Capitolo 9

Età: 14 anni

«Non voglio farlo», ammise Aiden. Camminava avanti e indietro per la stanza, mentre muoveva le mani su e giù, in modo tale da scaricare la tensione accumulata.
Delilah lo osservava stretta nella sua divisa scolastica, non sapendo come gestire la sua crisi.

Desiderava abbracciarlo, ma sapeva che doveva lasciargli sfogare la sua ansia da solo. «Oggi è il due aprile e in questa occasione potrai sensibilizzare molte persone sull’argomento. È bello che il preside abbia organizzato un congresso al riguardo». 

Aiden si mise dinanzi la scrivania e si piegò in avanti, poggiando i palmi delle mani sul legno lucido e abbassando la testa. Dando così le spalle all’amica, provò a fare dei respiri profondi, ma le emozioni erano troppo amplificate.

«Non lo fa per me», rispose con voce flebile. «Vuole semplicemente accrescere il consenso delle persone e ha trovato la scusa perfetta: me».

La ragazza dai lunghi capelli angelici avanzò con passo lento verso di lui, in un movimento delicato e fluido. Con grazia, posò le dita candide sul suo braccio teso e inclinò leggermente il capo, cercando il suo sguardo. Quando le sue iridi calde e dorate incontrarono quelle fredde e di un grigio azzurro intenso di Aiden, un sorriso le affiorò sulle labbra, dolce e spontaneo. 

«Sono sicura che riuscirai a parlare senza problemi».
«Non puoi avere la certezza di un evento futuro», precisò. Si scansò leggermente e fece in modo che Delilah si sistemasse davanti a lui, intrappolata tra il suo corpo e la scrivania. «Però ho la certezza della tua intelligenza», ribatté, trattenendo qualsiasi reazione per la correzione ricevuta. «Di quella ce l’ho anch’io».

In tutta risposta, ci fu uno sbuffo irritato. Aiden, nel vedere il suo gesto, rilassò i muscoli e addolcì i lineamenti del viso. Si piegò fino a posare la testa nell’incavo del collo e, fra i capelli biondi, nascose un sorriso. «Grazie».

Delilah schiuse le labbra in un ampio sorriso e colse l’occasione per circondargli il busto con le braccia esili. «Se ne hai bisogno, puoi guardare me mentre parli». Era incredibile come tutto di lei portasse la calma nella testa di Aiden: la voce delicata e pacata, la morbidezza della pelle e l’odore che essa emanava. Persino le affermazioni inesatte che faceva riuscivano a portarlo alla tranquillità.

Non ebbero il tempo di aggiungere altro che un leggero ticchettio proveniente dalla porta attirò la loro attenzione. I due si scambiarono uno sguardo e si allontanarono, mentre Delilah, con voce calma, invitò chiunque fosse dall’altra parte a entrare. La porta si spalancò di colpo e Margareth fece capolino, con i suoi capelli ramati che ondeggiarono lievemente. «Devi andare», annunciò rivolta al figlio. 

Aiden rimase immobile per un istante, trattenendo il respiro come se volesse prendere il controllo di sé stesso. Dopo qualche secondo, si mosse con decisione, camminando a passo svelto. La tensione che sentiva dentro rimase ben nascosta dietro la sua solita espressione seria e impenetrabile, che non lasciava trasparire nulla. 

Delilah invece, avanzò a piccoli passi, più agitata di quanto avesse potuto immaginare. Si guardò intorno per un’ultima volta. L’ufficio del preside era piuttosto minimalista: non erano presenti nemmeno numerosi scaffali pieni di libri e scartoffie, come in realtà aveva sempre creduto.

Varcò la soglia, la donna la accolse con un sorriso rassicurante e le posò una mano sul fianco per confortarla. «Andrà tutto bene».
«Non puoi avere la certezza di un evento futuro», rispose, provando a imitare il suo amico. Margareth rise cercando di non fare troppo rumore, mentre insieme si avviarono verso l’aula magna della scuola. «Ho un’idea sull’origine di questa frase».

Delilah represse una smorfia divertita e nel mentre cominciarono a scendere le quattro rampe di scale, che le condussero dinanzi l’aula. Aiden era sparito dalla circolazione, quindi Delilah dedusse che già si trovasse dietro le quinte. Osservò il lungo corridoio semivuoto, poi afferrò la mano di Margareth. «Entriamo da di là», disse solamente, prima di cominciare a correre.

