Capitolo 1
«Non fare cazzate Cata» disse Aaron entrando in cucina.
«Tranquillo, non gli pianterò una pallottola nel cranio» replicai ridendo e prendendo un bicchiere di succo.
«Ci vai sul pesante eh? » continuò ridendo sotto i baffi e stringendo uno strano oggetto a cui teneva tanto.
«Sai cos'ha fatto quel bastardo. Non la passerà liscia anche questa volta» conclusi buttandomi pesantemente sul divano.
«Se volevi fare la killer incappucciata, non ti mettevi in questo bel casino» disse Ross scendendo le scale «Walker seguimi» continuò facendogli cenno «Celere» ed Aaron si girò verso di me facendo spallucce, con uno sguardo che indicava che, quella di oggi, non era affatto una buona giornata.
Eppure non capivo perché Phil dovesse fare così lo stronzo. Era uno di quelli che conosceva bene la mia storia, sapeva bene cosa avevo passato da bambina. Sapeva perché e grazie a chi avevo intrapreso questa assurda vita. E invece di non so, preoccuparsi, faceva lo stronzo come nessun altro. Era sempre stato così: rude, scostante, stronzo. Ma sinceramente non si era mai comportato così prima d'ora. Seriamente non capivo cosa gli stesse accadendo. Più continuavo a guardare l'oceano e più mi venivano in mente le vacanze a Cuba con la mia famiglia. Ci andavamo spesso durante l'estate per "affari" di mio padre ma, se avessi saputo quali fossero realmente quegli affari, credo che avrei boicottato qualsiasi tipo di spedizione colombiana. Quegli affari, quelle persone avevano rovinato la mia vita, la mia infanzia. Non avrei mai permesso che qualcun altro facesse vivere ad un bambino ciò che avevo vissuto io.
THIRTEEN YEARS EARLIER.
Mi svegliai in una stanza ancora terrorizzata da quello che avevo visto. Mia madre, mio padre, i miei genitori morti, esanimi a terra. Ricordo le loro parole, i loro gesti, i loro sguardi colmi di timore, tutto praticamente. Mi affidarono, poco prima che arrivassero quegli scagnozzi, un passaporto e un microchip con file, a detta di mio padre, molto importanti da consegnare agli americani. Li custodivo vicini a me mentre guardavo l'orrore davanti agli occhi. La paura si era impossessata di me e la voglia di urlare e di salvare i miei genitori era tale che sicuramente, se solo avessi avuto un briciolo di coraggio, mi sarei messa davanti a loro facendogli da scudo. Ero una bambina terrorizzata, rinchiusa in una stanza mai vista prima d'ora.
«Cataleya...»
Una voce spaventosa si avvicinava sempre di più chiamandomi, e i suoi passi producevano un rumore quasi assordante. Ero rannicchiata in un angolo del letto spaventata e inorridita, immaginando quello che mi sarebbe potuto capitare di lì a poco. La porta si spalancò cigolando ed un ragazzo alto entrò a passi lenti. Portava qualcosa di grande in mano, assomigliava leggermente ad un vassoio di legno.
«Dove sono? Dove mi avete portata? » dissi cercando di tirar fuori tutto il coraggio tenuto dentro.
«Ehy sta calma bimba, sei in un posto sicuro» disse posando il vassoio sull'enorme letto.
Avrei riconosciuto quella voce tra mille. Le immagini cominciavano a scorrere nella mia mente incessantemente. Andavano e venivano, una dopo l'altra nitide, chiare. Era lui, lui quello che minacciava mio padre, quello che lo aveva ucciso con un colpo di pistola. Ed era lo stesso che aveva preso me. Lo ricordavo, la sua voce era la stessa, identica. Guardai il vassoio cercando qualcosa con cui colpirlo, dovevo scappare da lì. Continuò a parlare cercando di rassicurarmi ma sapevo che più ero lì, più ero in pericolo. Poi vidi un coltello, non molto affilato ma poteva essere utilizzato comunque. Non ci misi molto a collegare la sua mano al coltello. Non ero una killer, non ero cattiva, ero solo una bambina terrorizzata con i volti dei genitori ancora stampati davanti. In poco tempo presi il coltello e pugnalai la sua mano poggiata sul copriletto.
