Capitolo 26
Tic tac...
...tic tac...
...cinquantotto...
...cinquantanove...
...sessanta.
Era passato un altro minuto. Un'ora di ritardo rispetto all'ultimo ritardo.
Frustrato, Aiden abbassò le cuffie sul collo e guardò l'esterno. Il suo respiro caldo si infranse contro la finestra, appannando il vetro spesso. Vi posò la tempia contro, osservando il candore della neve che, soffice, si posava sul pavimento e sui gracili rami degli alberi.
Delilah amava la neve, e lui amava vederla tra di essa. I capelli angelici che si ricoprivano di piccoli fiocchi, il naso e gli zigomi che si arrossavano per il freddo pungente, le iridi che fissavano il paesaggio con meraviglia.
Aiden aveva ragione anche quella volta: non era arrivata in tempo. Convinto di rinfacciarglielo, strinse tra le dita il regalo che aveva acquistato per lei.
Una copia, in lingua originale, di Madame Bovary.
Rispetto ad anni addietro, comprendeva meglio il francese. Con un misto di speranza e nervosismo, pensò a quel dono che aveva scelto con cura, immaginando la sua reazione. Sperava che le sarebbe piaciuto; che, magari, lo avrebbe baciato in segno di gratitudine. In quel modo, solo vedendo la gioia nei suoi occhi, tutto sarebbe tornato in equilibrio.
Sospirò, dopodiché posò il libro sul davanzale, e le cuffie su di esso. Si voltò con le gambe a penzoloni e, con un gesto deciso, posò i palmi delle mani sul piano liscio e freddo, aiutandosi per alzarsi in piedi.
Indossò le pantofole, il morbido tessuto che gli avvolgeva i piedi portando un senso di conforto. Continuò ad attendere, angosciato, il cuore che batteva per l'agitazione.
Per distrarsi, fece un giro su se stesso, scrutando attentamente la stanza. I mobili erano disposti con cura, ogni cosa al suo posto, stabile. Eppure, nonostante quell'ordine apparente, sentiva un tumulto interiore, come se qualcosa non andasse.
Dall'altra parte della casa, si elevò un urlo acuto, poi un rumore di qualcosa che andava in frantumi.
Aiden trasalì, colto alla sprovvista. Portò una mano al petto, dove il cuore aveva preso a battere più veloce. I rumori improvvisi lo spaventavano e gli serviva qualche secondo per ristabilizzarsi.
Le palpebre sgranate si abbassarono per pochi istanti, il tempo di calmarsi. Quando li riaprì, però, si sentì costretto a controllare cosa fosse successo. Era stata sua madre a urlare, ne era certo. Si era fatta male?
Cominciò a camminare, alzando i piedi a ogni passo. Detestava il rumore prodotto dalle pantofole che si trascinavano sul pavimento, quindi tentava di ridurlo il più possibile. Mentre proseguiva, non sentiva più alcun suono proveniente da Margareth. Sembrava anche che stesse trattenendo il respiro.
Entrò in soggiorno e, senza curarsi della televisione accesa in sottofondo, guardò i cocci di una tazza, sparsi sul pavimento come un mosaico di frammenti rotti. Un liquido giallognolo si stava riversando, espandendosi lentamente sulle mattonelle.
Dal basso, Aiden fece scorrere le pupille sulla figura della madre, fino ad arrivare al suo viso. Le sopracciglia erano aggrottate, e un profondo cipiglio si formò tra le due. Le dita erano premute sulle labbra e su parte del viso arrossato.
Gli occhi, coperti da un velo di lacrime, fissavano un punto ben preciso. Aiden seguì la traiettoria del suo sguardo, mentre una strana sensazione cresceva dentro di lui.
Fissò lo schermo del televisore, tentando di comprendere a cosa fosse dovuta tale reazione. La giornalista stava raccontando della strage avvenuta quella mattina. L'attentatore, che aveva ucciso quattro persone, era morto.
Aiden continuò a guardare e si rese conto che, nel grande schermo dietro la donna, erano presenti delle foto. I suoi muscoli si irrigidirono. «Mamma», la richiamò a voce bassa. «Perché c'è una fotografia di Delilah?»
La donna, che solo allora sembrava essersi resa conto della presenza del figlio, si voltò nella sua direzione. Lui, però, non ricambiò il suo sguardo. Continuava a scrutare lo schermo.