La donna provò a starle dietro, imbarazzata a causa dello sguardo perplesso degli studenti. «Tesoro, non correre. Non vorrei rompermi qualche osso», alzò la voce, ma Delilah era spedita e trascinava con sé la povera donna esausta. 

Dopo qualche metro si fermarono. La porta era spalancata e da fuori si poteva vedere la luce soffusa utilizzata. Entrambe entrarono e si trovarono direttamente in prima fila. Margareth osservò quel luogo per qualche secondo.
Si trattava di un vasto spazio che poteva ospitare centinaia o addirittura migliaia di persone. Il soffitto era alto, conferendo un senso di apertura e grandezza.
Disposte in file ordinate, erano presenti delle poltrone e, davanti di esse, c’era il palco, fulcro dell'aula magna. Le luci sui numerosi studenti sistemati comodamente erano spente: le uniche accese erano quelle che puntavano il palco.

Lì, il preside Wilson, stava presentando l’alunno che avrebbe fatto l’ingresso di lì a poco: Aiden John Smith.

Delilah e Margareth rimasero in piedi vicino l’ingresso. Entrambe erano visibilmente emozionate e la seconda addirittura commossa. Nel giro di pochi secondi, il ragazzo fu visibile a tutti. Senza proferire parola, avanzò verso il podio: una colonnina che accoglieva un microfono sopra di esso. Se ne stava lì, nella sua semplice bellezza, a cercare l’amica con lo sguardo. Nel momento in cui lo trovò, Delilah sentii il suo cuore tremare. 

Annuì decisa, e dopo un’occhiata carica di parole non dette, Aiden cominciò a parlare. «Mi chiamo Aiden John Smith e sono autistico», si presentò. «Mi è stato chiesto di parlare e diffondere consapevolezza sul tema, perché oggi se ne celebra la giornata mondiale». Aveva la voce ferma e sicura, totalmente opposta al suo stato d’animo.

Spostò gli occhi davanti a sé, su tutte le persone presenti e subito infilò una mano nella tasca dei pantaloni per cercare il suo fidget cube da manipolare. Era un cubo con vari bottoni, levette e rotelle che poteva muovere a suo piacimento, per tenere le mani occupate. «Inizio col dire che, diversamente da ciò che in molti credono, l’autismo non è una malattia, ma una neurodivergenza. Si riferisce a variazioni naturali nel funzionamento del cervello e del sistema nervoso, che possono manifestarsi sotto diverse forme».

Lanciava spesso occhiate a Delilah, ma gli risultava difficile rilassarsi. Sentiva tutto: l'eco della sua voce, il cigolio delle poltrone e i respiri delle persone. Percepiva ogni cosa e fu certo che non sarebbe resistito a lungo.

«Ogni autistico è a sé. Io, ad esempio, ho bisogno di un supporto minimo da parte degli esperti, fatico a relazionarmi e nel momento in cui mi appassiono a qualcosa, mi dimentico persino di mangiare per quanto sono preso. Sono preciso e devo tenere tutto sotto controllo, se qualcuno mi tocca percepisco la sensazione della sua pelle per ore e non mangio alcuni cibi perché la consistenza mi fa impressione. Ho un udito sensibile: in questo momento sento anche il rumore dell'elettricità. So per certo che i fili di alcune luci stanno facendo falso contatto, al momento. 

Non capisco i modi di dire perché prendo tutto alla lettera e non posso indossare certi tessuti perché li sento bruciare sulla mia pelle. Ho tutte queste caratteristiche, ma sono umano».

Affondò lo sguardo nelle grandi iridi della sua amica, la quale teneva le mani intrecciate tra loro, posate sul mento. Lo scrutava con orgoglio, gli occhi le illuminavano il viso. «Posso discutere, fare le stesse attività che fate voi. Possiamo sposarci e fare figli. Abbiamo le stesse reazioni corporee dei normotipici. Quindi sì, facciamo sesso. Tanto sesso».

Mentre i risolini si diffondevano tra gli studenti, Delilah sentì il calore salire al volto, avvampando improvvisamente. Ringraziò le luci soffuse della stanza, convinta che i suoi zigomi fossero arrossati, anche se non riusciva a spiegarsi il motivo. Invece di indagare su quella reazione, si limitò a rimanere in silenzio, continuando ad ascoltare e sperando che nessuno notasse il suo imbarazzo.