«Ucciderò Don Luis, questa è una promessa! »
Scesi dal letto molto velocemente, non curandomi delle imprecazioni di Mateo, e corsi il più velocemente possibile per uscire da quella casa piena di corridoi interminabili. L'unica cosa che vedevo davanti a me era la salvezza e la vendetta; si, la vendetta. Avevo promesso di uccidere Don Luis e lo avrei fatto, potevano starne certi. Non sapevo in che modo, quando o altro; sapevo solo che avrei messo fine a colui che mieteva vittime come la peste. Continuavo a correre anche se le gambe minacciavano di cedere. Sentivo la voce di Mateo chiamare altre persone e dei passi, molti passi dietro di me, sempre più vicini. Temevo di non riuscire ad uscire da quella casa ma dovevo farcela, dovevo farcela per loro, i miei genitori. Riuscii a trovare un'uscita che si affacciava su un grande giardino. Era pieno di piante, fiori colorati e c'era verde ovunque. Nessuno avrebbe dedotto che li dentro venivano tenuti addirittura bambini rapiti. Perché si, mi avevano rapita. Non si facevano scrupoli, non gli importava. Ed era per questo che dovevo uscire al più presto da lì, oppure sarei sicuramente morta. Era tutta circondata da cancelli e non c'era alcun modo di uscire. Mi voltai velocemente e vidi dietro di me tre uomini, uno di questi era Mateo. Non c'era scelta: dovevo scavalcare, e al più presto. Presi coraggio e iniziai ad arrampicarmi per quella staccionata nera. Vedevo sempre più vicina la possibilità di salvarmi e non potevo di certo fermarmi ora. Riuscii finalmente a scavalcare il cancello e così cominciai a correre velocemente verso una meta non ben precisata.
O meglio la meta c'era, ma era astratta, confusa. Continuavo a sentire mille passi che mi inseguivano, instancabili. Il fiato cominciava a scarseggiare e io non sapevo dove rifugiarmi. Non conoscevo molto bene Bogotà, d'altronde chi a dieci conosce bene la sua città. Continuavo a correre con mille immagini che mi scorrevano nella mente. Non avevo idea di dove stavo andando e le persone, le macchine ovattavano ancora di più i miei pensieri. Era una mattinata fin troppo affollata e continuavo a sbattere con fin troppa gente. Mateo con i suoi scagnozzi erano ancora dietro di me e si facevano ad ogni passo fin troppo vicini. Non sarei riuscita a correre ancora a lungo. I polmoni, fin troppo abituati a stare a riposo, non mi ossigenavano più; mi stavano abbandonando lentamente. Tra la gente vidi un vicolo, decisi di svoltare. Sperai che non mi avessero visto, altrimenti ero una bambina già morta. Alla sola idea dei brividi percorsero la mia schiena e così scossi la testa per dimenticare quegli orribili pensieri. Mi guardai intorno impaurita da quello che mi sarebbe potuto accadere di lì a poco e improvvisamente, quasi miracolosamente, trovai un tombino semichiuso. Decisi di calarmi lì e chiudere il coperchio. Celermente scesi e cominciai a camminare. Era tutto fin troppo buio, puzzolente, ma dovevo continuare per salvarmi. Continuavo a stringere a me il passaporto ed il microchip che mi aveva dato mio padre. Mi avrebbe portato alla salvezza, ne ero totalmente sicura. Mi voltai, non vidi nessuno, non sentii nessuno. Nessun passo, nessuna voce, niente. Ero salva, forse. Continuai a camminare strabuzzando gli occhi per non so, forse tre o quattro kilometri prima di sentire sopra di me delle voci. Non era spagnolo, ne ero sicura. Sembrava inglese o qualcosa del genere. Decisi di salire nonostante fossi ancora in pericolo. Tornata in superficie, feci attenzione a spostare il coperchio e ritrovai, non molto distante da me, una bandiera uguale a quella americana. L'ambasciata, ce l'avevo fatta. Ora dovevo solo entrare, ma non era di certo un'impresa facile. Le persone continuavano a camminare freneticamente avanti e indietro ed io mi misi in un angolo ad aspettare l'occasione per entrare indisturbata. Dopo un po' l'enorme cancello si spalancò ed una macchina, proveniente da chissà dove, lo passò velocemente. Presi coraggio e, prima che si chiudesse, lo attraversai e corsi verso l'entrata dell'ambasciata. Entrai velocemente cercando di non essere vista ma, nella fretta della corsa, mi scontrai con un uomo alto, in giacca e cravatta.
