Capitolo 1

Dieci anni dopo

«Vaffanculo, Ronny», esplosi. Assottigliai lo sguardo, trattenendomi dal voltarmi verso i suoi stupidi amici per poter dirne quattro anche a loro. Ci pensò lui a lanciargli un'occhiata di ammonimento, ponendo fine ai loro fischi e le loro prese in giro. Il capitano della squadra di basket mi osservò implorante, con sopracciglia aggrottate e iridi tristi. La mia espressione non mutò, non mi lasciai scalfire dalle sue parole dolci e false.

«Dai, piccola. Perdonami». Allungò le dita verso la mia tempia per scostarmi i capelli dietro l'orecchio, dopodiché si abbassò di qualche centimetro. Ciocche castane mi solleticavano la pelle del viso, mentre il suo respiro caldo si infrangeva sul mio zigomo, ove lasciò un bacio. Sentii il mio cuore dolorante stringersi, ma non mi rilassai sotto il suo tocco. «È te che voglio, Delilah», sussurrò.

Serrai la mandibola e chiusi la mano in un pugno, costringendo me stessa a non credere nemmeno a una delle sue lusinghe. «È finita», riuscii a pronunciare con tono duro, prima di fare un passo indietro e voltarmi. Provai a camminare, ma il mio polso venne stretto dalle sue dita lunghe e calde. Mi tirò a sé e la mia schiena si scontrò con il suo petto grande e muscoloso. Sentii il suo fiato sulla mia nuca e, ancora una volta, un profumo non suo ad invadermi le narici. «Ti giuro che tra me e Caroline non c'è nulla».

Nel sentire quel nome, un sorriso amaro si fece largo sul mio viso e ci volle più forza di quanto pensassi per trattenere le lacrime. Sentii un dolore acuto all'altezza del petto, prima di parlare nuovamente. «Le foto che ho visto ti ritraggono con Janette».

I suoi muscoli, coperti dalla canottiera della squadra, si irrigidirono contro di me e compresi che era tutto vero. Lui mi aveva tradita e, a quanto pare, non solo con la cheerleader che credevo io. Mi diedi della stupida, ma non lo dissi ad alta voce. Non parlai più.

I compagni di squadra di Ronald ripresero con il brusio e mi diede fastidio che ascoltassero e commentassero cose tanto private. «State zitti, cazzo!» sbraitò il ragazzo dietro di me e approfittai della sua distrazione per divincolarmi dalla sua presa e allontanarmi dalla palestra della scuola. Non mi misi a correre, ma camminai abbastanza in fretta da raggiungere l'uscita in poco tempo. Il mio ormai ex ragazzo mi richiamò diverse volte, ma feci finta di non sentirlo e mi addentrai nei corridoi. Lontana da lui, dai suoi amici e da ciò che per pochi mesi ci aveva legati. 

Le lacrime però, solcarono inevitabilmente le mie guance rosee e mi affrettai ad asciugarle solo nel momento in cui, accanto al mio armadietto, vidi Aiden. Guardava fisso dinanzi a sé, ma ero ben consapevole che era chiuso nel suo mondo che ancora faticavo a capire. Indossava le solite cuffie antirumore, utili per distanziarsi dalla confusione che non tollerava. Fui ben attenta a farmi notare, senza correre il rischio di spaventarlo e, quando le sue iridi cristalline si scontrarono con la mia figura, tirai su un sorriso. Aiden abbassò le cuffie e le appoggiò sul collo, dopodiché si spostò di poco per farmi aprire lo sportello.

«Sei in ritardo di tre minuti e quarantasette secondi». Il sorriso finto con cui lo avevo accolto si trasformò ben presto in uno sincero. Sistemai i libri nel mio zaino e gli risposi. «Beh, è andata meglio rispetto all'ultima volta».

«No, sei in ritardo rispetto all'ultimo ritardo»
Chiusi con forza l'armadietto e trattenni una risata. «Puntiglioso».

«Se continui così arriverà il momento in cui ce ne andremo a notte inoltrata», disse, affiancandomi per camminare verso il cancello della scuola. Alzai un sopracciglio e lo guardai di sbieco. «Stai usando dell'ironia?»

Lo vidi aggrottare la fronte, probabilmente stava cercando di capire quale fosse la battuta nella sua frase. «No», rispose, prendendo del gel disinfettante dal taschino del suo zaino. Me lo porse, ma reclinai l'offerta e lui se ne mise qualche goccia sulle mani. «È statistica».