«Ma come ho detto, ci sono autistici con caratteristiche diverse che fanno parte della personalità. Ci sono quelli socievoli, quelli che mangiano o indossano qualsiasi cosa, quelli che non detestano il rumore e quelli che hanno bisogno di più supporto, perché magari non parlano o hanno difficoltà motorie».

Aiden stava arrivando al limite. La testa girava e sentiva la salivazione diminuire. Faticava persino a deglutire, quindi portò le dita verso la cravatta stretta attorno alla camicia e provò ad allentarla. Si prese qualche istante per respirare e dopo un’altra occhiata all’amica, fece un ultimo sforzo. 

«Quando una persona ha un attacco di panico, è bene non metterle pressione o starle troppo addosso. Stessa cosa deve accadere quando qualcuno va in sovraccarico sensoriale, una condizione in cui il cervello è eccessivamente stimolato da un eccesso di informazioni sensoriali, come suoni, luci, odori o sapori. Questa sovrastimolazione può causare una sensazione travolgente di ansia, stress e confusione». 

Era ciò che gli stava accadendo in quel momento. E fare stimming col cubo non risultò utile. Anzi, doveva pure cercare di spiegare alle persone cosa fosse. Iniziò ad oscillare avanti e indietro, ma anche quello non fu d’aiuto. Margareth guardò il figlio con la fronte corrugata, consapevole di cosa gli stesse accadendo. Cercò di rilassarsi nel momento in cui la guardò. Non voleva trasmettergli la sua preoccupazione o aggiungergli altri stimoli.

Aiden si sentiva sopraffatto. C'erano ancora tante cose che avrebbe voluto spiegare, tanto da dire. Voleva parlare dell'Asperger, della sindrome di Rett, voleva che la gente comprendesse e smettesse di giudicare, di coltivare pregiudizi su argomenti così ignorati e incompresi. Ma l'impresa sembrava sempre più gravosa, e ogni respiro diventava un peso insostenibile. Il desiderio di educare gli altri si scontrava con il limite delle sue forze, e la situazione iniziava a sfuggirgli di mano. 

Non disse nulla, né fece altro. Camminò per il palco per scendere. Mentre si avviava verso le scale, strinse gli occhi a causa della luce che sembrava volesse perforargli le pupille. 

Gli studenti, confusi dall’interruzione senza spiegazione, cominciarono ad applaudire. Era un rumore flebile e incerto, ma costrinse Aiden a tapparsi le orecchie.

Delilah si portò una mano al petto e si strinse la camicia quando lo vide avvicinarsi. Sembrava così fragile in quell’istante che quasi le venne da piangere. 

Le passò accanto e, come se non esistesse, la ignorò. Uscì dall’aula per far sì che le voci fossero più ovattate, ma non servì a nulla. Le due donne lo seguirono e lo osservarono mentre camminava freneticamente con le mani premute sulle orecchie e le palpebre strette. Continuava a ripetere senza sosta, a bassa voce: “io non volevo farlo”.

Non era la prima volta che era in preda a una crisi, ma negli ultimi tempi si era trattenuto talmente tante volte che era esploso all’improvviso. Delilah si sentì rabbrividire. Sapeva di non poter fare niente, ma non riusciva a starsene con le mani in mano mentre una delle persone più importanti della sua vita si trovava a soffrire in stato confusionale. 

Fece un passo in avanti. «Aiden». Lui si fermò di colpo. Lentamente, aprì gli occhi e fece scivolare le braccia lungo i fianchi. Aveva il respiro affannato e il cuore che batteva furioso nella gabbia toracica. Delilah fece un altro passo nella sua direzione, ma lui scattò all’indietro. «Non toccarmi!»

La ragazza sussultò. Non aveva mai alzato la voce contro di lei e, se per un attimo si spaventò, subito dopo i sensi di colpa crebbero. Aveva appena detto davanti a tutti quegli studenti di lasciare sole le persone che si trovano in quella situazione e lei non stava rispettando il suo volere.

Il cuore le si strinse in una morsa nel momento in cui Aiden si voltò e cominciò a correre, come a voler scappare. Rimase lì, ferma a osservarlo allontanarsi.

