Capitolo 8

Presente 

Non seppi dire quanto tempo fosse passato. Il mondo intorno a me sembrava ovattato, eppure percepivo ancora il mormorio lontano del battibecco tra i due ragazzi. Il mio sangue scorreva così rapido che l'adrenalina prese il sopravvento, spingendo la mia gamba destra a rimbalzare incontrollabilmente sulla sedia, su e giù in un ritmo frenetico. Cercai di ignorarla, ma ogni secondo che passava la tensione aumentava.
Solo quando lo vidi comparire all'orizzonte riuscii finalmente a bloccarla, fermandola con uno sforzo improvviso, come se la sua sola presenza fosse bastata a riportare un minimo di controllo dentro di me..

Ronald era lì.

«Oddio», mormorai. Non seppi cosa fare in quel momento: rimasi semplicemente a scrutare con bocca schiusa la figura del ragazzo che, con il borsone sulla spalla, si avvicinava a noi. «È arrivato?» sentii chiedere da Savannah, ma non risposi. Percepii il suo movimento: con molta probabilità si era voltata per verificare con i suoi occhi. «I miei complimenti a madre natura», commentò.

«Sei pessima», ribatté Leonard. Udii altra confusione provenire da loro, ma io continuavo a guardare Ronny, incredula. Nel momento in cui mi fu davanti dovetti piegare il collo all'indietro per guardarlo nel viso. Aveva i capelli umidi e fui certa che si trattasse di sudore, dato che indossava ancora la divisa rossa da basket. «Grazie per il messaggio», fu la prima cosa che disse, senza salutarmi o degnare di uno sguardo gli altri due.

Notai con la coda dell'occhio Savannah alzarsi impacciata e allontanarsi, trascinando con sé Leonard, il quale parve fin troppo curioso. «Sei sudato», constatai, mentre lui prese posto dinanzi a me. Adagiò il suo borsone sull'asfalto e mi guardò a lungo, forse sorpreso quanto me della mia pacatezza.
«Eravamo in pausa nello spogliatoio quando ho ricevuto il messaggio». Dischiusi le labbra e sollevai le sopracciglia. Erano talmente inarcate che fui sicura mi fossero uscite le solite rughette d'espressione sulla fronte. «Te ne sei andato prima», riuscii a mormorare, «non l'hai mai fatto».

Scrollò le spalle e si strinse in esse, assumendo un'espressione innocua. «Non credo avrei avuto altra occasione di chiarire con te».

Annuii per confermare, perché tutti i torti non ne aveva. «Perché ci tieni così tanto a parlare?» domandai. Mi piegai in avanti per appoggiare le braccia sul tavolo e afferrare un tovagliolo, che presi a strappare in sottili strisce. Preferivo focalizzarmi su quello per alleviare la tensione, piuttosto che affrontare Ronald al cento percento.

Si mosse sulla sedia, agitato quanto me. «Voglio farti capire che ne sono davvero pentito, non credevo che avresti avuto una reazione del genere». Abbassai le mani sul tavolo per quanto le sentivo pesanti. Fui certa che se non ci fosse stato quello a sorreggerle, le braccia mi sarebbero cadute lungo i fianchi.

Presi un respiro a pieni polmoni, per discostarmi dall'idea di sbraitargli contro. Lo fissai nelle iridi scure per qualche secondo, con sguardo serio e lineamenti duri. «Che reazione avrei dovuto avere?»

«Non immaginavo te la saresti presa così tanto, non hai mai provato nulla per me». Il suo sguardo divenne gelido per un istante, come se la rabbia cominciasse a dominare su tutto il resto.
«Questo non ti dava il diritto di mancarmi di rispetto e umiliarmi davanti a tutti i tuoi amici», ribattei. Avevo le sopracciglia aggrottate e utilizzai così tanta forza il quel gesto, che il cipiglio che si formò cominciò a farmi male.

Ronny osservò la mia espressione a lungo. In quel momento aveva i lineamenti distesi e un leggero sorriso ad incurvargli le labbra. Quell'espressione, però, era tutt'altro che allegra. «Quindi lo ammetti», disse con tono più cauto. «Non hai mai provato nulla».