«Aiden...» riuscì a dire la donna con voce tremante. Incurante dei cocci che giacevano sul pavimento, fece qualche passo nella sua direzione, le braccia strette attorno a sé, come se potesse abbracciarsi da sola.
Il figlio, però, era totalmente concentrato sulla fotografia ritraente la ragazza dal dolce sorriso. «Perché c'è una foto di Delilah al telegiornale? Cosa c'entra lei con la strage?»
I muscoli del suo corpo sembravano essere divenuti tutt'uno, tesi. Il suo cuore sapeva già ogni risposta: pompava furioso, ma era come se qualcuno lo stringesse in un pugno. Il suo cervello, invece, tentava di rifiutare l'evidente realtà.
Era come ipnotizzato da quell'apparecchio elettronico, che ancora trasmetteva i dettagli della sparatoria. Tuttavia, lui non ascoltava. Non voleva avere alcuna conferma.
«Aiden», ripeté Margareth. Le spalle le sobbalzavano per i singhiozzi del pianto. «Dovresti sederti».
A quel punto, il figlio la guardò. Il petto si muoveva velocemente, le dita presero a tremare. Stava cominciando ad agitarsi.
Osservò il volto di sua madre con espressione neutra, a eccezione dei suoi occhi tormentati. «Per quale motivo stai piangendo? Delilah sta arrivando».
Spostò lo sguardo verso la porta, cominciando a fissarla a lungo. «Vedrai, la troveremo sulla soglia e, come al solito, troverà una scusa per non essere stata puntuale». Aiden annuì, confermando la sua stessa tesi.
Lei gli aveva chiesto di aspettarlo, ed era ciò che stava facendo.
«Guarda, mamma», disse poi, infilando una mano in tasca. Margareth lo scrutava con un peso sul petto, le lacrime che continuavano a scendere.
Aiden afferrò il suo cellulare e lo accese. «Ora la chiamo e lei risponderà». Si rese conto che i pollici tremavano nel cercare il suo contatto. Il suo nome apparve offuscato, quindi Aiden sbatté le palpebre. Lui non piangeva mai, ma in quel momento gli occhi gli bruciarono in maniera automatica.
Fece partire la chiamata e mise il vivavoce. «Risponderà, non è vero?» L'incertezza lo colpì. La voce, dapprima incrinata, si spezzò definitivamente con le ultime parole.
Gli squilli si interruppero, quindi riprovò. Scosse la testa a destra e sinistra, in segno di negazione. «Non mi avrebbe mai abbandonato», affermò. Margareth avanzò ancora, totalmente sconvolta per la notizia, e distrutta per la vista di suo figlio. «Me l'aveva promesso», sussurrò.
Ancora una volta, la chiamata finì nel vuoto.
Sua madre lo richiamò, poi allungò un braccio nella sua direzione, per sfiorargli una spalla. Con la coda dell'occhio, Aiden se ne accorse. Si allontanò di scatto, con palpebre sgranate e respiro affannoso. «No! Non puoi toccarmi, altrimenti la sensazione della sua pelle se ne andrà».
Margareth si bloccò di colpo. Il cuore le doleva e non aveva idea di come comportarsi. Aiden non aveva mai subito un lutto così importante, non sapeva quali fossero le conseguenze dettate dalla sua mente e dal suo corpo.
Mentre lui correva verso camera sua, la madre si sentì sopraffatta da una sensazione di urgenza. Con un gesto deciso, afferrò il telefono e compose il numero del marito, che era uscito per un breve viaggio di lavoro. Avevano bisogno di lui in quel momento.
Ogni squillo sembrava amplificato, creando un'atmosfera di attesa carica di tensione. Quando finalmente sentì la voce familiare rispondere dall'altra parte, un piccolo sospiro di sollievo le scivolò dalle labbra. «Tesoro, sto per salire in aereo».
Margareth tirò su con il naso. Voleva far apparire la voce ferma e rassicurante, ma fallì. «Torna a casa, ti prego».
Il silenzio calò dall'altra parte. Dopo qualche istante, John parlò. «Cos'è successo?»
«Aiden potrebbe avere la crisi peggiore di sempre». Le lacrime presero a colare nuovamente lungo le guance arrossate. «Dammi mezz'ora, sto arrivando. Cerca di calmarti, però. Vederti agitata peggiorerà la situazione».