Margareth, che se ne stava pochi centimetri più indietro, le si avvicinò e, come una mamma amorevole, iniziò ad accarezzarle i capelli. Comprendeva come si sentisse la ragazza, perché era ciò che aveva sempre provato anche lei. «Non ce l’ha con te».

Delilah annuì in maniera impercettibile, mentre continuava a fissare il punto in cui se ne era andato, ormai vuoto. «Lo so, ma vorrei prendermi un po’ della sua sofferenza per alleggerirlo»,

La donna, al suo fianco, sentì un calore invaderla e senza pensarci un secondo, strinse la piccola a sé. Dal momento in cui i due, all’epoca bambini, si erano conosciuti, Margareth si era sentita più serena. Ogni giorno cresceva in lei la gratitudine per il fatto che suo figlio avesse trovato una persona così speciale, qualcuno che non aveva mai nutrito pregiudizi nei suoi confronti e che non gli aveva mai fatto mancare nulla. Era come se quella presenza avesse portato una luce nuova nella vita di Aiden, e Margareth sapeva che, grazie a quell’amicizia, suo figlio non sarebbe mai stato solo.

Era certa di poter contare su di lei più di quanto potesse farlo sul marito. Non gliene aveva mai fatto una colpa, perché John amava davvero Aiden. Era solo terrorizzato dal mondo, così maligno e crudele.

Entrambe si staccarono e Margareth frugò nella borsa alla ricerca delle chiavi dell’auto. Quando le trovò, le porse a Delilah, rivolgendole uno sguardo dolce. «Comincia ad andare in macchina. Vado a parlare con il preside e ti raggiungo». 

Annuì in risposta e si avviò verso l’uscita della scuola. All’esterno, qualche gruppo di ragazzi si riversava fuori dall'edificio, voci e risate che riempivano l'aria. L'asfalto del parcheggio, sbiadito e screpolato, rifletteva il caldo sole pomeridiano, mentre i passi affrettati delle persone sollevavano piccoli sbuffi di polvere.

Lei camminava a passo svelto, quasi correndo, tra gruppetti di amici che si fermavano a chiacchierare. Si faceva strada tra le auto parcheggiate in fila, cercando di ignorare le chiacchiere e gli sguardi intorno a sé. 

Il sole accecante la costringeva a socchiudere gli occhi, mentre raggiunse finalmente l’auto, una vecchia berlina con la vernice scrostata. Armeggiò con la chiave e aprì lo sportello del lato passeggero, dopodiché si allungò per inserirla e si mise la cintura di sicurezza.
Il silenzio dell'abitacolo la avvolse come una coperta, isolandola dal mondo esterno. Fece un respiro profondo e chiuse gli occhi per un istante, sentendo il peso delle emozioni che si agitavano dentro di lei. 

Attese qualche minuto prima che Margareth salisse nel posto di guida. Entrambe non proferirono parola e la donna si limitò a dare gas e partire. Delilah vide dallo specchietto retrovisore la scuola farsi sempre più piccola, fino a scomparire. 

Le case del quartiere apparivano ordinatamente disposte lungo la strada. I giardini curati mostravano fiori vivaci e prati verdi, alcuni ancora cosparsi di giochi abbandonati dai bambini.
Proseguendo, la strada si allargava, accogliendo sulla destra un parco in cui erano presenti persone che passeggiavano, cani che correvano e bambini che giocavano sulle altalene. Le chiome degli alberi formavano una copertura ombrosa sopra i sentieri, offrendo un riparo dal sole.
Cominciarono ad apparire negozi con vetrine colorate, caffè con tavolini all'aperto e cartelloni pubblicitari che annunciavano le ultime offerte. Finalmente, l'auto svoltò nella via residenziale degli Smith e Delilah immediatamente riconobbe la casa ormai familiare.

Uscì dall’abitacolo non appena Margareth parcheggiò. Quest'ultima alzò la testa e notò, dalla finestra della camera di Aiden, le tende totalmente chiuse. Rivolse un leggero sorriso sollevato verso quella direzione, perché prima di uscire lei le aveva aperte. Osservò il polso per verificare l’orario. «Aiden è qui, deve aver usato le chiavi di riserva», annunciò. «Io devo andare a fare delle commissioni, tu entra pure».

