Parte 14

Franz si stava rilassando al piano suonando un po' di Carl Czerny, quando venne interrotto dal suo smartphone che gli segnalò un messaggio in entrata. Era Elisabetta. Il messaggio recitava: "Alloooora?!! Sei alla maison???"

Lui preferì telefonarla, non andava molto d'accordo con le chat.

«Che fai? Mi stalkeri?» Chiese lei. Franz non capì se stesse scherzando o dicendo sul serio. Questo tipo di humour creava spesso equivoci e situazioni ambigue.

«Senti, casa mia è un po' fuori mano, diciamo che è immersa nei boschi, e non è un eufemismo. Se vuoi ci possiamo trovare da qualche parte e poi mi segui adagio adagio con la tua vettura.»

«Adagio adagio con la mia vettura.» Lo scimmiottò. «Ma come cavolo parli? No, no, non ti preoccupare, tu mandami le coordinate geografiche e io vedrò di atterrare in zona con il mio elicottero.»

«D'accordo. Allora avverto i domestici e lego i cani.»

«Che fai?»

«Niente, è un modo di dire... non ho cani.» Si giustificò. 

«E nemmeno domestici voglio sperare, anche se sembri proprio il tipo da averli. A dopo stramboide.» La comunicazione venne interrotta. 

Una mezz'oretta più tardi, il povero Carl Czerny venne interrotto di nuovo, stavolta dal campanello, che aveva iniziato a suonare all'impazzata. Poteva essere solo una persona.

«Che combini?» Gli chiese, infilandosi per direttissima in casa senza nemmeno rivolgergli uno sguardo o un saluto.

«Stavo suonando...»

«Cosa suoni?»

«Il pianoforte.»

«Wow, non ci credo!» Esclamò tutta entusiasta.

«Non sei obbligata.» Replicò lui. 

«Io adoro il piano. Lo metto solo dietro al violino nella mia classifica personale di strumenti preferiti. Cavolo, avrei tanto voluto imparare a suonare uno strumento, ma ormai credo sia troppo tardi.»

«Non è mai troppo tardi per iniziare a fare ciò che si ama.»

«Si che lo è.» Disse con cupa rassegnazione. «E da quando suoni? Dimmi.»

I due nel frattempo avevano lasciato l'ingresso per raggiungere il salotto. Franz si sedette al pianoforte, sul suo elegante sgabello nero e lucido, mentre fece segno a Elisabetta di accomodarsi pure dove preferiva. Lei prese una sedia dal tavolo e si piazzò di fronte a Franz, intenzionata ad ascoltarlo. Mise però la sedia la contrario, incrociando le braccia sullo schienale, e posando il viso sulle braccia.

«In realtà ho ripreso da poco. Da ragazzino andavo a scuola di musica. La frequentai per tre anni e mezzo, di cui un anno passato a studiare solo teoria: solfeggio e cose simili. Poi, quando le cose cominciarono a farsi serie e il mio maestro iniziò a palesarmi la prospettiva del conservatorio, mollai tutto.»

«Cosa?» Urlò incredula. «Ma perché mai?!»

«Non lo so, io faccio così, tendo ad auto-sabotarmi, te l'ho detto. Quando sto per avere successo in qualche impresa trovo sempre il modo di fare fiasco. È così... a quanto pare non voglio essere felice. O forse sono felice quando non sono felice.» Realizzò, premendo sul pianoforte il Do all'inizio della seconda ottava.

«Ma poi hai ripreso a suonare.» Proseguì lei speranzosa. «Cosa ti ha spinto a voler ricominciare?»

«Un regalo.» Ammise. «Sai, dopo aver abbandonato la scuola di musica e ogni prospettiva ad essa correlata, convinsi mia madre, che inizialmente si oppose, a vendere il pianoforte. Io faccio così, con le cose e con le persone. Quando non mi servono più per raggiungere i miei scopi cerco di liberarmene. Sono un tipo da tutto o niente, non conosco le mezze misure.» Riconobbe, sorprendendosi di questa sua lucida autocritica. Sembrava stesse conoscendo se stesso man mano che si rivelava a lei.

«E poi?»

«E poi, un po' di tempo fa, una persona speciale mi ha regalato un pianoforte.»

«Cavolo! Dev'essere qualcuno che ci tiene molto a te. Per quel che ne so io, un piano, anche solo minimamente discreto, può costare un botto.»

«Già.» Concordò.

«E allora? Chi è stato il misterioso artefice del dono? I tuoi genitori o un'ammiratrice segreta?» Gli chiese ammiccando.

