Capitolo 26

Il detto tale madre e tale figlia, non mi piace. L'affibbiare i meriti di Rachel alla mia persona è sbagliato. Sbagliato perché lei di meriti ne ha pochi e niente. Ha molti difetti e non smette mai di spalarmi la sua merda addosso. Ci sono abituata e l'accetto ma non la condivido. Jackson mi guarda sbigottito, forse si domanda della mia non reazione. Ma a che pro? Domani sarò di nuovo tra le mie quattro mura e questo giorno sarà dimenticato. Non ho voglia di spiegare e lui non capisce.

«Come fai a sopportare tua madre?» Domanda appena prima di iniziare a cenare.

Fisso le posate. Indecisa se spiegargli o meno. Sostano a lato dei piatti elegantemente decorati. Rigorosamente d'argento. Il meglio per lei. Giocherello col tovagliolo di stoffa e lo stendo sopra le mie gambe. Il Paradise Club è davvero un paradiso. Il regno dei cieli dell'eleganza. I tavoli di legno massello vengono rivestiti da tovaglie color avorio in seta, le sedie dallo stesso tessuto e alla spalliera portano un velo che richiama quello della sposa. Migliaia di lucine bianche e d'argento decorano la flora che campeggia in quel giardino immenso. I camerieri in livrea, impeccabili, svolgono il loro lavoro con maestria. Ma a rendere tutto magnifico è l'atmosfera. La musica in sottofondo, l'aria frizzante della sera appena iniziata, gli uccelli, i grilli che cantano e friniscono e l'amore che mi colpisce a ondate.

«In realtà non la sopporto. Credo mi sia indifferente. L'hai vista no?» Asserisco distrattamente.

«Sì. L'ho vista. E non mi piace. Ti tratta come un'adolescente.»

«Ok. Basta parlare di mia madre. Sei qui per farmi da spalla, giusto? Allora aiutami a sbronzarmi per bene! »

Senza ribattere mi riempie il bicchiere. Una prima volta. Alla sesta volta mi rendo conto di dovermi fermare. La vista è sfocata, i sensi non sono più all'erta e il cibo ingerito non assorbe tutto quello che bevo. La cena si svolge in silenzio. Jack non mi rivolge la parola e nessun commensale pare voglia fare conversazione. Solamente qualche altra ora e tutto questo finirà nel dimenticatoio.

L'alcol inibisce i miei pensieri che galoppano velocemente. Questo astio continuo con Rachel mi corrode fino alle ossa. È patetica, io sono patetica, la situazione lo è. Potrei voltare le spalle e non girarmi mai più nella sua direzione. Potrei sprecare fiato per parlare. Potrei urlare, piangere e tremare, ma sarei sempre la solita Beverly balbettante. Il problema da risolvere. L'incognita da nascondere. La ragazzina non considerata. Il punto dopo la virgola: inutile e non necessario.

Gli occhi mi pizzicano per le lacrime che vorrei versare, ma con un respiro profondo le caccio via da dove sono venute. Asciugo le mie labbra unte al tovagliolo e lo riposo sopra il tavolo.

«Jack, balliamo?» Domando con sicurezza. Quella sicurezza che non ho, ma che fingo di possedere.

«Eh? Sì. Se vuoi. Balliamo.»

Mi prende per mano e ci rechiamo in un angolo della pista poco illuminato. Ondeggio leggermente poiché il torpore che infligge il vino penetra in tutto il mio essere. Jack mi stringe a sé con un braccio, mentre l'altra mano porta la mia vicino al suo cuore. Poggio la testa sul suo mento e mi guida in un lento dolcissimo. Rimaniamo fermi al nostro angolo muovendoci sul posto. Prima a destra e poi a sinistra. Così all'infinito. Almeno è quello che sembra. Quel dondolarsi a occhi chiusi fa aumentare il battito del mio cuore. Sposto il viso a contatto con il suo, posandomi sulla sua spalla e lui porta l'altra mano, che tiene la mia, dietro la mia schiena. Per stare più vicini gli cingo il collo e inalo il suo odore.

Questo momento non ha difetti, meglio di così non può essere vissuto, è la perfezione delle emozioni. Qualcosa che effettivamente non esiste nella realtà, ma ahimè solo platonicamente. Devo ricordare costantemente che si atteggia garbatamente solo per aiutare un'amica. O meglio, per fare un favore alla richiesta della cugina. M'irrigidisco impercettibilmente e lui s'accorge del mio cambio d'umore. Si scosta e mi fissa annebbiato.

«Tutto ok?» Sussurra con voce arrochita.

«Sì certo.» Rispondo con voce piccata.

I suoi occhi sono fissi nei miei e io non riesco a sviare quest'assalto. Umette le sue labbra e mi distraggo. Perdo quel briciolo di razionalità che si trova in fondo alla mia anima e avvicino lentamente il mio volto al suo. I respiri si mischiano. Gli odori si amalgamano. Le mani stringono. Le braccia arpionano. I nasi si sfiorano. Le gambe si fermano. Le labbra, finalmente, si assaporano. Con calma, con parsimonia, quasi a ricordare la delicatezza di un bambino. Il fiato si blocca in gola per poi espirarlo repentinamente. Il calore della sua bocca è fuoco durante un incendio. L'aria che passa tra le sue labbra è acqua per gli assetati. La lingua, che piano saggia il mio sapore, è medicina per gli ammalati. Cattura la mia, ne fa la sua casa, la respinge, poi la riprende, la succhia e il suo sapore dolce mi tramortisce. Dimentico dove sono, i problemi, ciò che mi fa male per dare spazio alla risolutezza del momento. Inquadrando e zoomando noi, ora, qui, insieme. La passione prende il sopravvento. Da casto a demoniaco, da angelo a diavolo, da tranquillo a convulso, il bacio prende forma. Niente costrizioni, nessuna paura di sbagliare, solo io e lui. M'insegna a lasciarmi andare, a farmi guidare, ad allentare le redini della sicurezza a favore del caos.

Lui, il mio caos personale.

Il momento in cui capisci che vivere è bello. Lasciarsi andare è bello. Diventare un tutt'uno con le emozioni è stra-bello.

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