Risi e scossi la testa divertita. Alzai gli occhi verso il cielo nuvoloso, con ancora l'ombra di un leggero sorriso sulle labbra.
«Hai pianto», sintetizzò e un senso di nausea si fece spazio nel mio stomaco stretto in una morsa. Non dissi nulla. Sapevo di non poter mentire ad Aiden. Lui possedeva un ampio senso di osservazione e capiva quando le persone a cui teneva dicevano bugie. «Ho lasciato Ronald».

Lanciai un'occhiata alla mia sinistra per vedere la sua reazione e lui annuì deciso. «Hai fatto bene». Lo guardai ancora, lievemente stupita dalla sua risposta. Osservava la strada davanti a sé, occhi seri, mascella squadrata, tratti più duri di quando l'avevo conosciuto. «Già», sospirai.

«E allora perché piangi? È stato cattivo con te?» Si voltò nella mia direzione e dovette inclinare un po' il collo per puntare i suoi occhi chiari nei miei. Sorrisi a malapena. «Un po'».

«Ti avevo avvertita». Alzai gli occhi al cielo, anche se aveva ragione. Quando non si trattava delle sue relazioni, sentiva a pelle se una persona era buona o meno e il fatto che fosse irrequieto quando Ronald era nei paraggi avrebbe dovuto tenermi sull'attenti. Invece avevo deciso di buttarmi a capofitto in quella relazione nella speranza di aver trovato, almeno per quella volta, la persona del mio destino.

«Ora può andare a farsi fottere», guardai nuovamente il paesaggio dai colori autunnali e abbassai le palpebre per godermi il suono che emettevano le scarpe a contatto con le foglie secche. «Da chi?»

Aiden era confuso e la sua domanda innocente mi costrinse a bloccarmi per ridere con forza. Mi piegai sulle ginocchia e poggiai i palmi delle mani sulle cosce. «Scusami», riuscii a dire e, quando mi rimisi dritta, la sua espressione non fece altro che farmi ridere nuovamente. Le sue labbra rosse erano arricciate e le sopracciglia quasi si toccavano fra di loro. «Era un modo di dire. Ma, per rispondere, da chiunque lui voglia».

Spesso dimenticavo che lui comprendeva solamente il significato letterale delle frasi e che faticava a capire anche cose come il sarcasmo.

Aiden era una persona molto particolare e, nonostante la sua confusione, riusciva sempre a farmi sorridere. La sua domanda ingenua era solo uno dei tanti segni del suo essere. Spesso mi chiedevo cosa passasse per la sua testa e quanto fosse difficile per lui relazionarsi con gli altri. Ma nonostante queste difficoltà, o forse proprio per queste, Aiden aveva un cuore grande e un'anima pura.

«Ti va di andare in libreria?» provai a chiedere, quando riprendemmo a camminare. Lo sentii grugnire al mio fianco. Sapevo che non avrebbe accettato subito. Aveva la vita e le giornate organizzate per filo e per segno e qualsiasi cosa fuori programma lo turbava. Sapevo che il mio ritardo era già stato sufficiente per scombussolarlo. «Delilah...»

Mi lanciò un'occhiata frustrata, mentre contraeva la mascella e stringeva le bretelle del suo zaino con le sue dita pallide. Io gli mostrai un gran sorriso, assumendo un'espressione convincente e, allo stesso tempo, implorante. Fece un sospiro capace di farmi sentire lievemente in colpa, poiché decise di arrendersi e assecondarmi, andando contro i suoi stessi principi.

«Potremmo anche passare a prendere un gelato», proposi.
«Non esagerare».
Assottigliai le labbra fino a formare una linea retta, consapevole del grande sforzo che già stava facendo. Invece di proseguire dritto, svoltammo a destra per dirigerci nel mio luogo preferito.

«Com'è andata la giornata?» chiesi. Ero apprensiva, probabilmente anche troppo, ne ero consapevole. Però nonostante i suoi diciassette anni era ingenuo quando si trattava di sé e, poiché lui era tanto buono e diceva sempre la verità, era convinto che anche gli altri facessero lo stesso con lui. La sua risposta fu un ulteriore motivo per preoccuparmi. «Bene», disse e, notando il mio silenzio, capì di dover argomentare. «Credo di aver fatto un nuovo amico: Benjamin. Più che altro lui mi ha chiamato "amico". Mi ha chiesto di fargli la ricerca di letteratura moderna».

