Capitolo 16
Presente
«Bentornata», sorrisi a mia madre, che senza neanche salutare si lasciò cadere su una delle sedie attorno al tavolo. Aveva un aspetto terribile: i lineamenti tesi erano segnati da una stanchezza quasi innaturale e le iridi luminose erano offuscate, come se il suo affaticamento non fosse solo fisico. «Ti preparo un tè?»
Si passò una mano tra le ciocche bionde per dargli una sistemata, poi mi rivolse un sorriso che non le arrivò agli occhi, contornati da semicerchi scuri. «Sì, grazie».
Mi fiondai ai fornelli e misi subito l'acqua nella teiera, riscaldandola fino a portarla all'ebollizione. Dovetti attendere qualche minuto, poi un fischio sovrastò il ticchettio dell'orologio appeso alla parete. Presi due tazze dal mobiletto sopra il lavabo, il tintinnio della ceramica che riempiva il silenzio della cucina. Versai l'acqua bollente, che fece elevare delle nuvolette di vapore. Aggiunsi le bustine di infuso, guardando i colori diffondersi nell'acqua e, dopo aver afferrato entrambe le tazze, attraversai la stanza per raggiungere mia madre. Speravo che quel piccolo gesto potesse alleviare, almeno per un momento, il peso che sembrava gravarle sulle spalle.
Mi morsi la lingua per trattenere qualche imprecazione e posai immediatamente le tazze, poi soffiai sui palmi delle mie mani. La donna, dal basso, guardò la scena divertita e io le lanciai un'occhiata offesa. «Che succede?» le domandai mentre mi accomodavo.
Non incrociò i miei occhi, i suoi si persero in un punto indefinito del tavolo. «Sono molto stanca. Il viaggio non è stato un granché piacevole e ho dovuto tenere sempre il cervello attivo per assimilare le diverse informazioni, oltre che per scattare le foto migliori».
«E poi?» Mi portai la tazza alle labbra, ma la posai immediatamente perché mi ustionai la lingua dopo il primo sorso. La osservai sospirare. «Tim», rispose soltanto.
La mia attenzione aumentò. Tim era un suo collega, si occupava di revisionare gli articoli ed eventuali interviste. Era successo qualcosa con lui? Mentre il mio cervello mi comunicava che sarebbe stata la scelta giusta per mamma, il mio cuore sperava non fosse così.
«Cosa c'entra Tim?»
Passò l'indice lungo la superficie della ceramica e attese qualche secondo di troppo prima di rispondere. «Ieri sera mi ha chiesto di fare una passeggiata dopo cena. Abbiamo camminato, parlato del più e del meno, riso. Ha fatto un sacco di battute pessime, avevo capito che ci stesse provando. Quando siamo tornati in albergo mi ha accompagnata fuori la camera e mi ha baciata». Sentii il cuore in gola e trattenni il fiato.
«L'ho respinto subito e dopo essermi scusata sono letteralmente fuggita». Trattenni un sospiro di sollievo. Finalmente alzò lo sguardo su di me. «Mi continuo a ripetere che sono una donna di quasi trentasette anni, sono giovane e devo andare avanti. Ho bisogno di conoscere altri uomini in senso romantico, ma non ci riesco». Sfregò le dita sulla fronte e vidi i suoi lineamenti contorcersi in una smorfia sofferente. «Non dovrei neanche parlarne con te», aggiunse.
Avvicinai la mia sedia alla sua. «Certo che devi. Siamo migliori amiche, no?»
Sbuffò un sorriso sincero, poi mi guardò. «Sì, sei l'amica migliore che possa mai avere». Mi morsi una guancia e sentii il petto gonfiarsi d'orgoglio. Poi una domanda mi balenò in mente.
«Sei ancora innamorata di papà?»
Tentennò. «Siamo stati insieme per sedici anni, Delilah. Certamente i miei sentimenti non potranno mai svanire del tutto».
La risposta era: sì, lei lo amava ancora.
Prese a sorseggiare il suo tè, sembrava stare meglio rispetto a poco prima. «Dimmi di te. Cos'hai fatto in questi giorni?»
Sgranai gli occhi e mi grattai il collo. «Sono stati molto...esaustivi», dissi, portando nuovamente la tazza alle labbra.