Per un attimo smisi di respirare, colta alla sprovvista. Sgranai di poco le palpebre e tentai ad aggrapparmi a qualsiasi cosa pur di deviare la sua attenzione su quel pensiero. «Non rigirare la situazione su di me».

Ronald si lasciò cadere all'indietro e chiuse le sue dita in un pugno, per poi sbatterlo sulla sua coscia.
«Ma certo. Concentriamoci solo sui miei errori», rispose in maniera sarcastica. «Io ho sbagliato, va bene? Alla grande. Ho sbagliato a baciare altre ragazze con cui, fra parentesi, non sono andato oltre».

«Ah, grazie allora», lo interruppi, ma ignorò la mia ironia e continuò il suo monologo, senza spostare le iridi scure dalla mia figura per un solo istante. «Ho fatto degli errori nei loro confronti perché ho usato i loro sentimenti per stare qualche minuto con qualcuna che compisse certi gesti per amore e desiderio, e non per paura di rimanere sola. Ho fatto errori soprattutto nei tuoi, di confronti. Ho sbagliato a non parlartene, ho sbagliato quando ho tentato di risolvere davanti quegli idioti dei miei amici, ho sbagliato quando ti ho trattenuta contro la tua volontà facendoti del male e ho sbagliato a insultare Aiden. Ma tu non puoi dire di non avere alcuna colpa».

Ogni sua frase, ogni sua parola, mi colpì in pieno. Le sentii tutte, una per una. Mi entrarono sottopelle e mi trafissero il cuore come fossero aghi affilati. «Io non ho paura di rimanere sola», gracchiai, conscia del fatto che avesse ragione.

«Eccome se ce l'hai», ribatté. Mi osservò un'istante, come se fosse titubante a proseguire. Dopo pochi secondi, però, lo fece. «Temi che tutti ti abbandonino come ha fatto tuo padre». Questa frase fu il colpo di grazia.

Un coltello nel petto, girato e rigirato più volte. Il sangue che colava, ancora e ancora. Altri cocci del mio cuore che dovevano essere raccolti. Sentii gli occhi bruciare ma, nonostante la vista offuscata, trattenni le lacrime. La figura sfocata di Ronald si mosse e sentii il suo sospiro raggiungermi. Addolcì il tono di voce. «Tu scegli la persona che pensi possa andare bene per te e tenti di costruire una storia per non distruggere i tuoi ideali. Ne senti il bisogno. Vuoi vivere un amore che ti faccia toccare le stelle con un dito, una relazione perfetta, seppur fasulla. Non ascolti le tue emozioni, ma fai del male a te stessa oltre che agli altri.»

Quella dura verità fu il pretesto che le mie lacrime utilizzarono per scivolare libere sulle mie guance. Una finì sul labbro superiore e immediatamente ne sentì il sapore salato. «Volevo davvero che le cose funzionassero fra di noi», riuscii a dire, con voce sempre più incrinata. Presi il mio labbro inferiore tra i denti e lo morsi, turbata dal fatto di essermi resa così vulnerabile ai suoi occhi, ma lui non infierì. «Lo so», sussurrò. 

Posò la sua grande mano sulla mia, poggiata sul tavolino, e la strinse. La differenza di temperatura tra i nostri corpi mi fece rabbrividire. «Hai freddo?» chiesi, cambiando per un attimo discorso. Non lo guardai in viso e allungai anche le altre dita verso il suo dorso, per cercare di riscaldarlo con la pelle dei miei palmi. Certo che aveva freddo. Era arrivato fin lì con la canottiera e i pantaloncini da basket. Deglutii per sciogliere il nodo che avevo in gola. Si era fiondato da me non appena gli avevo scritto. Nessuno dei miei ex avrebbe mai fatto una cosa del genere, quindi dedussi che magari lui teneva davvero a una risoluzione dei nostri problemi. «Scusa per il male che ti ho inflitto», mormorai.

Lo vidi allungare la mano libera verso il mio viso e mi costrinsi ad alzare gli occhi verso di lui. Accennò un sorriso e con la nocca dell'indice mi asciugò l'area sottostante la palpebra inferiore. «E io ti chiedo scusa per tutta la sofferenza. Non avrei dovuto mancarti di rispetto».

