Capitolo 10
È una bellissima giornata di sole e di caldo, ma oggi mi sento come quando si pensa di essere arrivati ad un punto fermo prima di ritrovarsi ai piedi di un ponte traballante. Un ponte che non porta da nessuna parte. Un ponte che se porta da qualche parte, ti fa raggiungere un posto isolato e fatiscente, pieno di pericoli. Mi sento come se stessi aspettando qualcosa pur essendo certa che questa non arriverà mai. Controllo dalla finestra: forse un po' triste, forse improvvisamente sfinita.
Qualcuno bussa alla porta del mio nuovo quadratino che di mio non ha niente. Mi riscuoto e abbozzo un "avanti" balbettando. George si guarda attorno per controllare che io sia sola poi con un sorriso stampato sulle labbra si fa avanti. Allarga leggermente la cravatta e schiarisce la voce poggiando sulla scrivania un altro malloppo di carte. «Spero non ti dispiaccia occuparti anche di queste. Stai facendo un ottimo lavoro. Credo che l'altra ragazza abbia passato il tempo a giocare con il portatile.»
Prendo i fascicoli aprendo subito il primo. «Nessun problema capo!».
Il bello di George è che è un tipo tranquillo e positivo. Non si arrabbia mai ed entra sempre in ufficio di ottimo umore. L'unica pecca di questo suo comportamento è che tutti ne approfittano per fare altro anziché lavorare. Prova evidente il lavoro che sto recuperando a causa della segretaria precedente che ovviamente non lavorava. Con Parker era diverso, forse perché è autoritario, puntiglioso e tiene molto alle scadenze. Cerco di non pensare a lui.
«Ottimo lavoro Emma!», George se ne va fischiettando.
Ormai sono quasi quattro settimane che lavoro qui dentro. Non ho mai assistito ad un litigio e non ho mai visto persone scappare in lacrime. George non domanda mai un caffè e non sgrida le ragazze che dimenticano le scadenze. Mi domando se questo posto sia ancora adatto a me. Da giorni mi domando se dopo essermi laureata non sia il caso di trovare un posto altrove, magari in un altro ufficio, con un altro capo, lontano da qui, lontano da lui. Siamo ormai lontani eppure sono solo pochi metri. Non so se riuscirò a reggere ancora tutto questo.
«Toc Toc», Tea si fa avanti.
«Ehi», le rivolgo uno dei miei sorrisi di scorta e sposto il fascicolo. «Cosa ti porta qui oggi? Altro pranzo con il capo?»
Tea arrossisce. «È evidente?», domanda insicura.
«Molto!» Clicco stampa e la fotocopiatrice parte in automatico. Mi alzo e recupero il foglio impilandolo nella cartella. «Visto che vedi il capo, manda questa da parte mia. È l'ultima».
«Non vieni a pranzo con noi?»
«No. Vi lascio soli»
Tea sospira. «La prossima però accetti. Non pranziamo assieme da un po'. Mi farebbe piacere fare quattro chiacchiere con te.»
«Vai, non farlo aspettare», la spingo verso l'uscita.
«Lavori troppo!», mette il broncio.
«È l'unica cosa che mi fa rimanere sana di mente, credimi.»
Ridacchia abbracciandomi. «Ti voglio bene», se ne va.
Lascio uscire un sospiro. Da giorni Tea tenta di farmi andare a pranzo con loro ma l'idea di dovermi ritrovare a tavola in mezzo ad una coppia che chiaramente si ama, non mi fa sentire a mio agio. Non sono ancora guarita del tutto dalla delusione. Non so nemmeno se guarirò mai. Nonna in fondo aveva ragione: non devo dipendere dalle persone. Devo camminare con le mie gambe e farmi strada da sola. Alla fine se è destino, accadrà.
Mi incammino verso il ristorante. Siedo al solito posto e la cameriera che ormai mi conosce si avvicina con il menù. «Oggi c'è un'ottima lasagna», mi informa con gentilezza.
«Va bene la lasagna. Oggi non ho voglia di scegliere. Grazie!» dico ridandole il menù.
«E da bere?»
«Acqua va benissimo.»
Recupero il libro dalla borsa, mi immergo nella lettura ignorando i rumori circostanti. Il locale è davvero pieno e fuori l'afa è insopportabile. La cameriera porta un piatto fumante di lasagne e una bottiglia d'acqua. Ringrazio e mentre pranzo continuo a leggere tranquilla. Il continuo scampanellio emesso dalla porta, mi fa innervosire. Questo posto è davvero bello ma troppo rumoroso. Forse dovrei portare le cuffie e rilassarmi anziché fare finta di non sentire il continuo chiacchiericcio alle mie spalle. Sento delle voci maschili, delle risate, dei bambini che strillano, persone che si lamentano al telefono. È troppo. Mi rialzo con il libro in mano, pago e mi incammino verso l'uscita per evitare un attacco di panico. Un ragazzo mi urta facendo cadere il libro dalle mie mani.