Il liquido caldo attraversò la mia gola e mi diede un senso di sollievo. Le temperature continuavano a scendere ed ebbi la sensazione che nel giro di qualche settimana avrebbe nevicato.
Mamma mi spronò a dirle qualcosa in più, così la accontentai. «Ad Aiden è salita la febbre e Margareth lo sta costringendo a stare a letto, anche se lui ha intenzione di seguire il suo programma, malgrado a malapena si regga in piedi».
«Cavolo, mi dispiace. Del resto con questo tempaccio bisogna stare attenti». Trattenni una risata. «Già».
Inarcò un sopracciglio chiaro. «Perché sembri divertita?»
«Perché è a causa mia se si è ammalato. L'altra sera c'era il temporale e quando Margareth mi ha chiamata per sapere se fosse tutto apposto, lui ha sentito che mi trovavo a casa da sola. Si è fiondato fuori e ha iniziato a correre sotto la pioggia in pigiama e ciabatte solo per raggiungermi», le raccontai, senza riuscire a trattenere un sorriso.
«Credo che ora stiamo insieme», scrollai le spalle. Mamma cominciò a tossire e io sgranai le palpebre. «Vuoi due schiaffi sulla schiena?»
«Sto bene, mi è andata la bevanda di traverso», mi spiegò, come se non lo avessi visto con i miei occhi. Mi guardò. Aveva l'aria sconvolta. «Ne abbiamo parlato poco fa, non credevo sarebbe accaduto così velocemente».
Sogghignai. «L'ho praticamente assalito».
«Delilah!» Il modo in cui la voce divenne acuta mi fece ridere. Io e lei avevamo sempre parlato di tutto. Ritenevo che il nostro fosse un rapporto del tutto normale, ma per alcuni non era così. Spesso mi veniva fatto notare che era strano. Una ragazza una volta mi disse che il nostro legame era invidiabile, perché lei -così come altri adolescenti- non riusciva a confidarsi così apertamente. A me, al contrario, veniva naturale.
«Il giorno dopo è stato imbarazzante. Papà ci è venuto a prendere e siamo passati in libreria. Mi ha acquistato un libro per bambini che ho accettato giusto per farlo felice». Mamma fece un sorriso triste. Gli angoli delle labbra si sollevarono appena. Le accennai della nostra conversazione in auto e le vidi gli occhi luccicare. Voleva resistere al pianto. Perciò, le raccontai qualcosa per farle risollevare il morale.
«Indovina chi lavora al ristorante in cui mi ha portato papà? Non ricordo come si chiama il posto, ma è piccolo ed accogliente. La loro carne è deliziosa. Al solo ricordo mi viene l'acquolina in bocca».
Notai il suo viso illuminarsi nel vedermi d'improvviso così euforica. «Chi?» mi assecondò.
«Scott Lynch», risposi. Le sue sopracciglia scattarono in alto e un sorriso si allargò sul suo volto. «Scotty?»
Annuii. Era uno dei migliori amici di papà al liceo, giocava in squadra con lui e in poco tempo si era legato molto anche alla mamma. Non lo avevo riconosciuto. L'unico ricordo di lui risiedeva nelle foto che mi avevano mostrato i miei genitori quando ero più piccola. «È stato piuttosto imbarazzante quando ha capito chi fossi. Mi ha abbracciata in modo un po' invadente e ha provato a sollevarmi in aria, rischiando di rovesciare il tavolo in cui eravamo seduti. È dovuto intervenire papà per dirgli di mettere le mani a posto», arricciai le labbra al ricordo.
Mamma rise, poi scosse la testa. «Vedo che non è cambiato. Come mai è qui?»
«Ha letteralmente detto: "ho mandato a fanculo quel posto di merda pieno di stronzi e sono tornato dove veramente voglio stare, che cazzo". Papà l'ha di nuovo ammonito e gli ha detto di limitare le parolacce». Da quel che avevo capito, Scott era stato obbligato dai suoi genitori a seguire una strada che non faceva per lui. A differenza di papà, aveva sempre desiderato di continuare con l'hockey, ma non aveva avuto scelta.