«E perché dovresti fargli la ricerca?»
«Sua nonna sta male».
Sospirai, sconsolata. «Aiden...» mormorai. «Vedi, ci sono persone che dicono bugie, spesso per un doppio fine. Non sono tutti come te. Non tutti sono-»

«Autistici?», mi interruppe lui, con un tono di fastidio più alto nella voce.

Il respiro mi morì in gola, divenuta secca per l'incapacità di proferire parola. Chinai la testa, prendendo a giocherellare con il bracciale in argento che tenevo legato al polso. «Sai che non ho detto questo».

«Sì, ma spesso ti comporti come tutti gli altri e ti dimentichi che sono prima di tutto un essere umano, non un robot. Anche se spesso non capisco i modi di dire, l'ironia o fatico a relazionarmi, non significa che non abbia gli stessi impulsi di qualsiasi diciassettenne. Mi trattano tutti con riguardo, come se avessi ancora otto anni. Devo provare io stesso il male che le persone possono procurarmi».

Ero consapevole di sbagliare, lo sapevo perfettamente, ma ritenevo Aiden troppo per questo mondo e questa società. Era inevitabile preoccuparmi per lui, dopo tutte le volte che lo avevo visto essere vittima di bullismo. E diamine, lui non se ne accorgeva. Lo sfottevano sarcasticamente e lui non se ne rendeva conto. O, almeno, non lo dava a vedere e si faceva scivolare tutto addosso.

«Non cercare di proteggermi costantemente, Delilah». Ancora una volta, puntai i miei occhi nei suoi, così sinceri e supplicanti. Annuii impercettibilmente, chiedendogli scusa con lo sguardo. Al che, lui fece un sorriso tenue. Non ne faceva molti, ma la maggior parte delle volte erano dedicati a me e io li imprimevo nella memoria, perché erano capaci di farmi battere il cuore più velocemente.

Aiden si fermò e mi resi conto che eravamo giunti a destinazione. La grande vetrata mostrava la classifica della settimana che, tra parentesi, avevo già visto il giorno precedente. Però, ahimè, non mi sentivo dell'umore per leggere il libro tanto allegro che avevo acquistato.

Entrai e, come ogni volta che mettevo il piede lì dentro, chiusi gli occhi. Inspirai e mi godetti l'odore emesso dalla carta, tanto intenso quanto acre.
Cominciai a camminare tra gli scaffali puliti in modo impeccabile. Passai davanti alla narrativa, alla saggistica e continuai a guardarmi intorno estasiata, come se non conoscessi quel posto come le mie tasche. Un titolo, in particolare, catturò la mia attenzione. Afferrai il libro e, tenendolo con entrambe le mani, mi voltai e lo alzai sulla testa, mostrando la copertina a Aiden, che nel frattempo aveva indossato nuovamente le cuffie antirumore.

Lontano qualche metro, socchiuse gli occhi per leggere il titolo e notai un guizzo sul suo viso, poiché tentava di trattenere un sorriso divertito. In compenso, alzò il dito medio nella mia direzione, mandandomi velatamente in quel posto che ormai conoscevo bene.
Risi e poi rimisi "10 metodi per capire il sarcasmo" al suo posto. 

«Non credevo che saresti tornata così presto», disse una voce alle mie spalle. Quasi sussultai per lo spavento che mi aveva causato. Mi voltai verso la figlia della proprietaria, presente ogniqualvolta mettessi piede lì. Savannah -così si chiamava- mi sorrise dolcemente, posando una mano sul fianco.

Era bella. Tanto. Probabilmente era poco più grande di me, ma era decisamente più alta. Aveva un portamento elegante e raffinato, in contrasto con il suo modo di vestire semplice e casual. I suoi capelli di un biondo platino erano talmente corti che a malapena le solleticavano il collo. Il gel glieli tirava indietro, scoprendo il suo viso dai lineamenti armoniosi. Mi scrutò con i suoi occhi scuri e io accennai un saluto.

«Ho bisogno di una storia d'amore struggente, che mi faccia piangere tutte le lacrime che ho in corpo», dissi.

Lei annuì e mi fece segno di seguirla. «Cuore spezzato?» Ripensai alle immagini di Ronald, alto e imponente, avvinghiato alla minuta cheerleader. Le loro bocche affamate, i loro vestiti stropicciati, le loro mani ovunque. Sentii nuovamente il petto far male e la voglia di piangere si fece più forte. «Diciamo di sì», risposi.