«Scusi», dice imbarazzato porgendomi il libro dopo averne letto il titolo: Il richiamo del cuculo. Alzo lo sguardo e noto che è l'amico di Parker. In sua compagnia ci sono anche altri ragazzi ma non degno loro nessuna attenzione per non incrociare nessuno sguardo. «Non si preoccupi», uso un tono formale, giro sui tacchi ed esco dal ristorante.
L'aria è davvero asfissiante. Arrivo in ufficio accaldata e con una granita tra le mani presa durante il tragitto di ritorno per placare l'ansia. Non appena entro, non vedo la solita ragazza dietro il bancone della reception. Al suo posto c'è un ragazzo. Segue ogni mio movimento con gli occhi, deduco sia il nuovo arrivato e non ha idea che anch'io lavoro qui. Mi siedo dietro la scrivania dando una sistemata ai cassetti.
La giornata prosegue tranquilla. Non mi sento affatto a mio agio in questo nuovo ambiente. Non riesco a sentirmi parte dello staff, una vera squadra. George ha sicuramente bisogno di aiuto ma non so fino a quanto riuscirò a resistere prima di dimettermi. Ho già riempito i moduli e fatto domanda per qualche colloquio. Non è stato facile trovare degli uffici disponibili e con carenza di personale ma alla fine ne ho trovati tre con delle buone recensioni e con delle buone prospettive di retribuzione. Ovviamente mi serviranno delle referenze. George credo che potrà scrivere qualcosa in mio favore per aumentare le mie possibilità nonostante non mi conosca bene. Spero solo non faccia problemi. Penso di avere fatto molto per lui e in sole quattro settimane, credo sia il minimo per ricambiare.
Alzo lo sguardo dal portatile e noto che sono già le nove e mezzo. Ancora una volta, sono rimasta oltre l'orario di lavoro. Recupero le mie cose ed esco dall'ufficio. Chiamo l'ascensore e quando le porte si aprono entro e spingo il pulsante del piano terra distratta dal telefono dentro la mia tasca che continua a vibrare segnalando un messaggio in arrivo.
Lexa: "Dove sei?"
Emma: "Sto uscendo dall'ufficio. Ancora una volta ho fatto tardi."
Lexa: "Ti aspettiamo per la cena?"
Emma: "No, sono stanca. Penso che me ne andrò a dormire. Grazie lo stesso."
Sospiro infilando il telefono in tasca prima di vedere le porte dell'ascensore aprirsi prima del previsto. Entrano delle ragazze e poi anche lui. I nostri occhi si incontrano ma distolgo subito lo sguardo come quando ci si brucia con un mozzicone di sigaretta. C'è stato, c'è stato un secondo in cui ho sentito un dolore forte al cuore ma sono riuscita a placarlo in fretta. Devo uscire e immediatamente da questo arnese o non so quale reazione avrò. È stato come strappare un cerotto da una ferita ancora in fase di guarigione. Una ragazza mi saluta. Le rivolgo la mia attenzione e scambio due chiacchiere con lei nonostante non abbia la benché minima idea su chi sia. A quanto pare, tutte pensano che io sia stata trasferita perché ho ricevuto una promozione ma non sanno che in realtà sono stata punita, forse troppo e che con ogni probabilità me ne andrò da un'altra parte. Saluto la ragazza e velocemente esco dall'ascensore. Fuori trovo Lexa, appoggiata alla sua cabriolet. Ovviamente i suoi messaggi, erano una trappola. Indossa un tubino color rosa cipria ed è bellissima e perfetta. Mi avvicino a lei chiedendomi se ho un aspetto terribile ma non ho bisogno di domandare perché lo noto dal modo in cui mi guarda.
«Hai dimenticato l'appuntamento? Quel poveretto ci aspetta!», scandisce ogni parola ad alta voce.
Non so se reggere o meno il suo gioco. Lo fa spesso quando è arrabbiata e so che ha notato Parker alle mie spalle a qualche metro di distanza. «Si, scusami ho avuto parecchio da fare.» Cerco di non balbettare sentendomi subito in colpa per la menzogna.
Lexa si mette al volante mentre allaccio la cintura. Fa stridere le gomme e parte come una saetta. «Hai un bruttissimo aspetto!», brontola irritata.
