Cap. 16
I piedi pulsavano dentro le decoltè nere. Erano le prime scarpe col tacco che mettevo. Ormai la musica copriva il rumore che facevano mentre mi affrettavo tra un tavolo e l'altro.
A inizio serata Nicholas mi aveva ripetuto nuovamente che io avrei servito i tavoli in platea e che sul più tardi avrei dovuto segnare in una piccola agendina il colore della rosa sul tavolo; ogni colore indicava una delle ragazze che in questo momento stavano ballando sul palco.
Vidi un uomo, sulla trentina probabilmente, alzare una mano fissandomi, così mi diressi in fretta verso di lui con il vassoio vuoto sotto il braccio.
-Fra quanto inizia l'after?
-A breve signore, tra non più di quindici minuti.- affermai guardando discretamente il colore giallo della rosa e annotando mentalmente il numero del tavolo.
-Sarai presente anche tu?
Il mio cuore perse un battito e iniziò a galoppare per la sorpresa e per l'ansia di non sapere cosa avrei risposto.
-Oh..io..beh...in realtà io..- perché quell'uomo aveva chiesto se sarei stata presente anche io?
Per l'after party gli uomini che avevano pagato per la compagnia delle ballerine, indicando la loro preferenza col colore della rosa, si spostavano in una sala più appartata e potevano continuare a bere e chiacchierare con le ragazze, senza sfociare nella volgarità. O almeno è quello che mi aveva detto Nicholas.
-No..non credo signore.- risposi imbarazzata dal mio piccolo attacco di panico.
-Peccato.- mi sorrise e si alzò, lasciandomi una bella mancia.
Lo guardai allontanarsi, quando finalmente mi riscossi e portai di fretta le ordinazioni a Derek, che mescolava cocktail da dietro il bancone. Alzò lo sguardo e subito si dipinse un'espressione interrogativa sul suo volto, così lo precedetti:
-Niente di che. Un cliente mi ha appena domandato se avrei partecipato all'after. Ovviamente ho negato.-
Rendendomi conto di quanto sciocca e infantile dovessi sembrare mostrandomi sconvolta per quella cazzata, aggiunsi:
-È solo che non me lo aspettavo..
-Interessante, devo riferirlo a..
-Ehi, tesoro! Sono pronte le nostre ordinazioni?- sentii chiamare da lontano e subito mi voltai col miglior sorriso falso che potessi avere, raccogliendo le birre dal bancone, ponendole sul vassoio e avviandomi verso le persone sedute al tavolo del tizio che mi aveva chiamata.
Un'ora dopo ero seduta sullo sgabello di una toilette delle quinte in biancheria intima, mentre provavo a togliere il trucco che Teresa mi aveva applicato con tanta cura. Tuttavia non riuscivo a farlo andare via. Poco tempo prima il locale si era svuotato, sia in platea sia sui soppalchi e io avevo pulito il tutto, fin quando Derek non mi aveva detto che potevo staccare. Adesso erano le 2.05 di mattina e credevo che avrei passato l'intera notte a sfregarmi la faccia con quel fazzoletto di carta, nella speranza di eliminare il nero dai miei occhi.
-Devi utilizzare dello struccante, altrimenti non andrà più via.
Alzai lo sguardo dal mio volto e vidi il riflesso di una ragazza dai capelli color rame. Aveva lievi lentiggini sul naso e indossava una comoda tutta. Si avvicinò e prese un flacone che era proprio sul tavolino della toilette, lo aprì e ne versò un po' il contenuto cremoso sul fazzoletto che avevo in mano prendendolo. Con un dito costrinse gentilmente a rivolgere la mia faccia verso di lei che si chinò su di me.
-Chiudi gli occhi.
Obbedii.
La sentii picchettare lievemente su tutta la pelle del mio volto, mentre a volte avvertivo alcune sue ciocche di capelli solleticarmi il collo o il seno. Provavo una strana sensazione nel ricevere le sue attenzioni e nell'essere trattata con tanta gentilezza da un'estranea, tuttavia era molto piacevole e sentii i miei muscoli resi rilassarsi.
-Grazie mille.- dissi davvero riconoscente quando finì, anche se il tono della mia voce risultava freddo.
