NO [5 maggio]

Credo che si possa definire un rating rosso anche se non ci sono tematiche sessuali chiaramente descritte.
Violenza (fisica e psicologica) seppur non chiaramente approfondita per far si che la storia sia adatta a tutti i tipi di lettore.
Ricordo che questa storia si concluderà con una prossima parte che verrà pubblicata il 5 maggio che è la giornata mondiale contro la violenza sui bambini.
Spero possa piacere e di aver soddisfatto le vostre aspettative.
Voglio ringraziare tutti coloro che hanno commentato, supportandomi, il capitolo precedente (che ho deciso di lasciare come "avvertimento" per questo capitolo in quanto chi vuole può non leggerle questa parte e la prossima).
LadyKillerBad


La vita di Keith era sempre stata un enorme casino, a partire da sua madre che lo aveva abbandonato quando aveva pochi mesi fino a suo padre che morì quando lui aveva sei anni, passando per tutti quei bambini che lo deridevano a scuola e al suo odio per tutti coloro che gli stavano attorno.
Un giorno, dopo tre anni in orfanotrofio, venne adottato da una coppia sulla cinquantina, sembravano gentili, sembravano affidabili, sembravano un sacco di cose che in realtà non erano vere.
Quella coppia aveva altri sette bambini a casa, li tenevano sempre chiusi tra quelle quattro mura, senza possibilità di uscire, molti di loro erano così magri da sembrare dei manici di scopa, alcuni avevano tredici o quattordici anni e il più piccolo era proprio Keith.
Gli mostrarono una camera in cui c'erano ammassati a terra dei sacchi a pelo che avevano l'aria di essere lì da anni, gli occhi di quei bambini erano vuoti, vacui, spaventati.
Era una paura diversa da quella che provava lui quando entrava e usciva da scuola e i bulli lo picchiavano, era una paura molto più profonda, dovuta alla consapevolezza che persino chi ti dovrebbe amare può farti del male.
Keith per giorni rimase seduto in un angolo di quella camera, pranzi e cene erano a base di pane secco e latte, dormire era quasi impossibile a causa delle grida che provenivano dalle altre camere.

Una sera, però, l'uomo che lo aveva portato lì lo andò a prendere. "Niente cena per Keith. E' stato cattivo oggi." Gli disse l'uomo prima di strattonarlo e farlo alzare da terra.
Keith per tutto il tragitto fino alla nuova camera si chiese cosa avesse fatto di diverso dagli altri giorni, ma non riuscì a darsi una risposta, non una che rappresentasse la realtà perlomeno.
In quella stanza c'era un letto, un comò e tante, troppe catene, catenine e gingilli che un bambino di nove anni non aveva neanche mai immaginato che esistessero.
Oggetti che un bambino di nove anni non dovrebbe vedere.
Oggetti di cui un bambino di nove anni non dovrebbe sapere l'esistenza.
Oggetti che Keith sperimentò sul suo corpicino che fino a quel momento, a parte qualche livido lasciato dagli scontri coi bulli, era rimasto perfettamente intatto, diafano e puro.
Corpicino che ben presto si ricoprì di lividi, ematomi, graffi e segni che oltre a segnare la pelle segnavano il suo spirito e la sua mente.
Quella sera fu la prima di tante e tutte erano uguali.
Iniziavano con un "Ti sei comportato male oggi." e finivano con un "Dormi bene." ma fra quelle due brevi e false frasi c'era così tanto dolore che Keith non riuscì mai ad esprimerlo.
Quella sera, la prima, Keith non sapeva cosa lo attendeva, non lo capì neanche, semplicemente sentì un dolore acuto e duraturo scaturire dalla base della schiena propagarsi lungo le gambe e lungo l'addome, sentì le sue piccole dita stringersi attorno ai lenzuoli e i dentini conficcarsi nel labbro con una tale forza da fargli sentire il sapore ferroso del sangue in bocca. Poi tutto finì, si sentì svuotato ma il dolore non accennava ad andarsene, l'uomo lo riportò sul sacco a pelo mentre lacrime silenziose scendevano copiose lungo il viso scarno e cereo di un bambino che aveva appena conosciuto uno degli orrori peggiori del mondo.
Keith capì ben presto da dove provenissero quelle urla e perchè, capì che a lui piaceva sentirli gridare, sentire le loro suppliche ma Keith, nonostante i suoi mille difetti e la paura che lo divorava da dentro, aveva deciso che non gli avrebbe mai dato quella soddisfazione che tanto bramava, non gli avrebbe mai fatto sentire la sua voce, ma una sola sillaba sarebbe uscita da quelle labbra divenute tremolanti per la fame, per la sete, per il sonno perduto e per la paura, mai nessuno lo sentì parlare per anni.
Gli orrori continuarono per anni e anni, sempre più brutali, sempre più crudeli, sempre con la solita espressione impassibile impressa sul viso niveo del ragazzo che, ormai, sembrava non provare più nulla, neanche il dolore, eppure Keith lo sentiva il dolore, la sentiva la sofferenza che gli dilaniava il corpo e gli stracciava l'anima con la stessa forza con cui un tornado estirpa gli alberi come fossero margherite tra le mani di un bambino.