«Anch'io sono felice di vederti. Ho passato una giornata pesante e noiosa. Stai anche tu molto bene. Non avevi un appuntamento con David?»
«Evita di scherzare signorina! Sei un disastro. Ho richiamato David per annullare, tu sei più importante. Adesso prendiamo qualcosa da mangiare, ci piazziamo davanti alla tivù, beviamo come se non ci fosse un domani e facciamo due chiacchiere. Sono giorni che eviti tutto e tutti come la peste!»
Non ho il tempo di rispondere. Svolta in modo pericoloso a destra facendo suonare parecchi clacson e poi si ferma per ordinare del sushi nel suo locale preferito e di fiducia. Non le dico che non amo il sushi, si sentirebbe in colpa e inizierebbe a farsi le paranoie sul fatto di essere una pessima amica da quando ha perso la testa per un uomo. Sono felice per lei e non voglio che si preoccupi per me, dovrei farglielo capire in qualche modo.
Entriamo nel mio appartamento, tolgo i tacchi con i piedi in fiamme e non appena li poso sul pavimento fresco mi esce un sospiro di sollievo. Ho bisogno di una doccia fresca per rilassarmi così mentre Lexa sceglie il film e sistema il divano per la nostra serata tra amiche, vado in bagno e mi getto sotto la doccia.
Torno in soggiorno in accappatoio, mi lascio cadere sul divano e avvio il film. Per fortuna Lexa ha scelto qualcosa di comico e leggero. Odio vedere film romantici in questo periodo, mi fanno ripensare a tutto quello che non ho e scoppierei inevitabilmente a piangere. Mangio contro voglia il sushi e quando non se ne accorge evito di toccare gli involtini guardandoli con una smorfia.
«Ok, è evidente che c'è qualcosa che ancora non so. Sei una pessima bugiarda, sputa il rospo!» incrocia le gambe e mi guarda attenta e in attesa.
«Ho richiesto dei colloqui in tre studi diversi, sto pensando di chiedere le dimissioni in ufficio. George è carino e gentile ma non...»
«Ma non è Parker», conclude la mia amica con una smorfia.
Mando giù un lungo sorso di birra e annuisco. «Spero sia disposto a scrivermi delle referenze prima che io me ne vada dal suo ufficio. La sua ex segretaria non svolgeva il suo lavoro e mi ritrovo sommersa da vecchi incartamenti è tutta la sua allegria, la sua positività, non giova sul mio stato mentale attuale. Sento il bisogno di andare avanti nonostante io abbia anche bisogno di chiudere il conto in sospeso. Non sarà facile ma non lo è mai stato nella mia vita, posso farcela.» Prendo aria perché sto parlando velocemente. Mi succede quando sono agitata e mando giù il resto della birra.
«Lavorerai per me i primi tempi, mentre aspetti di avere notizie sui colloqui. Potrei farti fare uno stage in agenzia come segretaria o come mio manager, dovrai solo rispondere alle chiamate e organizzare le mie giornate lavorative. Che ne dici?»
Spalanco la bocca e gli occhi. «Dici sul serio?»
Lexa annuisce e stappa la sua terza birra con un sorriso. «In più lavorerai per me e con me visto che sei anche molto richiesta. Ti ho detto che hai fatto colpo sull'ultimo fotografo? È un bocconcino...»
«Non so che dire», sorrido come una stupida ancora incredula.
«Dimmi solo che accetti e già da domani possiamo iniziare a sistemare le cose con il tuo capo. Tranquilla sarà un'occupazione temporanea. Lo so che lavorare nel campo della moda non è il tuo sogno.» Fa tintinnare la bottiglia con la mia.
Quando la mia amica si addormenta sul mio letto, un po' sbronza e stanca, per non svegliarla mi sposto in soggiorno, siedo sempre allo stesso posto, nella stessa posizione: davanti alla vetrata. Appoggio la tempia contro il vetro freddo e fisso le luci della città rannicchiata e abbracciata alle gambe. Sospiro un paio di volte e incapace di addormentarmi infilo una tuta ed esco a correre. Vago per le stradine isolate, passo per il parco, salgo sulla piccola collina, torno indietro a passo lento, con il fiato corto. Arrivo dentro casa all'alba. Lexa dorme ancora. Faccio una doccia per togliere di dosso la puzza di sudore e poi mi metto ai fornelli per la colazione. Prendo due pillole per non sentirmi sfinita e accendo la tivù mettendo il volume al minimo per avere un po' di compagnia.