Vidi mia madre sgranare di poco le palpebre. «Quindi si è laureato in medicina, si è specializzato in chirurgia e ora ha mandato tutto a fanculo?» Annuii. «Proprio da lui», sorseggiò ancora il suo tè.
«Mi ha anche chiesto di te, sempre in modo indiscreto, ovviamente. Ha domandato se fossi ancora uno schianto», bevvi il liquido divenuto tiepido.
Le guance le si tinsero di una tonalità rosata. Nascosi un sorriso dietro la tazza, perché sapevo che la sua reazione fosse dovuta alla presenza di mio padre alla scena. «James è intervenuto anche qui?» Tentò di mostrarsi indifferente, ma non abboccai.
«"Non fare mai più apprezzamenti su mia moglie"», lo scimmiottai. «Poi gli ha dato uno scappellotto sulla nuca».
Fui certa che il suo cuore saltò un battito perché io, assistendo a quella scena, stavo per avere un mancamento.
Si schiarì la gola e si alzò, mettendo fine alla nostra conversazione. Ritenni però, che avevamo fatto passi avanti, dato che la volta precedente si era subito arrabbiata. Andò a sciacquare la sua tazza e la raggiunsi con la mia.
«Tesoro, vado a farmi una doccia e poi mi riposo. Sono sfinita», affermò.
«D'accordo, io vado da Aiden». Mi abbassai per aprire il forno, da cui fuoriuscì un dolce profumo. Mamma mi affiancò e posò le mani sulla vita stretta. «Potevamo mangiarne un po'», si lamentò.
Le lanciai un'occhiata torva e non risposi. «Cosa? Devi far colpo su tua suocera?» mi prese in giro.
Sbuffai, perché ero certa fosse solo la prima delle innumerevoli battutine che mi avrebbe riservato. Posai il vassoio sul ripiano della cucina e mamma mi lasciò un bacio sulla guancia. Poi, dopo aver rubato un biscotto, si allontanò.
«Non assalirlo ora che è debole!» urlò per deridermi. Come volevasi dimostrare...
Emisi un verso di disappunto e mi affrettai a mettere i biscotti con scaglie di cioccolato all'interno di un contenitore.
Poiché indossavo un maglione dal tessuto leggero, mi infilai il cappotto nero che mi arrivava fino alle ginocchia. Presi chiavi, cellulare e uscii.
Sentii immediatamente l'aria fredda pizzicare la pelle, facendomi rabbrividire. Il vento gelido mi colpì in pieno viso, facendomi tirare su il bavero del cappotto. Ogni respiro si trasformava in una piccola nuvola di vapore, mentre le mie mani, che circondavano il contenitore, cominciarono a tremare.
Il cielo era grigio, opprimente, e il sole, ormai quasi nascosto, proiettava una luce pallida e distante. Camminavo rapidamente, cercando di tenere il passo per non lasciar penetrare troppo il freddo. Calpestai più volte il prato ricoperto da uno strato di brina, che scricchiolava sotto le mie scarpe.
Mentre avanzavo, sentivo il freddo insinuarsi attraverso le pieghe dei vestiti, come un ospite indesiderato che cercava di insinuarsi sotto la pelle. Imprecai, perché la temperatura era diventata così rigida nel giro di due giorni.
Finalmente, dopo quella che sembrò un'eternità, intravidi la porta della casa che stavo cercando. Un senso di sollievo mi pervase e accelerai il passo, sapendo che presto sarei stata accolta dal calore e dalla luce dell'interno.
Strinsi il contenitore con una mano e allungai l'indice dell'altra per suonare il campanello. Attesi qualche secondo, poi la porta si spalancò rivelando la presenza di John. Cercai di non mostrarmi stupita e gli rivolsi un sorriso cordiale. Le sue sopracciglia scattarono verso l'alto, dopodiché ricambiò il mio gesto. Si spostò per farmi passare e quasi sospirai di sollievo quando chiuse la porta e fui avvolta dal calore di quelle mura.
«Vi ho portato dei biscotti», annunciai, mentre Margareth faceva il suo ingresso nel soggiorno. «Delilah!» Il modo in cui il suo sguardo si illuminò, mi fece dedurre che fosse a conoscenza di ciò che stava accadendo tra me e suo figlio.
