Padre e figli
Come ogni mattina, la mia sveglia inizia a suonare alle sei e mezza, rilasciando nella stanza le note della mia canzone preferita. Alzandomi dal letto, lancio un rapido sguardo fuori dalla finestra e, con la flebile luce crepuscolare dell'alba, noto con estremo piacere che nel chiaro blu del cielo non si veda nemmeno l'ombra di una di quelle informi macchie bianche che hanno tappezzato la volta celeste negli ultimi dieci giorni.
Esco dalla mia stanza, faccio la mia solita pipì post sveglia e, come da routine, vado a preparare la tavola per la colazione, per me ed i miei figli.
Per Barbara, la piccola, tiro fuori la "magica tazza degli unicorni", come a lei piace chiamarla, ovvero una semplicissima tazza rosa con la grafica piena di esseri disegnati male che non assomigliano neanche lontanamente ai mitici equini, ma che in questo periodo piace tanto alle bambine di sette anni che guardano in TV "le avventure di Orshe", un cartone su un mondo fatato dove il protagonista è appunto un unicorno che vuole salvare la sua famiglia rapita e portata in cielo da un malvagio pegaso. Dopodiché, prendo i cornflakes, i suoi, e miei, cereali preferiti e li metto sul tavolo. Davanti alla tazza degli unicorni metto anche un piattino pieno di fettine di frutta varia. Di recente, questo si è rivelato essere l'unico modo per fargliela mangiare senza che si lamenti. So benissimo che non bisogni rinforzare i capricci dei bambini, ma almeno per il momento riesco a farle mangiare qualcosa che le fa bene; ad abituarla a mangiare la frutta intera ci penserò più avanti.
Per Manuel, il più grande, invece, preparo la tazza nera che utilizzava la madre per bere il suo tè nero. Da quando, due anni fa, la mia compagna è morta, non se ne è più voluto separare. Metto affianco alla fredda ceramica la solita bustina per fare l'infuso, un cucchiaino ed il vasetto di miele millefiori. Proprio come la madre, mio figlio non prende mai la sua bevanda senza averci mescolato almeno un cucchiaino di miele. Dopodiché, metto una mela davanti alla tazza nera, con un coltello, e metto sul fuoco un pentolino per far scaldare l'acqua. Nel frattempo, prendo un padellino, ci verso un filo d'olio, mi sposto verso il frigo, prendo due uova e le lavo, mettendole poi accanto al piano cottura per farle all'occhio di bue; una la mangerò io, mentre l'altra la darò a Manuel, che come tutti i quindicenni inizia ad avere quella fase in cui vuole allenarsi, e di conseguenza necessita un giusto apporto proteico. Prendo due piattini, uno vicino alla tazza nera, con forchetta e coltello ai lati, uno ad un altro posto del tavolo, con le posate nella stessa configurazione del primo. In quel posto consumerò io la mia colazione. Tosto al volo due fette di pane integrale e le metto sul piattino del mio campione.
Aggiungo accanto al mio piattino una tazza più piccola, in cui inserisco già dei semi di melagrana e una trentina di grammi di cereali, e metto accanto alla tazza un cucchiaino. Tiro fuori dal frigo il latte, così da averlo pronto in tavola per me e per Barbara.
Si fanno le sette, la sveglia di Manuel suona. Sento che si alza e che si fa strada a passi pesanti verso il bagno. Ha sempre avuto il sonno pesante, e ogni mattina è una guerra per alzarsi dal letto, e a giudicare dal suono dei suoi passi deve aver dormito ancora più profondamente del solito. Inizio a preparare le uova ed intanto il mio ragazzo finisce la sua routine di bagno, al volo sveglia la sorella più piccola, che come al solito lo abbraccia con tutte le energie che ha in corpo. Si capisce che è andata così perché Barbara fa uno dei suoi soliti urletti eccitati di quando vede il fratello al mattino, mentre il più grande fa un sonoro sospiro pregando la sorella di mollare un po' la presa. Insieme, i miei due si dirigono verso la cucina.
-Buongiorno- dico io, con tono pacato, non appena aprono la porta. Vederli mi riempie di un miscuglio indefinito di emozioni, totalmente positivo, che diventa ancora più impetuoso al sentirli parlare.
-Buongiorno, papà- dice Manuel, sbadigliando e stropicciandosi gli occhi.