Lexa si alza assonnata, con i capelli scompigliati e il trucco sbavato. È sempre bella anche in questo stato. «'Giorno», brontola.
Le porgo il piatto di pancake e torno sul divano. È ancora presto per andare in ufficio. Non che io abbia poi così tanta voglia di lavorare ecco.
«Hai dormito?»
«Si», mento. Per fortuna sono di spalle e non può vedere la mia espressione.
Vado a lavare i denti, mi trucco per nascondere i segni dell'insonnia e infilo qualcosa di comodo. Ultimamente opto sempre per un paio di jeans, una maglietta leggera ed elegante. Nessuno fa caso al mio abbigliamento e nessuno si lamenta.
Lexa mi da un passaggio. Accetto senza troppe obiezioni. Arriverò in anticipo ma avrò anche modo per elaborare un discorso da fare a George sul mio licenziamento. Devo strappare il cerotto, urlare, stare male e poi riprendermi.
Percorro il corridoio e il rumore dei tacchi si diffonde nell'ufficio quasi vuoto. Prendo del tè e dopo avere salutato il nuovo arrivato, che per specificare è uno stronzo con la puzzetta sotto il naso, mi siedo alla mia scrivania. Rispondo alle prime chiamate e segno gli appuntamenti con efficenza.
Neanche il tè ha lo stesso sapore in questo posto. Forse sto solo cercando un pretesto per andare via. In fondo, sono stata spostata come un pacco in questo posto pieno di estranei e senza il mio consenso. Posso andarmene se non fa per me e non perché non sono riconoscente ma perché non è quello che voglio.
Prendo il foglio delle dimissioni e conto fino a dieci poi trenta poi ricomincio. Inspiro ed espiro e quando sono del tutto calma, mi alzo dalla sedia, percorro il corridoio e busso alla porta nonostante le proteste del nuovo ragazzo che mi rincorre come un cane con la bava alla bocca.
«Avanti!»
«Scusi signore ma non poteva aspettare», interviene subito il nuovo arrivato, allarmato dopo essersi fiondato dietro di me nell'ufficio del capo. Credo sia spaventato. Ben gli sta.
Mi blocco un momento sulla soglia. Il mio cuore perde un battito alla vista di Parker seduto di fronte a George. Distolgo immediatamente lo sguardo da lui e drizzando le spalle fulmino il ragazzo che ha rovinato il mio momento e avanzo di un passo. «Non ho bisogno del tuo permesso!», ringhio costringendolo ad indietreggiare smarrito e mortificato. George gli da il permesso di dileguarsi.
Poggio il foglio sulla scrivania e fisso George con il cuore in gola. Se avessi un po' più di controllo, lo strapperei dal petto e lo lancerei dalla finestra per non sentire tutto quello che sto provando in questo preciso momento.
George legge il foglio e diventa rosso in viso e nervoso. Lancia uno sguardo al suo amico poi a me poi di nuovo al foglio. «Ti serviranno delle referenze...», borbotta a disagio. «Sei sicura?»
«Parleremo quando sarà libero signore. Finisco il mio ultimo turno se non le dispiace.» Esco dall'ufficio dove l'aria è tesissima e dopo avere fulminato nuovamente con lo sguardo il nuovo arrivato, sbatto la porta del mio quadratino facendo tremare i vetri.
Per fortuna mi salva dalla noia la chiamata inaspettata di Anya. Sono così contenta di sentire la sua voce.
«Sto facendo le valigie, non vedo l'ora!», strilla eccitata.
«Spero tu non voglia usare la mia lavatrice!», la prendo in giro.
Lei ridacchia e poi sospira. «Sono un disastro come moglie. Tu saresti migliore, sicuramente. Imparerò però e poi potremo sfidarci con le ricette.»
La immagino entusiasta di fronte un piatto di ali di pollo ben condite e inevitabilmente sorrido. «Io ci sto. Sai che adoro le sfide.»
«Come stai?»
«Me la cavo.» Faccio spallucce come se potesse vedermi.
«Verrai a prenderci tu vero?»
«Si, ho già sistemato tutto. Avrete l'appartamento al piano di sotto. Vi piacerà. Ho già pagato, non preoccuparti.»
La sento imprecare contro una cerniera e cerco di non ridere. «Va bene. Ti richiamo, è appena arrivato mio marito.»
Qualcuno bussa alla porta. Saluto Anya velocemente e dico "avanti". Tea sguscia in ufficio con sguardo vacuo. Si guarda attorno indecisa poi si siede con le mani in grembo. «George è venuto in ufficio. Sbraitava con Parker. Quando si è avvicinato, mi ha detto di passare subito da te, per farti ragionare ma non so per cosa.»