Guardai il suo volto con una nuova consapevolezza. Ronny aveva detto ad alta voce cose a cui non avevo mai voluto pensare profondamente; tentavo sempre di sorvolare. Mi aveva spiattellato la verità in faccia l'errore che avevo sempre compiuto: costringermi ad amare qualcuno solo per sentirmi ricambiata, per colmare il vuoto che sentivo da quando mio padre se ne era andato. Vuoto, che poteva riempire solamente lui, perché era in possesso del pezzo mancante del mio cuore. Quel pezzettino faceva male nonostante l'inesistenza e speravo, un giorno, di poterlo ricucire.

«Mi prometti una cosa?» Non negai, né tantomeno annuii. Mi limitai a guardarlo per spronarlo a proseguire. Lui mi asciugò l'altra parte del viso. «Non sabotarti da sola. Mi ricordo di te al primo anno. Eri sempre sorridente, con te portavi il sole. Poi sei cambiata. Lo so che quello che ti è accaduto non è bello, ma non immergerti ancora di più nel buio. E non cercare di essere felice forzando dei rapporti, perché non ne hai bisogno. Sii te stessa; posa tutte le maschere e recupera il tuo vero volto. Non cercare di reprimere ciò che provi per obbligarti a sentire altro. Non deve andare per forza male».

Non seppi cosa dire. Ci conoscevamo solo di vista e solo nei tre mesi in cui siamo stati insieme avevamo approfondito il nostro rapporto, ma mai mi ero accorta della sua sensibilità.
«Sicuro di essere il capitano della squadra di basket?» Sollevò gli occhi al cielo e mise fine al contatto tra le nostre mani, allontanandosi. «Te l'avevo detto che quel libro era una stronzata».
«Era bellissimo, invece», ribattei. In tutti i libri che avevo letto, i giocatori del liceo erano stronzi, quantomeno all'inizio della storia d'amore. Lui invece no, è sempre stato un tipo piuttosto dolce e a causa di ciò gli avevo sempre detto che era un giocatore fasullo.

«Oggi ho provato a chiedere scusa ad Aiden», annunciò, cambiando discorso. Bevvi un altro sorso della mia bevanda, ancora a metà, nonostante il ghiaccio si fosse sciolto e il sapore avesse cominciato a perdere la dolcezza iniziale. «E?»

Scosse la testa divertito. «Neanche il tempo di avvicinarmi che mi ha rivolto un'espressione alquanto scettica, se non addirittura di disprezzo e disgusto», ammise, causando la mia ilarità. Risi nell'immaginare la scena e mi trattenni dal domandargli se nel momento in cui l'aveva visto fosse in compagnia.

Ronald sollevò gli angoli della bocca in un sorriso sincero. «Mi riferivo a questo», disse soltanto. Inclinai leggermente la testa verso destra e lo scrutai con la fronte aggrottata, confusa. «Di che parli?»

«Del tuo viso. Del tuo sguardo ogni volta che c'è lui nei paraggi o viene nominato. Avrei voluto che mi guardassi allo stesso modo in cui guardi lui: come se non ci fosse nient'altro al mondo».

Mi ammutolii e il sorriso mi si spense lentamente, mentre la preoccupazione tornò a farsi spazio nella mia testa. «Tu credi che io...?»
«Non credo, lo so», mi rispose senza che neanche ci fosse il bisogno di completare la domanda. Schiusi le labbra. La sua consapevolezza mi colpì come un lampo in una notte buia. Era come se un velo fosse stato sollevato, rivelando qualcosa che avevo sempre avuto davanti agli occhi ma che non avevo mai veramente visto. Ci fu un momento di silenzio denso e palpabile tra noi, mentre i nostri sguardi sembravano riempire lo spazio tra le nostre parole non dette.

«Penso sia arrivata l'ora di tornare in campo», disse poi, alzandosi. Feci altrettanto e sorpassai ciò che ci divideva per raggiungerlo. «Chi ti ha mostrato le foto con Janette?» mi domandò poi, abbassandosi per recuperare il suo borsone. Il nome della cheerleader mi indusse a fare una smorfia, che repressi dopo pochi secondi. «Caroline». Inarcò le folte e scure sopracciglia verso l'alto. Io, d'altrocanto, quasi risi per la situazione. «Prevedibile», rispose poi. Annuii, d'accordo con lui.