-Ciao papuz!- Urla a squarciagola Barbara, facendomi il suo contagioso sorrisone in cui di recente si è aperto un balcone, data la caduta dei due incisivi nell'arcata superiore.
Do una carezza rapida e poco invasiva a Manuel sulla testa, sapendo che di mattina non apprezza particolarmente il contatto fisico, ed appena dopo do un energico abbraccio a Barbara, che ricambia come al solito con il massimo della forza che riesce ad imprimere con le sue braccine. Mi giro repentinamente, avvicino al mio ometto il pentolino con l'acqua calda, che lui procede a versare con precisione chirurgica nella tazza, e poi prendo le due uova, ormai perfettamente cotte; metto una sul mio piatto e l'altra nel piatto del mio ragazzo.
Non appena poso la padellina, prendo la scatola dei cornflakes che stava cadendo dalle mani della mia principessa e gliela restituisco. In un assonnato silenzio, iniziamo la nostra colazione. Silenzio che dura per poco più di qualche secondo, dato che, come sempre, la mia chiacchierona inizia a raccontare allegramente il sogno che ha fatto durante la notte. Racconta di essere stata in groppa ad un unicorno "super rosissimmo", ed inizia a pregarmi di andare a cercarlo, così che lei lo possa cavalcare. Manuel, come quasi ogni mattina, infrange i sogni della sorella, dicendole che non esistono gli unicorni. I due piccoletti iniziano a battibeccare, e la discussione finisce con me che lancio un'occhiata al mio ragazzone per intimarlo di non ribattere all'insulto della sorella. "Sei un puzzone, ecco perché non credi agli unicorni", ha detto per infastidirlo. Sapevo che se la situazione si fosse protratta a lungo, avremmo perso un sacco di tempo, ed i miei piccoli non sarebbero arrivati in tempo a scuola: così, ho stroncato sul nascere "l'insulto" del più grande, che in realtà si sarebbe rivelato più un modo sciocco per prendere in giro le particolari ingiurie della sorella più piccola, dicendo qualcosa come "e tu sei una puzzona iperfotonica, ecco perché gli unicorni non vengono mai da te", battuta che avrebbe causato la più grande delle discussioni, per via della permalosità della mia piccola, e poi ho ripreso rapidamente ed in modo poco severo Barbara, dicendole di non dire queste "cose brutte" al fratello maggiore.
Nel finire la sua tazza di cereali, chiede scusa a Manuel, fa un sorriso, mangia una fetta di pera e inizia a ridere per le labbra del fratello, macchiate del tuorlo dell'uovo. Finiamo tutti quanti la colazione nello stesso momento e sparecchiamo assieme la tavola, mettendo ciò che abbiamo utilizzato nella lavastoviglie.
Mando i ragazzi a prepararsi, e io vado a fare lo stesso. Cacca veloce post colazione, lavaggio denti, vestizione, preparo la borsa del lavoro e mi dirigo nuovamente verso il frigo a prendere i Tupperware con il mio pranzo: un riso basmati con fagioli red kidney, scagliette di parmigiano e un po' di tonno, con contorno un insalata di finocchi, che condisco velocemente con un cucchiaio d'olio e dell'aceto di mele. Inoltre, prendo una mela, una banana e due pacchetti di taralli, per fare gli spuntini, ed insieme al pranzo li inserisco in una borsa debitamente allestita come portapranzo.
Sento nell'altra stanza Manuel che sta aiutando Barbara a finire di prepararsi. Questo vuol dire che hanno quasi finito. Mi avvicino alla porta, mi metto il giacchetto primaverile, di colore blu, raccolgo da davanti la porta chiavi di casa, chiavi della macchina, portafogli e cuffie ed attendo qualche secondo.
I due nani si palesano davanti a me dopo qualche istante. -Avete preso tutto?- chiedo. -Si, papà- rispondono i due all'unisono i due, benché con toni differenti; distaccato ed annoiato il più grande, energico e solare la più piccola.
Sono le sette e quaranta, tempismo perfetto. Saliamo in macchina, una fiat panda, forse non la macchina più bella che esista, ma il suo lo fa, e a noi va bene così. Mi dirigo prima alla scuola elementare, lascio mia figlia al portone e la vedo entrare correndo con quello zaino più grosso di lei, rigorosamente rosa fosforescente, ma talmente fosforescente che farebbe perdere la vista ad un cieco, che più che permetterle di correre la fa dondolare come un anatroccolo appena uscito dall'uovo.