Le regalai un sorriso timido e le porsi il contenitore che avevo tra le mani. Lo guardò e mi ringraziò. Sapevo fosse amante dei dolciumi, quindi sperai fossero di suo gradimento. «Sedetevi», disse John. «Vi porto qualcosa da bere».
Dopo aver sfilato il cappotto, ci accomodammo sul divano e Margareth mi comunicò che Aiden si trovava sotto la doccia. Dopodiché, osservò il punto in cui suo marito era sparito. «È tornato prima solo perché gli avevo detto che nostro figlio si sentiva poco bene», fece un lieve sorriso.
Si voltò verso di me e i suoi occhi cercarono i miei. «Aiden mi ha accennato qualcosa. In realtà più che qualcosa. Gli ho chiesto cosa avesse fatto e stava scendendo troppo nei particolari».
Sentii le guance prendere fuoco. Mi promisi di spiegargli cosa dovesse raccontare e cosa no, tuttavia era un compito abbastanza arduo.
«Grazie», sussurrò. «Sei sempre stata un angelo caduto dal cielo, per me». La sua mano tremò nel spostarmi una ciocca di capelli dietro l'orecchio in un gesto affettuoso. «È terribile da dire, ma ho sempre avuto paura che non riuscisse mai a trovare qualcuno capace di amarlo. È un mondo talmente crudele». Gli occhi le si arrossarono.
L'ho sempre trovata una donna e una madre splendida, con due palle enormi. Fu inevitabile per me, sentire gli occhi pizzicare. «È la persona migliore che mi sia capitata. Sono sempre stata consapevole di averlo incontrato per un motivo. Anche se all'inizio sembrava un po' freddo, non mi ha mai abbandonata, mai. È sempre stato una certezza», le confidai.
Mi aveva appena confidato che pensava io fossi un angelo, ma si sbagliava. Lui era il mio. Non era mai stato un semplice amico, ma qualcuno capace di farmi aprire gli occhi sulle varie sfumature del mondo. Fin da bambina, era sempre stato un esempio.
John tornò, e nel vedere la scena sembrava propenso a voler tornare indietro, ma sua moglie lo aveva sentito. Si affrettò ad asciugare le lacrime accumulate agli angoli degli occhi e si schiarì la gola. «Oh, quel succo di frutta è delizioso», cambiò discorso dopo aver adocchiato ciò che il marito aveva tra le mani.
Posò tutto sul piccolo tavolino di fronte al divano e cominciò a versare la bibita nei bicchieri. Me ne passò uno e lo ringraziai.
«Come procede la scuola?» domandò proprio lui.
«Molto bene, grazie». Mi impegnavo quanto bastava per avere voti nella media. Non ero una frana, né tantomeno eccellevo. Ero mediocre e mi andava bene così.
Stavo per chiedere come andasse il lavoro, ma Aiden apparve nel soggiorno. Lo guardai e uno strano calore mi invase il petto. Non si era reso conto della mia presenza, aveva gli occhi fissi sullo schermo del cellulare. «Tesoro, non saluti Delilah?»
La sua testa scattò verso l'alto e in un istante i suoi occhi si incatenarono ai miei. «Come ti senti?»
«Che ci fai qui?» domandò a sua volta. Scrollai le spalle. «Ho portato i biscotti». Avrei voluto aggiungere che gli avevo mandato ben due messaggi che lui non aveva visualizzato, ma non volevo fare la figura dell'idiota disperata davanti ai suoi.
«Hai ancora la febbre?» tentai nuovamente. Scosse la testa. «Si è abbassata».
«Ma domani resterai a casa», si intromise sua madre, con voce severa. Aiden fece una smorfia, ma non ribatté. Tornò a guardare lo schermo del cellulare e i suoi occhi si illuminarono, dopodiché prese a digitare.
La voglia di sapere con chi scambiasse messaggi mi stava logorando dentro ma, ancora una volta, tacqui.
«Con chi ti scrivi con tanta foga?» Fortunatamente non ero l'unica curiosa. «Hannah», rispose lui, atono.
