Il Bambino Con Il Grembiule Nero
Era il mio primo giorno di scuola. Fra mezz'ora avrei varcato di nuovo i cancelli della mia scuola elementare e avrei rivisto tutti i miei compagni di classe. Era l'ultimo anno che potevo trascorrerlo insieme a loro. Ero in quinta, ormai ero una bambina grande. Stavo crescendo ed ero molto spaventata. L'infanzia, molto presto, mi sarebbe mancata moltissimo.
Finii di fare colazione. La mia premurosa madre mi aveva preparato la merenda e la messa dentro allo zainetto rosa pastello già colmo di penne, colori e libri. Come ogni anno non vedevo l'ora di iniziare e scoprire nuove nozioni.
Mi infilai e mi abbottonai il grembiule blu dal colletto candido e inamidato. Mi misi la cartella in spalla e uscii dalla porta di casa.
Mia madre mi accompagnò fino in auto. Scesi e la salutai con gesto veloce della mano.
Attraversai la strada e mi riversai nel lungo viale alberato che conduceva verso il grigio edificio.
Era una serena mattina. Il cielo era azzurro, velato di nuvole bianche. Il sole tiepido splendeva fievole, aveva perso la lucentezza e il calore estivo. I passeri cinguettavano fra i rami degli alberi. Una folata di vento fece turbinare in circolo un mucchio di foglie secche. Alzai lo sguardo verso gli aceri. Avevano perso il verde chiaro brillante della primavera, si stavano sfumando di tinte dorate e aranciate. Fra due settimane sarebbe arrivato l'autunno a rapire e a portare via ogni ricordo, gioco, divertimento dell'estate.
Il primo giorno di scuola infondeva sempre nuova eccitazione e curiosità e tanta voglia di ricominciare a studiare e a passare la testa sui libri, ma riservava anche una nota molto profonda di malinconia perché la mia stagione preferita era quasi finita. Il senso di libertà e di leggerezza era svanito con il trillare della prima sveglia, all'alba.
Varcai i cancelli in ferro battuto. Percorsi il vialetto ciottolato fino a giungere davanti al grande e doppio portone d'ingresso. Le collaboratrici scolastiche ci accolsero e ci invitarono a prendere posto nel grande atrio.
Entrai con calma nella penombra. Le finestre erano oscurate da delle tendine azzurre, non permettevano alla luce della mattina di rischiarare il luogo. Era affollato. Venni pervasa dal chiasso di voci, gridi e schiamazzi vari. Regnava una confusione totale. All'improvviso la campanella suonò. Molti sobbalzarono spaventati. Erano più di tre mesi che non sentivamo quel sonoro suono fastidioso. Era la prima campanella dell'anno scolastico, quella che segnava ufficialmente la fine dell'estate e del divertimento. Mi rattristai e abbassai lo sguardo verso il pavimento impolverato.
A capo chino mi incamminai verso un corridoio insieme ad altri bambini all'incirca della mia età. Alcuni mi sorpassarono, altri mi salutarono e io ricambiai il saluto con un gesto. Qualcuno mi spinse in avanti, stavo per cadere a terra, ma venni subito afferrata per lo zaino. Mi voltai, nel mio volto era dipinta un'espressione infastidita. Dietro di me c'erano le mie compagne di classe preferite. Ci abbracciamo dopo tre mesi di mancanza e sentita distanza. Eravamo di nuovo unite, di nuovo insieme. Il sorriso si riaccese sul mio volto. Quel senso di solitudine e di angoscia scomparve.
Ci dirigemmo verso la nostra solita aula. Ci andammo a sedere al nostro posto. Pian piano arrivarono tutti gli altri. Era sempre una festa ritrovarsi, farci i soliti scherzi e soprattutto parlare delle vacanze estive e delle nostre avventure in giro per il mondo. Ero immersa in un calda accoglienza di chiacchiere e risate. Ero finalmente in compagnia, stavo bene, ero felice di non essere più sola, di avere qualcuno con cui condividere le miei emozioni, ma anche le mie nuove preoccupazioni e paure nell'affrontare un nuovo anno scolastico.