«No, figuriamoci.» Rispose, con un sorriso beffardo. «È un regalo di mio zio, che purtroppo non c'è più. È venuto a mancare a causa di un tumore. Sapeva quanto mi piacesse suonare e aveva questo meraviglioso e antiquato pianoforte a casa sua. Mi costringeva sempre a suonargli qualcosa quando lo andavo a trovare. Andava pazzo per Brahms...»

«E te l'ha lasciato in eredità, il piano?»

«Si, è così.»

«Davvero un bel gesto.» Ammise lei, un tantino commossa.

Elisabetta avrebbe tanto voluto consolare il giovane e sconfortato pianista, ma non aveva proprio idea di come risollevargli il morale. Poi ebbe un'intuizione.

«Dai, suonami qualcosa.» Disse decisa, indicando lo strumento alle spalle di Franz. 

Breve precisazione del narratore: dovete sapere che quando chiedete a un musicista di suonarvi "qualcosa", di solito nella sua mente si forma il vuoto cosmico.

«No, dai. Non suono da tanto per qualcuno. Sarebbe un disastro.»

«Chissenefrega.» Lo incoraggiò accompagnandosi con un gesto plateale.

«Non saprei nemmeno cosa suonare, non conosco i tuoi gusti.»

«Fai te. Una cosa qualsiasi, dai. Anzi, non una cosa qualsiasi.» Si corresse. «Suona quello che ti piace di più.»

Franz acconsentì di malavoglia. Fece una piroetta sullo sgabello dando così le spalle a Elisabetta, e posizionò le mani sullo strumento. Si prese qualche secondo per raccapezzarsi e fare mente locale cercando di scovare nella sua memoria dei pezzi che fossero orecchiabili e che potessero essere apprezzati anche da qualcuno non proprio avvezzo alla musica classica. Poi iniziò a muovere le mani con coordinazione e leggerezza.

Suonò Fuga in Do maggiore (bwv 564) e Preludio in Mi maggiore (bwv 854) di Bach, il primo movimento dalla Sonata per pianoforte no.8 in La maggiore (kv 310) di Mozart e, per concludere in bellezza, il primo movimento dalla Sonata per pianoforte "Waldstein" no.21 in Do maggiore, di Beethoven.

Elisabetta osservò, anzi, ascoltò per tutto il tempo in religioso silenzio, assai stupita dal vedere Franz così concentrato e a suo agio in quel mondo fatto di tasti bianchi e neri. Quando il giovane terminò la sua esibizione, lei non poté far altro che prorompere in un fragoroso applauso.

Iniziò poi a curiosare nel salotto, girovagando blanda e rivolgendo lo sguardo qui e là. Si lasciò sulla destra il tavolo in legno massello su cui troneggiava un Bonsai ficus ginseng nel suo vaso di ceramica, oltrepassò lo spazio ludico che abbiamo già conosciuto in un precedente capitolo, quello con tv, tavolino in vetro e divano, e si diresse in fondo. Lì in un angolo c'era un'ampia scrivania sulla quale giacevano ammassati quaderni, libri, spartiti, altri libri e altri spartiti e, sul lato opposto, la fornitissima biblioteca di Franz che, composta da ben sei scaffali, ospitava tanti di quei libri, tomi e volumi da sembrare sul punto di crollare.

«Uh, uh, vediamo un po' cos'hai qui.» Disse Elisabetta, finalmente giunta a destinazione. Iniziò a indagare prendendo dei volumi, sfogliando qualche pagina, e rimettendoli poi al loro posto. «Ci sono un sacco di testi sacri. Non ti facevo un tipo religioso.»

«Più che religioso diciamo che sono un appassionato di religioni, ecco.» Replicò lui che nel frattempo l'aveva raggiunta. «Sono davvero avvincenti sai, tutte quelle storie antiche su personaggi dalle eroiche gesta come Mosè, Gilgamesh, Giobbe, Noè, Buddha... Lo sapevi ad esempio che Mosè era balbuziente?»

«No. È una cosa che ignoravo, mea culpa, me ne farò una ragione.»

«Sono personaggi davvero straordinari, mi affascinano tanto.»

«Fin quando non ti convincono a farti saltare in aria o a dirottare qualche aereo per me va bene.»

«Percepisco una punta di sarcasmo.»

«Il tuo discernimento mi colpisce ogni giorno di più. Io odio le religioni. Tutti quei tipi con vestiti pomposi che ti giudicano e ti dicono cosa devi fare per finire al paradiso piuttosto che all'inferno. Si sentono tanto giusti loro, e poi nella maggior parte dei casi vieni a sapere che come minimo sono dei luridi pedofili.»

«Non è sempre così. E poi secondo me andrebbe fatta una distinzione tra le istituzioni religiose e il credo in sé, così come viene esposto nei testi sacri. Comunque, non voglio mica convertirti.» Lasciò morire la cosa.