Si fermò dinanzi uno scaffale e senza pensarci due volte mi passò uno dei libri posti sul terzo ripiano. «Si amano immensamente, ma il destino ci mette lo zampino. È un libro dolce, sensibile e soprattutto doloroso».

Lo strinsi al petto e la ringraziai, decidendo di acquistarlo senza neanche leggerne la trama. Nonostante non volessi acquistare altro a causa dei soldi che scarseggiavano nel mio borsello, feci un ultimo giro perché amavo osservare le diverse copertine colorate e le persone che le scrutavano curiose. Amavo sorridere nel vedere libri che avevo già letto e adorato. Amavo accarezzare le costine e spostare lo sguardo sulle differenti dimensioni.

Lanciai un'occhiata ad Aiden, intento a sistemare in ordine di altezza i libri thriller e mi convinsi che era giunto il momento di andare via. Mi diressi alla cassa, dove ad attendermi c'era Savannah. «Buon pianto», disse nel momento in cui le porsi i soldi. Mi sfuggì un sorriso divertito. «Grazie».

Raggiunsi Aiden, ancora immerso nel suo lavoro. Sentì il calore propagato dal mio corpo, perché si fermò e girò la testa nella mia direzione. «Non ti piaceva come erano disposti?» indicai con il mento lo scaffale dinanzi a sé.
«No, non erano allo stesso livello di altezza». Accennai un sorriso e strinsi il mio acquisto tra le dita, mentre ci incamminavamo verso l'uscita. «Che libro hai comprato?»

Lo passai e lui lesse il titolo con una smorfia di disgusto sul volto. «Questa è un'altra cosa che non capisco», disse, facendo scorrere le pupille lungo i caratteri che componevano la trama.
«Cosa?»
«Come mai tu sia così innamorata dell'amore». Alzai le sopracciglia nell'udire le sue parole. Guardai il suo viso limpido, privo di imperfezioni. Mi fissava in attesa di una spiegazione e passai qualche secondo di troppo per pensare ad una possibile risposta. «L'amore per me è quel sentimento che ti consuma. Fa tanto bene quanto male, ma fa sentire vivi. Condividere le giornate con la tua persona, tremare, sorridere ed emozionarti a causa del cuore che batte troppo velocemente. Quel tornado che avanza inarrestabile e travolge tutto».

«E allora perché soffri?»

«Perché amare significa anche questo».

Stemmo in silenzio qualche secondo poi, riluttante, mi passò il libro. Non sembrava affatto convinto dal mio discorso e ne sapevo il motivo. Spesso mi ripeteva che era sbagliato parlare di cuore quando si trattava di amore, perché era un sentimento e in quanto tale proveniva da impulsi del cervello. Spesso menzionava anche dopamina e ossitocina, ma non mi ero mai impegnata per comprenderne il significato. «Quando incontrerai colei che completerà la tua vita ne riparleremo», dissi. Lui scrollò le spalle e rimase in silenzio per tutto il tempo. Mi piaceva non parlare con lui. Non era presente tensione o imbarazzo, si trattava di quel silenzio familiare e dolce, che trasmetteva più di quanto potessero fare mille parole senza senso.

Ero impegnata ad osservare le foglie cadere leggiadre, posarsi lontane rispetto al loro albero a causa del vento che le spingeva con delicatezza, quando mi resi conto di essere arrivata a casa. Entrambi ci arrestammo sul posto, ma io non mi mossi per entrare in casa. Sapevo che una volta varcata la soglia della mia camera non avrei fatto altro che rimuginare. Probabilmente nemmeno sarei riuscita a leggerlo, quel libro.

«Smettila di cercarlo a tutti i costi, Delilah».

Abbassai lo sguardo per la vergogna e fissai le punte dei miei anfibi, senza rispondere. La mia voglia disperata di cercare qualcuno mi aveva messa in quella situazione di sofferenza e non era nemmeno la prima volta che accadeva. Il problema non era che stavo male per Ronald, o il ragazzo prima di lui. Provavo dolore per la fine di una relazione avvenuta nella mia mente, che speravo e desideravo con tutto il mio cuore; non importava la persona con la quale condividevo quel rapporto. «Sono pessima, non è vero?»