La maestra di italiano varcò la soglia e ci salutò con un gran sorriso. Mi chinai per prendere l'astuccio e un quaderno a righe. I miei occhi caddero su un banco nuovo, isolato da tutti, posizionato in fondo all'aula. Era stato aggiunto di recente. Nessun alunno si posizionava così lontano dal resto dei compagni. Eravamo una classe unita nell'amicizia, nemmeno uno veniva mai emarginato.
Seduto composto e chino c'era un bambino. Era concentrato a scarabocchiare un foglio con la penna rossa. Non era un mio compagno di classe, almeno non aveva mai fatto parte della mia classe prima d'ora. Forse era nuovo, forse era appena arrivato o aveva cambiato città, scuola o sezione.
La maestra ci richiamò tutti all'attenzione. Mi rimisi composta anche io e ascoltai le sue parole. Fece un lungo discorso su questo ultimo anno di elementari. Si assicurò dedizione costanza e impegno, ma soprattutto rispetto e serietà da parte di tutti noi giovani studenti. Da me sicuramente lo avrebbe avuto, sono sempre stata una bambina educata, gentile, paziente e buona.
Mi voltai verso le finestre semiaperte. Il cielo era diventato nuvoloso, all'orizzonte incombevano nubi grigie. Questo pomeriggio avrebbe piovuto. Il sorriso scomparve dal mio volto. Odiavo la pioggia, odiavo la fine dell'estate e soprattutto odiavo il freddo e la morta stagione.
Aprì il quaderno e la maestra iniziò a spiegare e illustrare il suo programma scolastico per poi iniziare subito con la prima lezione.
Dopo l'ora di pranzo uscii dalla porta della mensa insieme alle mie amiche del cuore. I miei occhi celestini si impuntarono di nuovo su quel bambino a me sconosciuto.
Le mie compagne mi fanno cenno di seguirle per andare a giocare nell'ampio e rigoglioso giardino, ma dissento affermando di sentirmi un po' stanca. Le lasciai andare via senza di me.
Io mi accucciai e mi sedetti sul gradino mal messo del marciapiede. Nella mia solitudine osservavo assorta tutti gli altri giocare a nascondino e rincorrersi allegramente di qua e di là. I miei occhi si rivolsero ancora verso quel bambino tanto oscuro e solo. Aveva i capelli neri, lisci, corti e la pelle diafana. Si rialzò di scatto dal terreno bagnato.
I nostri sguardi si incrociarono. Aveva occhi tondi, grandi e cenerini. Aveva un sopracciglio tagliato e un occhio cerchiato da un'aurea violacea. Le labbra rosse serrate e screpolate in un espressione che esprimeva solo il vuoto eterno. Si soffermò a fissarmi impassibile con quel suo sguardo privo di emozioni, apatico e impassibile che si tramutò in un ghigno torvo e tenebroso. Fece alcuni passi versi di me.
Mi scostai un poco, ma non volevo andare via o ignorarlo, perché ora sapevo chi era: il bambino con il grembiule nero. Una macchia triste d'inchiostro in mezzo a un oceano blu di risate e felicità. Piegai il capo di lato e provai a rivolgergli un lieve sorriso, ma si spense quando notai che aveva le mani sporche di sangue. Spalancai le iridi, spaventata. Forse dovevo chiamare qualcuno, forse aveva bisogno di aiuto. Sul palmo della mano teneva una rana. Con un bacchetto affilato la stava scorticando la pelle e scombussolando le viscere. L'aveva lacerata in due. Sogghignava divertito, soddisfatto del malanno appena commesso. Ma come mai nessuno lo fermava? Perché nessuno aveva il coraggio di avvicinarsi a lui, nemmeno le altre insegnanti e nemmeno i ragazzi delle medie, perché era cattivo di natura. Nessuno si chiedeva il perché un bambino così gracile covasse tanto male dentro di sé. Nessuno lo sapeva, tranne io.