Keith aveva tredici anni quando qualcuno bussò con violenza a quella porta, era sera, la sua sera, era già nella stanza "magica", aveva braccia e gambe scoperte, i boxer erano l'unico capo d'abbigliamento che ancora per poco avrebbe protetto il suo esile corpo, ma l'uomo fu costretto ad uscire, si chiuse dietro la porta.
Si sentirono delle grida sconnesse e rabbiose, porte che sbattevano, urla, poi dietro la porta si videro muoversi delle ombre e il cuore di Keith cominciò a battere sempre più forte fin quando non vide chi si nascondeva dietro la porta.
Un uomo alto e muscoloso, in divisa, sul viso un'espressione di tristezza mista a rabbia, gli occhi scuri lo scrutavano, Keith non si mosse, non si muoveva mai.
L'uomo cominciò ad entrare nella stanza, lentamente, cercando di non spaventarlo, Keith aveva tredici anni ma ne mostrava forse dieci, era magro, così magro che probabilmente sarebbe dovuto morire molto tempo prima, i capelli troppo lunghi, gli occhi troppo grandi, il corpo segnato da troppe ecchimosi.
-Sono Shiro.- Disse l'uomo quando gli si fu accovacciato davanti in modo che Keith non dovesse guardarlo dal basso.
Le labbra secche del bambino erano strette tra loro, come se qualcuno le avesse cucite, non disse nulla, non rispose a Shiro neanche con un lamento, rimase lì, in silenzio.
-Ti porto fuori da qui, va bene?- Chiese ancora Shiro inclinando un poco il capo di lato.
Keith lo scrutò con quegli occhi così scuri da sembrare quasi viola, lo guardò attentamente, cercando di capire cosa volesse sentirsi rispondere, poi annuì, in modo poco convinto.
Shiro gli porse una mano che, con fare tremante e incerto, Keith afferrò.
Aveva le gambe sottili e instabili, dei calli da sfregamento nelle posizioni in cui per anni era rimasto fermo; Shiro gli fece rimettere i vestiti che poco prima si era dovuto togliere, delle scarpe e poi lo accompagnò all'ambulanza.
Keith non lo ringraziò, ma prima di lasciargli la mano gliela strinse più forte che poté, era l'unico gesto che per lui potesse dimostrare gratitudine, un gesto a cui Shiro sorrise e gli promise che sarebbe tornato a trovarlo.