«Il coach proverà a ucciderti?» Si sistemò il borsone sulle spalle e si prese qualche attimo, prima di rispondere. «Probabile. Ma ehi, sono l'affascinante e forte capitano, sopravvivrò».

Scossi la testa e ridacchiai, poi mi avvicinai ancora di più per circondare il suo busto con le braccia, nonostante il borsone lo impedisse. Ci eravamo fatti del male a vicenda ed entrambi non avevamo vissuto bene la relazione, ma pensai che, forse, non gli avrei negato un'amicizia. Evidentemente sorpreso, ci mise qualche secondo di troppo per ricambiare l'abbraccio, attento a non schiacciarmi con il borsone che aveva posato sulla spalla. Mi strinse tra le sue braccia muscolose e mi parve di sparire nel suo petto ampio. Trattenni il respiro, perché l'odore pungente del suo sudore dovuto all'allenamento mi invase le narici. «Puzzi». Il suo corpo vibrò, scosso da una risata. Parlò e la sua voce calda rimbombò nel mio orecchio appoggiato su di lui. «Se fossi dispettoso ti prenderei la testa e me la metterei sotto l'ascella».

Mi scansai di colpo, spaventata e disgustata. «Non ti azzardare». La sua risata si dissolse lentamente, ma un tenero sorriso non abbandonò il suo volto. «Non sabotarti, Delilah», mi consigliò un'ultima volta, prima di voltare le spalle e allontanarsi.
Rimasi ferma ad osservare la sua figura rimpicciolirsi mano a mano che camminava. Guardai la sua schiena fino a che non svoltò l'angolo e sparì dal mio campo visivo.

«Oh. Mio. Dio», sentii alla mia sinistra. Mi voltai e vidi Savannah comparire all'entrata del locale. Aveva occhi spalancati e luminosi. «Hai origliato?» chiesi, portando i palmi delle mani sui miei fianchi. Lei si spostò per far entrare dei clienti e posò la mano sul suo petto, offesa dalle mie parole. «No, certo che no. Vi ho solo osservati dalla vetrata. Era Leonard quello che voleva fingere di pulire l'altro tavolo per ascoltare».

«Non è vero!» sentii dire dall'interno. Non mi arrabbiai, fui solo divertita dal loro comportamento. «Anche tu amante dei gossip allora. Siete fatti l'uno per l'altra!» urlai per farmi sentire anche da lui.
Savannah schiuse le labbra e avvampò, ammonendomi con lo sguardo. Leonard, invece, non rispose, ma ero certa mi avesse sentita. Sorrisi, ma in quel momento avevo solo voglia di farmi una doccia e stendermi sul letto. «Grazie per il cocktail e per le chiacchiere, ma ora ho bisogno di andare a casa a schiarirmi i pensieri».

Le iridi di Savannah si incupirono e sperai non pensasse che ce l'avessi con lei. «Ci vediamo in questi giorni in libreria», aggiunsi.
«Certo, buon rientro», si addolcì, e io con lei. Le sorrisi un'ultima volta poi, dopo aver recuperato lo zaino, mi incamminai verso casa.

Dopo quel giorno confermai ciò che pensavo sulla vita: la vedevo come un intreccio di luce e ombra, una danza perpetua tra momenti di chiarezza e periodi di incertezza. In questa danza, ogni sfida e anche l'incontro più banale era capace di incidere sull'esistenza o far cambiare punto di vista. Ogni ferita era una porta aperta verso un'evoluzione, verso un maggiore raggiungimento della felicità. E io volevo raggiungerla. Ronny aveva ragione: perché forzare delle situazioni per ottenerla, quando potevo arrivarci in maniera naturale? E soprattutto, perché privarmene, quando ce l'avevo sotto gli occhi?

Lui me l'aveva detto, e io provai a crederci: non doveva andare per forza tutto male.

***
Ho provato a creare Ronald, ma è venuto più figo del previsto.

Comunque l'AI ha un grande problema nel riprodurre le mani😂

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