Era nato in una famiglia disgraziata. I suoi genitori erano stati amanti in segreto. Le rispettive famiglie non approvavano la loro unione e loro non avevano abbastanza denaro per scappare via, sposarsi e sistemarsi in una nuova casa lontana dalla città. Lei arrancava con i lavori più semplici e umili, faceva la domestica per le famiglie più numerose e benestanti. Lui era un operaio, lavorava sodo ma riceveva sempre una misera paga, non sarebbe mai stata abbastanza per crearsi una famiglia. Entrambi, con quel poco che avevano, li bastava solo per magiare e pagare l'affitto di un bilocale di periferia.
Nonostante l'esistenza difficoltosa quel fatidico giorno giunse all'improvviso: lei rimase incinta e nove mesi dopo diede alla luce un figlio. Vennero catapultati in una nuova vita che iniziò a poco a poco a migliorare. Il loro bambino li dava ogni giorno nuova forza per combattere e fare il meglio possibile per crescerlo sano, in un ambiente amorevole e confortevole. Parve impossibile agli occhi dei compaesani, ma uniti dall'amore educarono con rispetto e bontà il loro figlio, almeno fino al suo sesto compleanno.
L'inverno di quell'anno cominciò, di nuovo, tutto a cadere in tanti piccoli pezzettini di carta.
L'azienda del padre fallì e dovettero licenziarlo. Si mise subito alla ricerca di un altro lavoro, ma nessuno lo assumeva perché pretendevano un titolo di studio, lui non aveva una laurea né un diploma. Inoltre aveva già maturato i suoi anni, era già considerato anziano. Le fabbriche preferivano una manodopera più agile e giovane.
L'uomo cadde presto in depressione. Iniziò a trascurare il suo aspetto fisico, prendendo alcuni chili. Il figlio e la madre fecero di tutto per risollevarlo un po', infondendogli speranza: la situazione presto sarebbe cambiata in meglio e tutto sarebbe tornato come prima.
Suo figlio in questo difficile periodo gli dimostrò e gli regalò il suo più sincero e puro amore per vederlo di nuovo sorridere. Ma non successe, lui si rintanò ancora di più in sé stesso.
Alla sera prese il vizio di uscire e di fare tardi. Camminava solo per le vie del paese, senza una meta, senza uno scopo, si sentiva così perso, abbattuto, impotente, un padre che aveva fallito. Iniziò a fumare, un vizio che si mescolò a quello dell'alcool.
Ogni giorno era sempre più sbronzo. Non riusciva ad arrivare a fine giornata senza vomitare nemmeno una volta. Aveva lo stomaco distrutto, si lamentava che gli bruciava sempre. Soffriva pure di emicrania. Il bere e il fumare lo stavano rovinando sempre di più fino a fargli perdere il contatto con il mondo esterno e la sua famiglia.
Era divento un uomo orripilante, un disastro sia dentro che fuori, sempre con indosso i soliti vestiti, sempre sudato, i capelli unti e la barba non curata. Era furioso contro sé stesso, contro il mondo e con la vita che non gli aveva mai regalato una gioia duratura, era nato sotto una luce sfortunata. Questo lo portò a riservare del rancore represso.
Un sentimento che prima o poi scoppiò riversandolo sul figlio e su sua madre. Iniziò a prendersela con loro, a maledirli e a maltrattarli fino ad alzare le mani e a ferirli più e più volte. Non passava un giorno e una notte in cui non manifestava la sua rabbia contro di loro. Li rinfacciava sempre che erano diventati solo un peso per lui e che se li avessi abbandonati forse la sua vita sarebbero diversa, addirittura migliore.
La casa era diventata un ammasso di cianfrusaglie e oggetti rotti. Lei non aveva tempo per sistemare e lui era piccolo, si feriva con tutto quello che toccava o prendeva da terra.
Ogni sera era un incubo peggiore dell'altro. Era sempre più irascibile e violento.
Sua madre era la sua vittima, la sua succube. Lui aveva imparato a nascondersi dentro l'armadio. Si accucciava e si tappava le orecchie, ma le urla e le percosse le sentiva lo stesso. Pregava, in lacrime, che smettesse presto, che la lasciasse andare o sperava almeno che non le facesse tropo male. Lui non lo riconosceva più, non era più il suo papà.