Nel vedere la sua blusa bianca entrare nell'istituto, riparto lentamente con la macchina e mi dirigo verso l'istituto di Manuel. Ha deciso di frequentare il liceo classico, scelta ardua, ma sono certo che con la sua testa ne uscirà si cambiato, ma non indottrinato dal modello scolastico che sta venendo attuato in questa epoca storica. Forse sarò un po' azzardato, ma credo che se ci possa essere un qualcuno che possa, in futuro, cambiare il sistema, uno di quei qualcuno è proprio lui. O meglio, ne avrebbe le capacità, ma nel caso in cui decidesse di non farlo, forse per paura, forse per svogliatezza, o forse per la semplice voglia di fare qualcosa che più lo aggrada, beh, lo sosterrò in ogni caso.
Alle otto e dieci ci troviamo davanti al liceo; tra dieci minuti Manuel inizierà le lezioni. Lentamente, sgancia la cintura, appoggia i gomiti sulle ginocchia e senza guardarmi mi dice -Mi manca-. Il suo tono è fermo, non vi è più traccia di tristezza o di rabbia che ha caratterizzato i primi tempi dalla morte della madre. -Papà, mi manca davvero tanto. La sua voce, i suoi abbracci, ed anche le sue battute tristi che non facevano ridere nessuno- la sua voce è malinconica, calma e pacata, come chi sta rivivendo dei momenti passati.
-Lo so, Manuel, lo so-
-Ogni tanto vorrei vederla ancora, o chiacchierare ancora un po' con lei... Insomma, vorrei che la mamma fosse ancora qui-
-Beh, come diceva sempre lei...-
-... nessuno se ne va davvero, finché viene ricordato. Continua a vivere, semplicemente in forma diversa, sotto forma di ricordo.- Dice lui, accennando un breve sorriso.
Veronica era una donna speciale. Una fantastica trentottenne, di successo e dall'intelligenza sbalorditiva. Ogni volta che apriva bocca, la sua voce inebriava l'ambiente con un suono talmente melodioso che persino il più furioso degli uragani si sarebbe rasserenato. Le sue parole scorrevano come dolce musica nell'aria, ed erano, incredibilmente, sempre di una acutezza tale da svoltarti la vita; aveva l'incredibile dono di dire sempre la cosa giusta al momento giusto. Ma, come dice Manuel, era terribilmente incapace di fare delle battute realmente divertenti. Ogni volta che provava a farne una, chiunque era attorno a lei si ritrovava a ridere non della battuta, ma del suo sguardo imbarazzato; sguardo di chi non sapeva se pregarti di ridere ad una freddura che già sapeva non avrebbe suscitato ilarità o se nascondersi dietro quei fantastici, lisci e lunghi capelli corvini che aveva. Capelli che i miei due figli avevano ereditato.
-Papà?- la voce di Manuel mi riportò alla realtà. -Sì, campione?- Hai capito cos'ho detto?-. Dannazione, mi ero perso anche io nei miei ricordi, e mi sono distratto a tal punto da non sentire nemmeno più la voce di mio figlio.
-No, scusa, mi ero perso nel pensare alla mamma.- Ammisi. -Okay, avevo semplicemente detto che ti voglio bene. Buona giornata-.
Dopo questa inaspettata dichiarazione, senza lasciarmi il tempo di ribattere, il mio ragazzo scappa dalla macchina e si dirige verso la scuola, mettendosi addosso il cappuccio della sua felpa rossa e camminando a passo deciso.
Ammetto di essere davvero fortunato, ho due figli fantastici, dall'intelligenza fuori dal comune, ed oltretutto, bravi, con loro, tra loro e con il prossimo. Vero, mia moglie ed io ci siamo impegnati parecchio, ma gran parte di ciò che sono i miei ragazzi è una loro dote innata.
Mi dirigo al lavoro, felice con questi pensieri in testa. Entro nella sede e saluto il capo, un uomo gentile ma autorevole, e soprattutto, che tiene alla salute dei suoi impiegati. Ha addirittura fatto un investimento abbastanza importante per riuscire a mettere nell'edificio una palestra privata, tutta per noi, in cui possiamo recarci durante la pausa pranzo, che dura due ore, così da lasciare il giusto tempo per staccare dal lavoro.
Come ogni giornata, mi metto a lavorare, vado in pausa, mi alleno, doccia al volo, pranzo e torno subito al lavoro.