«Bambina, che ci fai qui? » mi disse lui in uno spagnolo macchinoso chinandosi.
«Io, io devo dare questi all'ambasciatore» dissi nervosamente mostrando ciò che avevo in mano.
«Aspetta» disse prendendomi in mano «Vieni con me» concluse portandomi verso una stanza enorme e prendendo i documenti in mano.
Rimasi seduta su una sedia morbida per qualche minuto, fin quando non arrivò un uomo che si sedette sulla morbida sedia nera dietro la scrivania.
«Ciao Cataleya, sono l'ambasciatore Peter Wilson. Cos'è successo? Ti va di raccontarmelo? » disse con una voce ed un sorriso gentile, affiancato da un poliziotto vestito interamente di nero.
Decisi di tirar fuori tutto, tutto quello che mi era accaduto in quei due giorni infernali.
«Signor Wilson abbiamo analizzato il microchip, è importante» ci interruppe una signorina con una cartella in mano.
«Vado io, lei resti con la bambina. Sembra fin troppo spaventata» disse l'uomo accanto a lui sussurrando.
«Mi faccia sapere»
Rimasi lì con lui per un po'. Cercò di farmi delle domande per farmi dimenticare tutto quello che avevo vissuto, tutto quello che avevo visto; ma io non ce la facevo, non potevo. Dopo molto lo chiamarono e lui uscì fuori dalla stanza. Lì sentii parlare ma non riuscivo a captare bene le loro parole. Conoscevo l'inglese, però non ero così ferrata da sapere tutto alla perfezione.
«Cataleya andrai a Miami oggi stesso, ti trasferirai lì. Qui non puoi più stare purtroppo» disse velocemente rientrando «Sappiamo che lì hai dei parenti, ti accoglieranno loro. Sta tranquilla, andrà tutto bene» continuò rassicurandomi con un sorriso «Jackson ti accompagnerà fino lì e ti aiuterà ad ambientarti. Da oggi sei americana» concluse infine dandomi il passaporto con altri documenti.
«Mi posso fidare? » dissi scettica ed ancora impaurita.
«Ti sembro cattivo? » chiese l'omone biondo che probabilmente rispondeva al nome di Jackson «Ti sembriamo cattivi? Non siamo come loro Cataleya, noi siamo buoni. Vogliamo salvati» continuò avvicinandosi e chinandosi verso di me «Guardami negli occhi. Ti fidi di me? »
«Forse» risposi guardando in basso.
«Ti fiderai. Vieni con me, ti porto a cambiare e andiamo in aeroporto, va bene? »
Mi voltai verso l'ambasciatore e mi sorrise, così decidi di fidarmi e andai con Jackson. Mi portò in una stanza enorme con un armadio pieno di vestiti. Mi diede via libera e così mi ci infilai velocemente. Dopo un po' scelsi un vestito sui toni dell'azzurro e delle ballerine bianche. Mi infilai nella doccia e, quando ebbi finito, mi infilai nel vestito.
Ero pronta a cambiare vita.
Note autrice:
So che ancora non mi sono presentata, ma lo farò in un capitolo a parte insieme ai personaggi. Allora, ringrazio tantissimo le persone che stanno leggendo o che inizieranno a leggere la storia. Davvero grazie! Mi farebbe molto piacere sentire un vostro parere non su tutti i capitoli ma almeno su un capitolo alterno (so che è stressante però davvero mi aiuterebbe a sapere le vostre idee o probabilmente come migliorare una storia) Al prossimo capitolo, baci😚❤
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