Qualche giorno dopo Shiro si presentò nella camera d'ospedale di Keith, i medici gli avevano detto che mangiava poco e niente, che non parlava con nessuno, che non riuscivano a capire se stava provando dolore o meno, che neanche con lo psicologo riuscivano a fargli dire una parola e che quindi lui non sarebbe riuscito a fare nulla, ma Shiro entrò, consapevole delle difficoltà e delle sue promesse.
-Ciao Keith.- Disse avvicinandosi alla poltrona posta accanto al letto.
Keith aveva un ago nel braccio, nutrimento, idratazione, medicine, che fluivano lentamente dentro di lui.
-Come va?- Chiese sedendosi e prendendo la tracolla in grembo. -I medici hanno detto che non parli molto, ma posso capirlo.- Disse mentre apriva la borsa e iniziava a cercare qualcosa. -Ti ho portato una cosa, anzi due.- Disse estraendo un pacchetto rosso con il nastrino dorato.
Lo porse a Keith e poi glielo appoggiò in grembo, il corvino lo scrutò per alcuni attimi prima di convincersi a prenderlo tra le dita.
Con una leggerezza e una cura incredibile iniziò ad allentare il fiocco fino a slacciarlo, poi iniziò a togliere la carta, era così tanto tempo che non riceveva un regalo che gli faceva quasi paura averne uno tra le mani e sapeva che poteva essere l'ultimo, perciò voleva godersi ogni emozione al meglio.
Sotto la carta regalo c'era una scatola col coperchio che lui aprì, ritrovandosi tra le mani un bellissimo peluche a forma di ippopotamo.
-Lo so che hai tredici anni, me lo hanno detto, ma è comunque qualcosa che rimane per sempre, no?- Chiese Shiro mentre gli occhioni di Keith iniziavano a riempirsi di lacrime che, non appena iniziarono a scendergli lungo il viso, si asciugò.
Era la prima volta che piangeva dalla gioia da quando suo padre era morto molti anni prima, era la prima volta da allora che qualcuno si interessava veramente a lui.
-E poi ho questo.- Disse porgendogli una scatolina che Keith aprì con la stessa premura con cui aveva aperto la scatola precedente.
Quando tolse il coperchio trovò quindici cioccolatini e i suoi occhi si illuminarono, il suo viso scattò verso quello dell'uomo seduto accanto a lui, gli occhi pieni di gratitudine e un timido sorriso che gli increspava le labbra secche.
-La cioccolata piace a tutti, credo, quindi ho pensato "Perchè dovrebbe non piacere a Keith?" e quindi te l'ho portata.- 
Il sorriso del corvino si aprì un po' di più e tornò a guardare quei cubetti irregolari di cui ricordava appena il sapore.
-Puoi mangiarli, se vuoi.- Disse Shiro.
Keith fece per prenderne uno, poi però allungò la scatola anche verso Shiro, che scosse appena la testa e sorrise.
-Sono tuoi, mangiali tu.-
E fu proprio così che la prima cosa che Keith mangiò con piacere fu un cioccolatino che gli aveva portato l'uomo che lo aveva salvato da quell'orribile incubo in cui era caduto.

I giorni passavano e, ad intervalli regolari, Shiro passava a trovarlo portandogli sempre un po' di cioccolata dato che ormai sapeva che Keith la amava.
Keith, in quei giorni non disse mai una sola parola, ma a Shiro faceva piacere vedere come sorrideva quando lo vedeva arrivare dalle vetrate ed era felice del fatto che stesse iniziando a riprendersi almeno fisicamente da quegli anni da brivido.
Era ancora molto sottopeso, ma almeno riusciva a reggersi sulle proprie gambe in modo stabile e a muoversi un poco.
Quando dissero a Shiro che una famiglia aveva già iniziato le pratiche per adottarlo senza farlo passare in orfanotrofio fu felice e rammaricato al tempo stesso, Keith sarebbe riuscito ad affrontare una nuova famiglia? Sarebbe stata una famiglia capace di occuparsi di lui nel modo giusto? Sarebbero riusciti a capire la fragile personalità di un ragazzino così speciale?
-Ehi Keith.- Il sorriso di Shiro era triste e Shiro se ne accorse perchè venne immediatamente riflesso sul volto di Keith. -Ho una notizia.-
Keith si sedette meglio sul letto, pronto per apprendere quella notizia che affliggeva così tanto il suo nuovo e unico migliore amico.
-La settimana prossima vengono a prenderti, hanno trovato la famiglia con cui andrai a vivere.- Disse Shiro, cercando di non mostrare tutta l'acidità che covava dentro.
Sul viso di Keith si dipinse un'espressione di puro terrore, la stessa che aveva quella sera quando lo trovò, nel petto di Shiro si ruppe qualcosa che gli causò un dolore dannatamente forte e si disse che mai avrebbe voluto vedere di nuovo quell'espressione sul viso di Keith.
-Verrò a trovarti anche lì, non ti abbandonerò.- Shiro lo disse anche per rassicurare se stesso, non voleva abbandonare quel bambino che era diventato così importante per lui.



To be continued... 


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