Margareth strinse le palpebre. «Non ci riesco. Delilah...» Prese una pausa per respirare in modo profondo, cercando di calmarsi. I polmoni si riempirono d'aria fresca, ma la tensione rimaneva. Non riusciva a pronunciare quella parola, che sembrava pesare come un macigno sulla lingua. «Cosa?» La domanda svelava il senso di inquietudine che stava avvolgendo John.
«È morta».
Mentre il silenzio calava per l'ennesima volta, Aiden osservò la sua camera con uno sguardo che tradiva la sua crescente frustrazione. Era un luogo che doveva rappresentare conforto, ma ora sembrava un campo di battaglia. Preso da un'improvvisa esplosione di rabbia, si avvicinò al comodino, un gesto impulsivo che si trasformò in una spinta decisa, ribaltandolo.
Il rumore del legno che sbatteva sul pavimento si mescolò al suono dei cassetti che si spalancavano, liberando indumenti che caddero come foglie in autunno. Quell'ordine, che fino a poco prima gli era sembrato così rassicurante, ora gli dava il voltastomaco.
Ancora scosso, si diresse verso il letto. In un gesto rabbioso, tolse il materasso, scoprendo la rete sottostante. Con una forza che sembrava sgorgare direttamente dalla sua ira, lo sollevò e lo lanciò contro il muro. Il rumore sordo del materasso contro la parete rimbombò nella stanza, ma non bastò a placare la tempesta dentro di lui.
La frustrazione lo spinse a muoversi ancora. Con un movimento brusco, si avvicinò al muro e alzò una mano a mezz'aria, stringendola in un pugno. «Sei una bugiarda. Me l'avevi promesso». Il tono di voce, lieve e tremolante, era completamente in contrasto con i suoi gesti. Colpì la parete e il dolore che ne derivò fu intenso. Il bruciore si diffuse attraverso la mano, ma non si fermò.
Ne diede un altro, nello stesso punto. Avvertiva le nocche bruciare in maniera intensa, ma in quel momento quella sensazione era l'unica che desiderava. Era un dolore tangibile, un modo per esprimere la rabbia che lo aveva assalito. Ogni pulsazione sembrava distoglierlo dai pensieri opprimenti che lo tormentavano, mentre il suo respiro si faceva sempre più affannoso.
Il muro, di un bianco che gli dava fastidio, si era macchiato di rosso, evidenziando la violenza del gesto. Quella tonalità viva era una testimonianza silenziosa della sua esplosione emotiva.
Il rossore della parete rifletteva la tempesta che si agitava dentro di lui. In quel momento di quiete forzata, cominciò a comprendere che la sua rabbia non era solo distruzione, ma un'espressione di sofferenza. Era il bisogno di far emergere un malessere che lo opprimeva, qualcosa di cui non era mai stato capace.
Fissò le sue nocche, che presentavano piccole spaccature. Il corpo era scosso da tremori, mentre le lacrime parvero tornare a coprire le iridi chiare. Il cuore non accennava a calmarsi, mentre la mente creava confusione.
Non poteva. Non poteva spiccare il volo senza di lei che aveva, per l'ennesima volta, spezzato il suo equilibrio. In maniera imprevedibile era piombata nella sua vita, e allo stesso modo se ne era andata.
Eppure aveva promesso. Lo aveva fatto per tutti quegli anni.
Aiden afferrò le cuffie antirumore dal davanzale e le indossò. Le pupille finirono inevitabilmente sulla copertina del libro di Flaubert e, in un primo momento, desiderò distruggerlo.
Tuttavia, non aveva più le forze.
Si voltò e si accasciò lentamente, scivolando con la schiena contro il muro. Nel momento in cui toccò il pavimento, si raggomitolò su se stesso, piegando le ginocchia.
Sentiva rumore, tanto rumore. Con i palmi delle mani, premette con forza le cuffie sulle orecchie, tentando di attutire ogni suono, come se quel gesto potesse isolarlo dalla confusione che lo circondava. Tuttavia, non funzionò.
La confusione non era esterna, bensì gli affollava la mente. E non c'era alcun modo per portare silenzio nella sua testa.
Ogni giorno sarebbe stato segnato da una mancanza, un vuoto che lo seguiva come un'ombra. Sentiva che una parte di lui era rimasta intrappolata in un istante. I suoi passi avrebbero continuato a muoversi nel mondo, ma il cuore avrebbe battuto con un ritmo diverso, più lento, come se stesse cercando di trovare un nuovo equilibrio.
Da quel momento in poi, come un'opera incompiuta, Aiden avrebbe vissuto una vita a metà.
***
Sono distrutta.
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