anche se arrancando la cucina rovesciando a terra tutto ciò che trovo. Urlo forte facendo in due la busta e senza riuscire a vedere niente, corro ancora una volta in bagno sbattendo forte la porta. Picchio il pugno sulla superficie. Il dolore si riversa sul polso.
La testa gira e la nausea torna come un'onda anomala. Un forte dolore allo stomaco mi fa contorcere le viscere. Non vomito niente a parte l'aria.
Mi accuccio all'angolo del bagno, tra il lavandino e la doccia.
«Ehi», Camille bussa più volte alla porta.
«Va via!» la caccio.
Non so perché mi sto comportando in questo modo. Non so se sentirò per sempre questo dolore sordo al petto, ma voglio che se ne vada. Voglio che scivoli via dal mio corpo.
I miei occhi si posano sul rasoio. Lo afferro togliendo la plastica colorata che lo circonda.
Rigiro la piccola lama metallica tra le dita. Inspiro ed espiro.
Inspiro ed espiro.
Inspiro...
Tremo. Le mie dita stringono la lama e inizio a segnare una, due, tre linee sulle cosce. Lascio uscire il fiato alzando la testa. È una sensazione che non provavo da tempo.
Lascio cadere la lama mentre osservo le linee tracciate tingersi di rosso fino a lasciare colare grosse gocce sul pavimento.
Respiro di nuovo regolarmente. «Sono ancora viva», le spalle sussultano. Tappo le orecchie e scivolando sul pavimento in posizione fetale chiudo gli occhi.
«Piccola, svegliati!»
C'è un buonissimo odore di pancake al cioccolato e caffè nell'aria. È davvero delizioso. Mi riscalda nell'immediato.
Apro lentamente gli occhi. Papà è qui accanto a me. Mi guarda con i suoi occhi color nocciola. La sua mano sta già accarezzando la mia guancia e con un sorriso mi passa una scatola con un enorme fiocco sopra.
Apro del tutto gli occhi alzandomi a metà busto. Emetto un gridolino abbracciandolo. Non sono mai così spontanea ma con lui posso. Mi capisce. Sa che se abbraccio lo faccio perché lo voglio.
«Buon compleanno mia piccola grande principessa coraggiosa», è così felice. Lo sono anch'io mentre guardo la scatola rigirandola tra le mani. È blu come la notte: il mio colore preferito.
La porta bianca della camera si apre e mamma spunta tenendo una mano sul pancione mentre con l'altra porta un vassoio raggiungendomi. Mi fa i suoi auguri dandomi un grosso bacio poi sedendosi sul bordo del letto proprio come papà, attende raggiante che io apra il regalo.
Sorrido. Sento il cuore scoppiarmi di gioia. Sono così fortunata ad averli. A volte non riesco ad esprimerlo ma gli voglio bene. Presto arriverà la mia sorellina con cui potrò giocare. Una piccola creatura come me da amare, da proteggere. Riuscirò a dirle ti voglio bene. Mi impegnerò se sarà necessario ad essere una bambina migliore.
Dentro la scatolina: trovo una bellissima collana. Si tratta di un punto luce. È davvero meravigliosa. «Grazie, non me ne separerò mai. Lo prometto», dico abbracciandoli.
Facciamo colazione tra sorrisi e chiacchiere. Fuori c'è il sole. Questa sera festeggeremo il 4 luglio e il mio compleanno.
Mastico con gusto il pancake osservando i miei genitori. All'improvviso, il volto di mio padre muta. Si immobilizza, diventa cereo.
«Papà?» cerco di toccarlo, ma si allontana come se un vento improvviso lo stesse spazzando via.
«Mamma?»
Anche lei svanisce nella nebbia. La mia mano ricade pesante nel vuoto.
Guardo ovunque. Sono sola. Sola e impaurita. «No, non lasciatemi. Non lasciatemi sola», scoppio in lacrime. Chiudo gli occhi. È solo un sogno, continuo a ripetermi. È solo un brutto sogno. Ma se è un sogno, perché è così brutto? I sogni sono belli.
Provo ad aprire gli occhi. Non ci riesco.
«Emma»
Qualcuno mi scuote abbastanza forte ma sono ancora troppo lontana.
Inoltre c'è puzza di sangue, di benzina, di gomme bruciate. C'è puzza di morte.