Il cuore cominciò a battere all'impazzata. I miei, di messaggi, neanche li aveva visti. Strinsi l'orlo del maglione tra le dita e ignorai la fitta che sentii allo stomaco. Mi faceva male il petto. Avevo quasi dimenticato l'esistenza di quella ragazza. C'era qualcosa in lei che non mi convinceva, ma una parte di me mi indusse a credere che fosse un'idea dettata dal fastidio.
«Forse è meglio se torno a casa. Mamma è appena tornata e non voglio farle cucinare la cena», mentii. L'avevo già preparata nel primo pomeriggio, dovevo solo riscaldarla.
Mi misi in piedi, ma lo sguardo di Aiden tornò su di me. «Non vieni di là con me?» Mi si strinse il cuore. Lo fissai indecisa e nel momento in cui i suoi occhi finirono sulle mie labbra, cedetti. Annuii. «Non mi trattengo a lungo, però».
Seguii Aiden fino in camera sua, a testa china. Si sdraiò sul letto e io rimasi immobile al centro della stanza. «Ti gira la testa?»
Si portò la mano sulla fronte. «Un po'». Mi guardò da sotto le folte ciglia e si spostò per fare spazio. «Che fai lì impalata? Vieni qui».
Posai gli occhi sul grande davanzale presente nella stanza e mi avvicinai ad esso. «Non voglio stendermi con i vestiti con cui sono uscita». Era qualcosa che lui detestava, perciò non insistette.
Adagiai i palmi delle mani sul marmo freddo e mi feci forza con le braccia. Neanche a dirlo, non funzionò. Era alto, mi arrivava al petto. Senza contare che ero una pappamolle.
Ci riprovai, ma non riuscii a stare sollevata neanche un paio di secondi. Sentii Aiden ridere dietro di me. «Ci riesci o pensi di arrenderti e venire vicino a me?»
Il suono dolce della sua risata mi fece tremare, ma invece di mostrarlo, sbuffai. Mi voltai verso di lui e increspai le labbra in un broncio. Mi avvicinai, poi mi tolsi le scarpe. Seguì ogni movimento, con un dolce sorriso a dipingergli il volto.
La mia attenzione fu catturata da qualcosa sul suo letto: un libro. Uno di quei romanzi strappalacrime che leggevo io. Riconobbi la copertina e aggrottai le sopracciglia. «Quando me l'hai rubato?» lo indicai.
«L'ho comprato». Lo guardai confusa. Sembrava serio. «Sono tornato in libreria il giorno stesso in cui siamo andati. Me l'ha consigliato la tua amica». Non riuscii a trattenere un sorriso, mentre mi stendevo al suo fianco, spostando il libro per non rovinarlo. Mi accoccolai al suo petto e con l'indice cominciai a tracciare linee immaginare sulla maglietta del pigiama.
«Ti ho scritto oggi», mormorai. Si allontanò per fare in modo che alzassi lo sguardo sul suo viso. Pareva spaesato. «Davvero?» Assottigliai le labbra e sospirai. «A quanto pare i messaggi di Hannah ti hanno distratto», commentai.
Mi avvicinai nuovamente a lui, non volevo leggesse le mie emozioni contrastanti. Mi stavo comportando da vera stupida.
«Ha trovato un sito internet in cui ha acquistato quei cereali che il supermercato in cui vado non vendono più. Le sono arrivati e domani me li porterà».
Le mie sopracciglia scattarono verso l'alto. «Qui?» domandai, alzando di troppo la voce. Fui io a scostarmi per guardarlo negli occhi. Nel notare la mia espressione, sorrise di nuovo. «Sei gelosa, Delilah?» Il cuore martellò nel petto talmente forte che mi parve di sentirlo in gola.
Mi accarezzò il viso con movimenti leggeri e teneri. Non risposi e il suo pollice raggiunse il neo che avevo sulle labbra. «Leggendo, ho saputo dare un nome ad alcuni di quei sentimenti che ho sempre provato ma che non sono mai riuscito a comprendere», confessò.
Mi accorsi di star sorridendo per il dolore che avvertivo alle guance. «Vorrei tanto baciarti da quando ti ho visto prima, ma non voglio mischiarti l'influenza».
«Fallo».
Guardò incerto i miei occhi, ma quando mi protesi verso la sua bocca mi accontentò. Era bollente e fui sicura che la febbre gli fosse tornata. Però, se fosse stata una conseguenza del nostro bacio, sarei stata felice di contagiarmi.