Mi irrigidisco e se ne accorge. «Tea io... Oggi ho presentato le mie dimissioni. Mi sono licenziata. Questo posto non è il mio e non riesco a concentrarmi. Ho bisogno di una pausa da tutto questo.»
«Non puoi!» strilla immediatamente alzandosi.
«Si invece! Mi ha scaricata qui come un pacco solo perché non riusciva a guardarmi negli occhi o ad avermi attorno ogni giorno dopo che è uscito da casa mia e dalla mia vita di sua volontà. Sto pagando le conseguenze ma non riesco più a resistere.» Prendo posto accanto a lei e stringo subito le sue mani.
«E cosa farai?», scoppia in lacrime. «Come farai senza lavoro? Dove andrai?»
Sorrido. «Troverò qualcosa. Ti aspetto alla mia laurea ovviamente.»
Tea sembra inconsolabile e scuote la testa. «Non voglio perderti Emma. Come faremo?»
«Ci incontreremo quando vuoi a pranzo. Usciremo qualche volta. Non preoccuparti di questo. Hai il mio numero per qualsiasi cosa.» Asciugo le sue lacrime.
«È quello che vuoi... quello che farai?»
Annuisco intristita. «L'ho già fatto...»
Tea si rialza abbracciandomi. «Spero di rivederti e lavorare ancora con te qui in ufficio. Ti voglio bene. Prenditi cura di te.»
Le do piccole pacche sulla spalla per calmarla. Non ho voglia di piangere o di assistere a dei brutti piagnistei. Quando se ne va, mi sento stanchissima e riesco a reggere a stento il nodo che ho in gola.
Raccolgo tutte le mie cose e in meno di dieci minuti sono fuori dall'ufficio con una scatola tra le braccia.
Mi fermo a pranzo e rivedo il piccolo Jason. Mi fa domande sulla scatola e spiego che non lavoro più in ufficio. Si preoccupa di non rivedermi ma lo rassicuro sul fatto che tornerò ogni venerdì solo per lui e che magari chiederò a suo padre di portarlo al parco o a qualche visita guidata. Voglio un gran bene a questo bambino e in parte è stato lui a farmi fuggire dal tunnel buio della disperazione in queste lunghissime settimane.
Dopo pranzo, cammino verso casa. Lancio le chiavi sul mobiletto, lascio cadere la scatola per terra e sfilo le scarpe. Apro il frigo prendo una birra e riempio la vasca di acqua e bagnoschiuma. Mi immergo rilassandomi per una mezz'ora.
Sdraiata sul letto, ripercorro mentalmente i colloqui da affrontare e organizzo al meglio la mia nuova agenda che per inciso è vuota.
Ecco come mi sento: sola, triste, senza speranze, vuota.
Il telefono vibra. Sono riuscita a sviare tutte le chiamate in segreteria ma non questa. Faccio un profondo respiro prima di premere il tastino verde.
«Ehi»
«Ehi», mormoro con il viso sul cuscino e in vivavoce.
«Non sei in ufficio?»
«No, mi sono licenziata. Alla fine deludo tutti, soprattutto me stessa. Era troppo da sostenere», sospiro ad occhi chiusi.
Sento il traffico di Las Vegas in sottofondo ma anche il respiro di Ethan. «Come stai?»
«Smettete di chiederlo per favore! Sto come devo stare. Sono ancora viva, è quello che conta!» Taglio corto irritata.
«Emma», so che è un rimprovero il suo. Lo capisco dal tono di voce che ha appena usato.
«Si, scusa. Non ho dormito e sono un po' nervosa e sensibile».
Lo sento sbuffare. Lo immagino mentre passa la mano tra i capelli e stringe il pugno come se si stesse preparando a mettere sottosopra il mondo. «Due giorni e arrivo!» È tutto quello che dice.
«Secondo te sono pronta?», domando più a me stessa.
«Ti senti pronta a fare questo passo? Lo hai già fatto quindi la risposta è ovvia!»
Nascondo il viso sotto il cuscino. «Che fai? Facciamo una passeggiata?»
«No, ti metto a dormire. Chiudi gli occhi e togli quel cazzo di cuscino dal viso!»
«Come fai... Ah lascia stare. Sei uno stalker, sono sempre più convinta», borbotto.
Ride. Questo fa sussultare il mio cuore e per un momento riesco anche a sentirmi in pace. «Non vedo l'ora di rivederti Emma. Mi manchi. Dormi adesso...», mormora. «Ti amo».
Non rispondo. Sono già in bilico e il sonno prende il sopravvento.
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