Elisabetta continuò nella sua attenta disamina di quella libreria, cercando di carpire il senso dietro alla disposizione dei libri. In realtà non c'era alcun senso. I libri non erano disposti né in ordine alfabetico, né secondo criteri tematici. Forse si trovavano semplicemente nell'ordine cronologico in cui Franz li aveva letti, dal primo all'ultimo, ma neanche lui avrebbe saputo dire se fosse esattamente così. Difatti sul terzo scaffale potevi trovare John Steinbeck con "La valle dell'Eden", e poi sul primo scaffale avresti trovato di nuovo Steinbeck, ma stavolta con "Uomini e topi."

«Non ci credo che questo sei riuscito a finirlo!» Esclamò poi Elisabetta prendendo "Moby Dick" di Herman Melville.

«A dire la verità l'ho letto per intero un paio di volte.»

«Tu non stai bene.»

«Ebbene sì.» Confermò Franz.

«Questo è un testo impossibile da leggere, è veramente assurdo.»

«Si, ma se non ti soffermi...»

«Capitoli interi con descrizioni di megattere, baleniere e spermaceti.» Lo interruppe decisa. «Pagine e pagine sulla conformazione della calotta cranica dei capodogli.»

«Si.» Provò a dire Franz con un tono accondiscendente. «Ma se vai oltre...»

«E poi? Il nostro caro Herman conclude la sua folle digressione anatomica da vero esperto del settore, affermando che la balena è un pesce e non un mammifero. Ma siamo seri?» Concluse, lanciando con un moto di stizza quel libro nelle mani di Franz, che lo risistemò al suo posto maneggiandolo con estrema cura, come se si trattasse di una santa reliquia.

«E questo?» Chiese poi, reggendo in mano "Orgoglio e pregiudizio", di Jane Austen. «Pensavo fosse una lettura molto femminile.»

«Ah sì? Allora non me ne sarò accorto. Comunque sia la mia parte donnesca si è molto divertita leggendolo.» Riuscì a strapparle un insperato sorriso.

«È il mio libro preferito sai? Tutte quelle emozioni intense e contrastanti, così ben descritte. E i personaggi poi, che mutano profondamente nel corso della narrazione. Ogni volta che lo leggo è in grado di trasportarmi in un'altra epoca.»

Franz era a dir poco sorpreso, era la prima volta che quella ragazza stava esternando un barlume di sentimentalismo.

«E qual è il tuo invece? Il tuo libro preferito.» Gli domandò in modo inaspettato.

"Una domanda molto personale", pensò il giovane, che in un'altra circostanza non avrebbe mai risposto a quel quesito, tuttavia ora aveva paura di rompere la piacevole atmosfera.

Senza nemmeno guardare, mostrando di conoscere a memoria la disposizione della sua biblioteca, un po' come Jorge da Burgos nel romanzo di Umberto Eco, prese dal quarto scaffale "Il conte di Montecristo" di Alexandre Dumas. Lo prese con grazia e lo reggeva con l'attenzione con cui si regge un lattante. Elisabetta non poté fare a meno di notare quella sorta di devozione nei confronti di quel testo.

«E allora? Spiega.»

«Beh, qui dentro c'è tutto.» Disse. «Tutto quello che hai bisogno di sapere sulla vita, sul senso della vita, è qui dentro. Amore, amicizia, perdono, misericordia, odio, vendetta, divina provvidenza... tutti i temi più importanti che si possano menzionare sono trattati, anzi, sviscerati, in questo epico racconto.»

Elisabetta avrebbe voluto interromperlo per rivolgergli alcune domande ma dovette trattenersi. Notò che il giovane era sempre più rapito in una sorta di estasi mistica man mano che rievocava il contenuto di quelle pagine.

«E poi è un romanzo d'avventura, c'è tanta azione, duelli, gesta cavalleresche che tengono sempre viva l'attenzione del lettore... e si parla perfino di droghe, pensa un po'. È davvero il romanzo per eccellenza, il re dei libri.»

«Nah, non mi convince.» Disse seria. Dopo qualche secondo però, dovette cedere ad una sincera risata, avendo visto la faccia scandalizzata di Franz. «Mi hai incuriosita, sai. Me lo presti?»

Lui rimase di stucco. Non aveva mai prestato un libro a nessuno. Aveva prestato dei dvd, certo, molti dei quali non erano mai ritornati a casa dal legittimo proprietario, ma libri no, mai. Elisabetta aveva posto quella domanda con leggerezza, non rendendosi conto della serietà della cosa.

«Allora, me lo presti o no?» Gli chiese di nuovo, scippandogli il libro dalle mani.