-Tranquilla, è bello aiutare quella nuova. Spero che tu rimanga a differenza dell'ultima.- rispose con un sorriso.
-Già, lo spero anche io.- sussurrai sommessamente, mentre la ragazza dai capelli color rame si allontava silenziosa come era venuta.
Mi alzai e scalza mi indirizzai verso lo stand per posare la mia divisa, se così la si poteva chiamare. A ogni passo il freddo trapassava la carne dei miei piedi, giungendo fino alle ossa e propagandosi per tutto il resto del corpo. Mi rivestii con molta calma ed esaminai il mio stato d'animo. Ero stanca, ma allo stesso tempo appagata. Moderatamente contenta, ma il vuoto all'altezza del petto non voleva andarsene,come al solito. Presi l'erba dalla tasca della mia logora giacca e senza avvertire nessuno uscii dalla porta sul retro del locale. Rullai e accesi la promessa di un po' di serenità mentale mentre mi indirizzavo verso il ghetto.
Tuttavia, a metà strada, decisi che non volevo ancora tornare a casa. Volevo stare da sola a riflettere o magari a non pensare a niente.
I tiri mi bruciavano la trachea e il fumo smorzava l'aria che mi entrava nei polmoni, ma continuai a camminare.
Gettai il filtro della canna ormai finita, quando giunsi nel piccolo parco dove andava di solito Sam. Cercai una panchina e mi ci buttai sopra senza tanti complimenti. Il rumore del traffico giungeva sordo e attenuato; lo smog era minimo, tanto da permettermi di poter vedere le stelle. Una miriade. O forse ero io a vederle doppie, magari triple. Ma andava bene così.
Vuoto. Finalmente. Vuoto nella mia testa, un vuoto che riusciva a riempire il vuoto nel mio petto, così da non percepirlo. Sapevo che cosa era quella sensazione che mi spiazzava di continuo il cuore. Benché avessi persone che mi volessero bene, soffrivo indubbiamente di solitudine ed ero solo io a saperlo. Dovevo essere solo io. Non avrei mai fatto capire a Sam o Tom o anche alla stessa Julie che, nonostante il loro affetto, io mi sentivo tremendamente sola. E il dolore si diffondeva quando mi rendevo conto che neanche io sapevo perché provassi ciò. Perché mi sentissi sola.
Sdraiata sulla panchina e sotto i fumi dell'erba, sentii la temperatura diminuire con lo schiarirsi del cielo, quando a un certo punto mi venne in mente il viso dell'ultima persona che mi sarei aspettata: Jude.
Il suo sorriso, i suoi capelli, la sua barba non fatta, il naso e le pieghe attorno agli occhi. La sua voce, le sue forti braccia che mi stringevano. Il rossore sulle sue guance quando facevo qualcosa di sconsiderato, il suo profumo che mi avvolgeva come una calda coperta. Le sue mani affusolate che accendevano una sigaretta, che sfogliavano le pagine dei libri dai quali studiava, le sue lunghe dita che sfioravano i miei tatuaggi, che accarezzavano le mie braccia, che mi stringevano i fianchi, la vita, salivano e si intrecciavano dietro al mio collo con i pollici sulle mie guance. Le sue labbra così vicine che accarezzavano le mie, il suo caldo respiro che mi faceva ansimare, tremare, desiderare, scaldare. Mi formicolò lo stomaco, stavo stringendo le mie mani attorno alle sue braccia e mi ero piegata per colmare quella insopportabile distanza.
Ma mi accolse solo un dolore lancinante alle costole. Grugnii sollevandomi da terra e sgrullandomi di dosso la polvere e il terriccio; poi gettai un'occhiataccia alla panchina, come se fosse stata lei a spingermi a terra e a svegliarmi dal mio sogno drogato.
Il sole era ormai alto anche se nel parco non vi era nessuno. Così, ancora rossa in viso per l'imbarazzo dei miei pensieri, mi diressi verso casa a passo spedito.
Non potevo permettermi quei pensieri, non potevo permettermi di essere debole e accogliere qualcuno di così candido nella merda che era la mia vita, nel buio che era il mio passato.
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