Ricevette come replica un ringraziamento mormorato, che accolse con le labbra incurvate.  
Delilah girò il pomello della porta di ingresso e la aprì lentamente, tentando di limitare qualsiasi rumore. Senza neanche guardarsi intorno, la richiuse dietro di sé senza sbatterla e avanzò fino ad arrivare alla camera di Aiden. 

Presa dall’impulso, alzò la mano stretta in pugno per bussare, ma dopo pochi attimi si destò, abbassando la mano di colpo. Ci rimuginò su, dopodiché decise di sedersi con la schiena poggiata al muro, proprio accanto alla sua porta. Il pavimento freddo incontrò la pelle nuda delle cosce, avvolte da una gonna. Piegò le ginocchia, le circondò con le braccia e si mise ad aspettare.

Passarono minuti, o forse ore. Il tempo sembrava essersi dilatato, sospeso in quel silenzio che avvolgeva tutto. Nel corridoio l’unico suono udibile era il respiro regolare di Delilah, che, con le palpebre abbassate e il volto rilassato, si era addormentata.

Aiden uscì dalla stanza e quasi si spaventò quando si accorse di non essere solo. Abbassò lo sguardo e la vide lì, rannicchiata in se stessa mentre riposava malgrado la posizione scomoda. Si chinò sulle ginocchia e si posizionò di fronte a lei. La nuca, leggermente inclinata, era contro il muro. Un braccio era a penzoloni, mentre l’altro era posato sul grembo. Le gambe seminude invece erano piegate e pendevano verso destra. I lineamenti del suo viso erano ancora più morbidi e delicati quando dormiva. 

Allungò le dita cadaveriche verso il suo viso per spostarle una ciocca di capelli dietro l’orecchio e, preso dall’impulso, accompagnò quel gesto accarezzando la pelle vellutata. 

Un tocco gentile e premuroso, quasi timido. Delilah, sentendo quel contatto lieve e percependo il calore del suo corpo, si mosse appena, un piccolo sospiro sfuggì dalle sue labbra. Le palpebre si sollevarono lentamente, rivelando gli occhi ancora pesanti di sonno. Nel momento in cui quelle grandi pagliuzze color miele si scontrarono con la figura dell’amico, Aiden credette che la sua crisi non fosse passata completamente, perché il suo cuore ebbe un piccolo sussulto.

«Come stai?» domandò Delilah quando si rese conto di dove fosse e cosa fosse successo. Il giovane quel punto, con ancora la divisa indosso, si sedette e spalancò le gambe in modo da non far spostare quelle di lei. «Perché sei qui fuori?» chiese invece.

«Non volevo lasciarti solo, ma non volevo neanche infastidirti», rispose, la voce lievemente impastata. 

«Scusa». Aiden era consapevole di aver esagerato nei suoi confronti, che lei desiderasse soltanto il suo bene. La ragazza sorrise e scosse la testa, per far intendere che fosse tutto apposto. Entrambi si persero nel silenzio, prendendosi degli attimi per scrutarsi. «Mi sono sempre piaciuti i tuoi occhi. Sembrano confondersi con la neve».

Il ragazzo accennò un piccolo sorriso timido, ma non disse che lui, ogni volta, cercava i suoi per perdersi in quelle iridi dorate, cosparse di macchioline marroni. Desiderava spesso il suo sguardo luminoso e sincero.

La mano di Aiden si avvicinò lentamente a quella di Delilah. Le sue dita lunghe e affusolate sfiorarono con delicatezza il dorso della sua mano, provocando un leggero brivido che le percorse il braccio. 
Quando finalmente le loro mani si incontrarono, lui si accorse di quanto le sue dita fossero diventate più grandi rispetto a quelle dell’amica, e decise di circondarle con una pressione ferma ma gentile, trasmettendo sicurezza e protezione. I palmi si adattarono perfettamente, come se fossero state create per incastrarsi. In quell'istante, tutto sembrava svanire: il mondo, con il suo caos e le sue distrazioni, si dissolse, lasciando spazio solo al calore delle loro mani intrecciate. Era un rifugio silenzioso, un'isola di calma e serenità in cui ogni preoccupazione si allontanava, come se nulla potesse intaccare quel momento di pura intimità.







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