I miei capelli scivolarono morbidamente sul cuscino, e avvertii il suo respiro leggero e regolare che accarezzava il mio viso. Sentivo il calore del suo corpo vicino al mio, e ogni preoccupazione sembrava dissolversi in quell'istante.
Con un gesto delicato, il suo pollice sfiorò la mia pelle con una tenerezza infinita. Chiusi gli occhi, inclinando leggermente il capo verso di lui, per assaporare meglio quella sensazione di contatto.
Quando si staccò, mi lasciò lievi baci sul viso, poi posò la sua fronte sulla mia. Era decisamente caldo. «Andiamo a un appuntamento», sussurrò.
Sollevai le palpebre. Le sue iridi cristalline erano già posate sul mio volto. «Lo vuoi?» domandai per esserne certa.
Il mio sorriso si ampliò quando annuì.
«Potremmo andare a cena fuori. Sembra quasi incredibile che in tutti questi anni non lo abbiamo mai fatto da soli. Facciamolo venerdì, così vieni a casa mia, ci guardiamo un film e rimani a dormire qua».
Trattenni la voglia di sbattere le gambe elettrizzata, ma fui certa che la mia espressione trasmettesse tutta la mia emozione. Quasi mi lanciai su di lui per nascondere il viso nell'incavo del suo collo. Con la punta del naso solleticai la sua pelle. Il suo petto vibrò sotto di me. «Che reazione esagerata», commentò.
Non pensai fosse come l'aveva definito lui. Per me, andava sempre oltre i confini che si era imposto, superando ogni aspettativa. Ogni suo gesto, ogni sua parola, alimentava la mia gioia in modi che lui probabilmente non immaginava nemmeno. Era come se il suo sforzo, apparentemente inconsapevole, riuscisse a portare la mia felicità a vette che non pensavo di poter raggiungere.
Appoggiai le mani sulle sue spalle e mi tirai su per guardarlo. Ero finita sul suo corpo, ma non sembrava infastidito. Prese ad accarezzare la mia schiena da sotto il maglione. Anche lui sembrava contento. «Che vorresti mangiare?»
«Sushi!»
Inarcò un sopracciglio. «Mi pare che l'ultima volta tu abbia detto che non l'avresti più mangiato perché ti sei sentita male».
Alzai gli occhi al soffitto. «L'avevo detto perché ero piena. Mi basta mangiare di meno».
«Lo dici tutte le volte, ma non lo fai mai», ribatté. Gonfiai le guance per sbuffare, riconoscendo che, in effetti, aveva ragione. Il sushi era la mia debolezza. Andavo ai ristoranti "all you can eat" e ordinavo senza freni. Non era colpa mia se ne ero così golosa. Tuttavia, finivo sempre per abbuffarmi e passavo le ore successive a lamentarmi, promettendo che non lo avrei neanche più guardato da lontano. Ovviamente, non era altro che una bugia.
«Stavolta andrà meglio». Aiden finse di credere alle mie parole e, soddisfatta, posai la testa sul suo petto, facendomi cullare dal battito regolare del suo cuore e dalle sue dita che si muovevano delicate lungo la spina dorsale.
«Ti va di leggermi qualche capitolo? Sono arrivato più o meno a metà». Mi spostai dal suo corpo e mi misi a sedere, poi annuii. Aiden si alzò e adagiò la schiena alla tastiera del letto, poi divaricò le gambe. «Vieni qui».
Mi morsi il labbro inferiore e, dopo aver afferrato il libro, lo assecondai. Mi posizionai tra le sue gambe e mi appoggiai contro di lui. Posò il mento sulla mia testa e non riuscii a fare a meno di sorridere.
Sembrava tutto così perfetto, anche troppo. Io e Aiden avevamo superato il confine dell'amicizia, Savannah si stava insinuando nella mia vita insieme a Leonard, e io e mia madre eravamo sempre più unite. Infine, anche mio padre era tornato a far parte della mia quotidianità.
Sembrava che nulla potesse andare storto.
***
Buonasera, sono tornata (con ogni organo al loro posto), dunque aggiornerò nuovamente tutti i giorni!
O almeno, finché ho i capitoli pronti.
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