Aiden sospirò al mio fianco e a quel punto alzai lo sguardo su di lui. Si era abbassato nuovamente le cuffie e dedicava tutta la sua attenzione a me. Le sue iridi cristalline mi fissavano il viso, probabilmente ridotto in condizioni orribili a causa degli occhi gonfi. «No, vuoi solo compensare qualcosa che hai visto smorzarsi davanti ai tuoi occhi».

Annuii, poi feci un cenno con il mento come segno di saluto. Non mi sentivo di continuare la conversazione o di aprire quell'argomento e, fortunatamente, Aiden lo capì senza bisogno di sentirselo dire. «Ci vediamo», dissi e un sorriso involontario apparve sul mio volto, in attesa di una sua risposta. «Per il momento sì».

Feci una risata leggera, scuotendo la testa. Erano passati anni e aveva imparato che quando pronunciavo quelle parole non intendevo il suo significato letterale, ma lui continuava a rispondermi a modo suo, in parte perché sapeva di farmi sorridere ogni volta. E Aiden ci riusciva sempre.

Cominciai ad avanzare verso la porta d'ingresso di casa mia, mentre con una mano tentavo di recuperare le chiavi dalla tasca anteriore dello zaino, posto dietro la mia schiena. Cocciuta, non mi resi le cose più semplici sfilandomelo dalle spalle, ma continuai a frugare, finché, finalmente, non sentii il metallo freddo a contatto con i miei polpastrelli.

«Domani sii puntuale», alzò la voce Aiden, per farsi sentire. Ogni volta attendeva che io entrassi, prima di proseguire verso casa sua. Afferrai il labbro inferiore tra i denti, tentando di non sorridere nuovamente. Infilai le chiavi nella toppa e le dovetti girare un paio di volte prima di far scattare la serratura. Mi voltai, giusto il tempo per guardare il mio migliore amico un'ultima volta. «Non ci sperare!» gli urlai di rimando, prima di entrare completamente nella mia abitazione.

Chiusi la porta alle mie spalle, producendo un tonfo sordo, unico suono udibile tra quelle mura. Il buio pesto incombeva in quelle stanze e il silenzio mi arrivò dritto allo stomaco. Solitamente mi piaceva stare sola, ma non in quel momento. Tutto quello spazio buio e sordo mi soffocava e riportava alla realtà. Faceva riemergere i sentimenti che avevo soppresso nell'ultima ora. Gettai lo zaino ai miei piedi e scivolai lungo la porta bianca, portandomi le ginocchia al petto. Ancora una volta, non riuscii a fermare le lacrime, che smaniose tentavano di invadermi gli zigomi. Ci riuscirono e persino le mie labbra si coprirono di esse.

Non ero abituata a piangere rumorosamente, e non lo feci neanche quella volta, nonostante nessuno potesse sentirmi. Nessuno, tranne Doraemon, che avanzò con calma verso di me. Miagolò e si strusciò contro il mio stinco destro. Allungai le mani e lo acciuffai, prima che potesse ignorarmi e andarsene. Strinsi il mio gatto persiano al petto e lui, dal carattere docile, adagiò il capo sulla mia spalla. Abbassai le palpebre, mentre accarezzavo il pelo soffice e lungo. Era bianco e mi aveva sempre ricordato la neve candida che tanto mi aveva affascinata da bambina. Doraemon, che sobbalzava a causa dei singhiozzi che scuotevano il mio corpo, cominciò a miagolare.

«Hai fatto un giro?» riuscii a chiedere, tirando su col naso. Tenevo sempre la finestra della mia camera aperta, cosicché lui potesse decidere cosa fare. La maggior parte delle volte, tuttavia, preferiva rimanere al caldo confortante della mia stanza. In risposta miagolò e io lo strinsi ancora di più, sperando di discostare i miei pensieri dal nodo che sentivo invadermi la gola, che a malapena mi consentiva di deglutire adeguatamente.

Pochi minuti dopo però, Doraemon si divincolò e io lo lasciai andare, ma decisi di rimanere ancora lì, ancorata al pavimento dell'atrio, con la schiena premuta contro la porta e il cuore pesante. Ronald era riuscito a calpestare la mia dignità, ma decisi che nei giorni a seguire mi sarei mostrata indifferente nei suoi confronti, come se i suoi gesti non mi avessero minimamente toccata.

***

Ecco il primo capitolo! Non ho nulla da dire, spero solo che non vi facciate frenare dall'argomento trattato

Ecco i nostri bimbi cresciuti❤️‍🩹

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