Alle sedici esco, saluto i miei colleghi e vado a recuperare i ragazzi. Nell'andarmene, però, assicuro al capo che entro le diciotto avrebbe ricevuto via mail il verbale molto importante che serve per un ordine da fare. Così, recupero Manuel, recupero Barbara e li porto al parco appena sotto casa nostra. Il primo si sarebbe visto con dei compagni di classe ed avrebbe badato alla sorellina che avrebbe giocato con dei suoi amichetti; destino, quello del grande, che condivideva con gran parte delle persone della sua compagnia. Tutti individui con la testa sulle spalle, perciò posso stare relativamente tranquillo.
Accendo il portatile e mi metto al lavoro. Apro il documento su cui stavo lavorando nel pomeriggio e lo termino, giusto cinque minuti prima dello scoccare delle diciotto. Inoltro il file al mio capo e sistemo le carte che avevo utilizzato per scrivere le informazioni da inserire nel verbale.
Do uno sguardo veloce al parco e noto che inizia a svuotarsi. Effettivamente, per quanto il clima primaverile sia mite durante il giorno, al calar della sera ricorda che prima di lui c'era il freddo inverno, e con qualche lingua di venticello fresco abbassa la temperatura, costringendo la gente a rientrare nelle proprie abitazioni. Vedo Manuel che tiene per mano Barbara mentre escono dall'area giochi. A questa visione, mi scappa un sorrisetto divertito: il grande fa tanto la scena dell'ometto duro con la sorella, ma alla fine non riesce a soffocare il suo istinto da fratellone premuroso con lei. Distolgo lo sguardo per portare la borsa del lavoro in camera, vado in bagno a fare una rapida pipì, mi lavo le mani, bevo un bicchiere d'acqua in salotto e, d'improvviso, il caos.
Dei soldati fanno irruzione in casa mia, sfondando finestre, arrivando dalle varie stanze e sfondando il portone. Sono bardati di tutto punto con la loro divisa e annessi oggetti. Urlano e mi accerchiano, guardandosi attorno per la casa con aria circospetta e, in alcuni, si nota un alone di paura o peggio, puro terrore. Nell'agitazione della situazione non si capisce nulla. Tra fogli del lavoro che svolazzano, il frastuono degli anfibi che battono sul mio pavimento, il tintinnio delle granate appese alle cinture dei soldati, gli scatti dell'armo dei fucili che essi imbracciano tanto poderosamente, le loro voci che borbottano mille parole incomprensibili e mescolate tra loro mi mandano in confusione.
"Cosa sta succedendo, perché loro sono qui?"
In un istante vengo accerchiato, con le canne delle armi che puntano dritte verso di me, e l'istante dopo, all'unisono, i militari ruotano di centottanta gradi, dandomi ognuno di loro la schiena. Cerco di capire qualcosa, faccio domande, ma uno si gira e mi mette una mano sulla bocca, ordinandomi di non fiatare. Il frastuono che rimbombava nella casa cessa in meno di un secondo. Al suo posto, si forma uno strato di irreale silenzio, pesante ed asfissiante. In realtà, qualche suono è ancora presente, e non lascia presagire nulla di buono. Si sente il respiro affannoso dei soldati, le loro divise impregnate di sudore che sfregano sulla loro pelle, il batticuore di ognuno di noi che batte sui timpani, quasi a voler far scappare l'organo dalle nostre orecchie. Addirittura, si riescono anche a sentire le gocce d'acqua scorrere sulla fronte degli uomini.
L'atmosfera, già pesante di suo, si fa schiacciante quando si iniziano a sentire dei passi arrivare dalle scale. E non solo passi. Dei rumori agghiaccianti e con qualche secondo di distanza tra uno e l'altro, quasi degli scatti acuti e rapidi di un qualcosa che si rompe e si riaggiusta nello stesso istante. In ogni caso, un rumore che di normale ha ben poco. I rumori si fanno sempre più vicini e, con l'aria talmente pregna di paura ed ansia tanto da creare una sorta di nebbietta attorno al gruppo, il tempo sembra fermarsi.
Tutto si sblocca quando un soldato, probabilmente il capo della squadra, dice, con un filo di voce, una frase quasi impercepibile, per quanto l'angoscia, nel silenzio, faceva un rumore tale da coprire le sue parole.
-Stanno arrivando-
Delle ombre si proiettano sulla porta a terra.
Si fanno grandi.
Sempre più grandi.
Enormi.
-Papà?-
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