«Io... io non ho mai prestato un libro a nessuno.» Biascicò.

La giovane sospirò e fece ruotare gli occhi con un'espressione seccata, ma poi rimise il libro al suo posto.

«Allora vorrà dire che non lo leggerò. Avrai la mia cultura sulla coscienza.»

I due a questo punto si accomodarono alla scrivania, dove Franz aveva già preparato il notebook e alcuni fogli per annotare i risultati delle loro indagini. La loro ricerca avrebbe dovuto parlare dell'influenza di Caterina de' Medici sulla cucina francese.

«E così ti chiami Franz...» Continuò poi lei, che non pareva proprio intenzionata a studiare.

Il nostro giovane protagonista, sapendo già dove sarebbe andato a parare quel prevedibile scambio di battute che si stava prospettando, evitò di rispondere, mostrandosi addirittura scocciato dalla domanda.

«Trovo sia un bel nome. Lo stesso di Kafka...» Disse, sfogliando distrattamente alcuni spartiti. «E poi c'è Franz d'Epinay, del Conte di Montecristo.»

Franz rimase a bocca aperta.

«Ma allora mi prendi in giro!» Proruppe con un gesto di stizza. «Se l'hai già letto perché hai finto il contrario? Volevi mettermi alla prova?»

«Qualcosina avrò letto, ma sì, dai...» Gongolò, con un ampio sorriso sul volto. «E non dimentichiamo i Franz Ferdinand! Sono una delle mie band preferite.» E poi iniziò a canticchiare: «I love the sound of you walkin' away, you walkin' away...»

E Franz in tutto questo se ne stava lì, seduto composto, facendo attenzione a non perdersi nemmeno un secondo di quello spettacolo. «Io non ho parole...» Riuscì poi a dire.

«È un nome importante, faresti meglio a non deludere le aspettative.» Sentenziò Elisabetta, inclinando la testa e fissandolo di sbieco con un'espressione minacciosa.

«In realtà è la cosa che mi riesce meglio, te l'ho già detto. Ma quando parlo mi ascolti o pensi ad altro?» Le chiese infastidito.

«Forse questo passaggio me lo sarò perso, chiedo umilmente perdono.»

«Diciamo che quando mi accorgo che le persone si aspettano che faccia qualcosa, tendo a fare esattamente il contrario.» Si confidò con naturalezza.

«Capisco.» Annuì, come se sapesse esattamente di cosa stava parlando. «Comunque il tuo nome non ti rappresenta, sai?» Cambiò argomento. 

«In che senso?»

«È così sontuoso, imponente, tu invece sei mingherlino. Insomma, non puoi di certo godere di una presenza intimidatoria, senza offesa, eh. Potevano chiamarti diversamente, magari, non so... Almerino.»

«Dubito che i miei genitori potessero figurarsi dalle ecografie prenatali quale sarebbe stata la mia costituzione fisica.»

«Già, è improbabile.» Dovette ammettere lei, che però continuò con le sue osservazioni. «Anche la tua voce stona un po' col tuo aspetto, sai?»

«Perché mai?» Protestò, sbuffando con impazienza.

«Mmm, non lo so, hai questa voce profonda e impostata, troppo aristocratica, fa un po' signorotto del tardo medioevo.»

«Probabilmente, crescendo, la voce si sarà adattata al nome ok? Hai altre brillanti osservazioni da fare?»

«No, per ora no.»

«Allora studiamo.» Concluse Franz, girandosi verso il computer.

«Anzi, ora che ci penso bene, anche il tuo cognome è originale: Campitelli... mai sentito, non sembra originario del sud Italia.»

«Non lo è infatti. Ma tu devi per forza approfondire tutto in questo modo?»

«Eh sì, è la mia condanna. Odio la superficialità, mi piace andare a fondo nelle cose, alla loro radice. E poi le parole, intendo dire tutte le parole, hanno un fascino particolare, non trovi? Vorrei conoscere la storia di ognuna.»

«Beh, allora ti illumino.» Accondiscese. In quel momento, assecondarla gli parve il modo migliore per chiudere il discorso e dedicarsi allo studio. «Il mio cognome dovrebbe derivare dal nome di una località, ed è diffuso soprattutto nel maceratino e nel chietino. Inoltre, sembra che fosse presente proprio a Macerata fin dal millesettecento, con un tal Vincenzo Campitelli, di nobile famiglia.»

Passò qualche secondo senza che nessuno si prendesse l'onere di mettere fine a quella curiosa pausa.

«Visto?» Aggiunse poi Franz. «Anche a me piace andare a fondo nelle cose.»

«Lo sapevo che avevi origini nobiliari.» Notò con rassegnazione lei. «Che schifo.»  

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