«Cazzo!»
Una voce impreca. «Emma, svegliati!».
Ricevo l'ennesimo scossone.
Mi sveglio. La luce fioca del bagno ferisce i miei occhi. Batto un paio di volte le palpebre per adattarmi.
Dove mi trovo?
Metto a fuoco. Due occhi azzurri mi stanno fissando. Sono grandi, felini, incorniciano un viso angelico dannatamente attraente. Un viso che tante volte ho disegnato nella mia mente prima di addormentarmi.
Che cosa ci fa lui qui? Che cosa succede! Com'è entrato?
«Dobbiamo portarla via da questo posto. Immediatamente». La voce di Anya arriva distorta alle mie orecchie ma la riconosco ed è carica di tensione, paura, agitazione. Scommetto che con lei c'è anche Mark. Non si spostano mai da soli. Sono davvero fortunati. Si sposeranno e saranno felici. Mentre io...
«Che cosa hai fatto?» ringhia freddamente Ethan.
Guardo confusa il bagno. La doccia aperta e la porta scorrevole piena di sangue. Quello... è il mio?
Non riesco ad elaborare una risposta sensata. Non riesco ad aprire bocca. Ho la gola secca, troppo secca. Ho paura che se la apro le mie corde vocali potrebbero spezzarsi. Lascio uscire una lacrima sentendomi uno schifo, un disastro. Non riesco a trattenermi. Come è potuto succedere tutto questo? Perché?
«Lei come sta?»
Anya prova ad entrare ma Ethan chiude la porta sbattendola e corre da me dopo averle ordinato: «non entrare».
«Perché? Ethan che cosa succede?» chiede allarmata.
Ethan chiude a chiave. «Dacci un momento, ok?»
«Ethan, che cosa ha fatto?» bussa ripetutamente.
Afferra un asciugamano togliendo le tracce della mia insicurezza, del mio dolore. Ma, non riuscirà a ripulire il mio cuore ferito. Per anni ho cercato di tappezzarlo con dei cerotti. A quanto pare non è servito a molto.
Si avvicina affannato. «Perché? Perché, cazzo!» afferra un altro asciugamano dopo avere infilato l'altro in una busta. «Perché l'hai fatto?»
I suoi occhi sono lucidi. Non sta piangendo ma... sembra spaventato. Avvicino la mano al suo viso. Questa ricade pesante. Non riesco a muovermi.
«Ethan, almeno dimmi se sta bene. Ti prego», Anya continua a bussare attendendo impaziente.
Ethan guarda la porta poi me. Di colpo mi stringe a sé passando i polpastrelli sulle mie guance umide. Questo suo gesto, il suo profumo, il suo calore mi fanno tremare.
Singhiozzo sonoramente quando le sue labbra si posano sulla mia fronte poi sulla mia spalla. «Ti porto via da qui», mi sussurra.
«Prendete tutte le sue cose», ordina ad alta voce usando un tono autoritario, freddo. Come se lo avesse sempre fatto.
«Portiamola a casa», dice di rimando Anya.
Casa? Io non ho una casa. Non ho più una casa da anni ormai. Vorrei tanto rispondere ma non riesco ancora a parlare. Mi agito soltanto.
Dopo qualche minuto, è Camille a bussare alla porta. «È tutto in auto. Non aveva molte cose. Alcune le stiamo portando all'appartamento», avvisa Ethan.
«Bene, arriviamo», replica scuro in volto.
Quando prova a toccarmi scuoto la testa divincolandomi. Questa è la prima reazione che ho dopo ore. Ma Ethan non ha paura. Sa che non voglio respingerlo veramente. «Ehi», sussurra per tranquillizzarmi avvicinandomi ancora a sé cautamente. «Non ti farò del male, ok?»
Esito ma i suoi occhi sinceri sono come scialuppe di salvataggio. Mi aggrappo con ogni briciolo di forza ad essi lasciandomi risucchiare dalle sue iridi.
«Portami lontano da qui», sussurro. Non riconosco neanche più la mia voce.
Che cosa ho fatto?
«Te lo prometto, piccola», risponde prendendomi in braccio.
Circondo il suo collo anche se stanca rannicchiandomi contro il suo petto caldo. Chiudo gli occhi prendendo conforto dal suo calore, dal suo profumo.
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