Voleva scappare via, andarsene da questa famiglia rotta. Sua madre una notte lo fece. Aveva appena scoperto di essere incinta di sua sorella. Per salvarsi dalle minacce del compagno una notte mise dentro un sacco tutti i suoi averi. Andò a baciare l'innocente figlio. Lui nella notte si svegliò udendo il motore vecchio dell'auto della madre. Assonato si affacciò al vetro della finestra: stava andando via. Non la rivide più. Era scappata via per salvarsi la vita lasciandolo con il padre violento. Lo aveva abbandonato. Lo aveva lasciato solo, solo con quel mostro che stava russando nel suo letto.
L'indomani l'uomo lo scoprì subito e in collera riversò la colpa e la rabbia sul figlio. Gli episodi irascibili erano sempre più simili e ricorrenti e il bambino era sempre più in trappola. Sempre più indifeso, magro, sciupato e debole. Non aveva energie per combatterlo, per contrastarlo, nemmeno il coraggio di chiedere aiuto. Era stato lasciato al suo ingiusto destino di sofferenza e solitudine.
Ora il padre poteva contare solo su di lui. Con il tempo maturò un sentimento possessivo verso i suoi confronti. Lo controllava sempre e lo voleva sempre vicino per contrastare la mancanza portata via dalla sua compagna.
Piangeva e si disperava sul letto la maggior parte del tempo, finché un sabato mattina qualcuno lo chiamò per un impiego. Lui accettò. Nel bambino si accese un barlume di speranza, ma fu solo un mero desiderio. Il padre ormai aveva perso il suo lato benevolo. Era di animo perfido e un attaccabrighe con tutti quelli che incrociavano a malapena o per sbaglio il suo sguardo perfido e tenebroso. Nessuno voleva a che fare con lui. Lo pagavano a fine mese solo perché sapevano che aveva un figlio disgraziato come lui.
Con il tempo, per sopravvivere alle cattiverie del padre, divenne come lui. Il bullo della scuola dal quale era meglio stare alla larga. A scuola alcun alunno osava avvicinarsi, parlagli o toccarlo, mentre a casa c'era sempre il padre a riempirlo di botte.
Spesso aveva il viso cosparso di violacei brividi. Le voci che giravano sostenevano che suo padre lo aveva menato così tanto da piccolo fino a farlo diventare sordo e perciò non parlava e non ascoltava mai nessuno. Non potevo crederci...
Non aveva alcun contatto con il mondo, sentiva solo dolore e rabbia repressa verso suo padre, ma soprattutto verso sua madre che lo aveva abbandonato senza dirgli niente. Se un giorno l'avesse incontrata, sicuro gliela avrebbe fatta pagare anche lui con il sangue e soprattutto con quella rabbia che gli trasmetteva solo suo padre.
A scuola preferiva stare per conto suo. Tutti lo evitavano, perché avevano paura di lui e del suo imprevedibile comportamento.
Io sono qui che lo osservo sempre, tutti i giorni, ormai da cinque anni. È sempre lo stesso, triste e chino. Come può un bambino soffrire così tanto?
Un pomeriggio lo vidi seduto davanti al ruscello intento a strappare l'erba del prato. Con cautela andai verso lui e mi accuccia piegando le ginocchia. Provai a fare finta di niente e mi avvicinai piano piano. Mi suscitava soggezione e timore. Mi voltai, lenta, a scrutarlo. Il vento accarezzava i miei capelli scompigliati.
Anche lui si girò. In lui non vidi rabbia, ma qualcosa di diverso, qualcosa che nessuno aveva mai visto prima. Nei suoi occhi spenti vidi tutto il suo dolore, ma anche una fioca luce di speranza. Mi stava chiedendo di salvargli l'anima da tutta quella sofferenza. Rimasi lì, immobile, a guardare i suoi occhi che facevano un terribile rumore. Senza dire nulla, gli misi una mano sulla spalla e lo abbracciai. Dal suo viso cadde una lacrima triste, incompresa e dolorosa, come era lui. Racchiudeva tutta la sua solitudine. La sua vita era colma solo di eterno dolore.
Perché se i bambini soffrono così tanto la colpa deve essere sempre dei più grandi?
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