La fine del mondo
La fine del mondo non era poi così simile a come l'immaginario comune se l'era figurata.
Non ci fu nessuna catastrofe, nessuna esplosione nucleare, nessuna malattia contagiosa e mortale o nessuna guerra totale. Tutto quello venne dopo.
La notte della fine fu stranamente tranquilla. Come ero solito fare, ero rimasto sveglio fino a tardi a guardare serie TV, e nel frattempo chattavo con la mia ragazza. O meglio, vorrei poter dire così, ma in realtà la serie andava avanti senza che io le dessi la benché minima attenzione, e più che scambiare messaggi con lei, stavamo litigando.
Lei era arrabbiata perché avevo scordato un evento importante, l'ennesimo evento importante. Avevo una terribile memoria, non sono mai stato bravo a tenere a mente gli eventi o le date, e questi litigi accadevano spesso tra noi due. Quella volta, però, avevo oltrepassato il limite: avevamo una cena, o meglio, lei aveva una cena di lavoro, molto, molto importante, e mi aveva chiesto aiuto, per sostenerla nella nuova occasione che le si stava presentando. Stava per essere promossa a una posizione molto ambita e importante, ma allo stesso tempo incredibilmente difficile e logorante. Almeno per "il passaggio del testimone" voleva che fossi lì, per contrastare le sue crisi di ansia. Lei pativa particolarmente l'ansia, tanto che in certi momenti le era totalmente impossibile concentrarsi su altro. Per questo mi aveva chiesto di essere con lei quella sera.
E così successe. Ebbe una crisi durante la cena, e non solo fece una brutta figura con la persona che le stava cedendo il posto, ma rischiò anche il lavoro. Cosa non successa poi, grazie al suo capo, che intercedette per lei.
Era una furia, e era comprensibile. Mi aveva salutato bruscamente, freddamente, senza la buonanotte che era solita a darmi. La cosa un po' mi ferì, ma la accettai.
Il mattino dopo decisi di presentarmi da lei, per porgerle le mie scuse nel modo migliore. Mi ero vestito abbastanza bene, con un jeans chiaro e una camicia bianca, messa per la fretta un po' dentro e un po' fuori dai pantaloni, e mi precipitai fuori dal mio appartamento per essere da lei in tempo per la sua sveglia. Mi fermai pure per strada a prenderle delle calle, i suoi fiori preferiti. Il piano era andare da lei, prelevarla dal suo letto, buttarle addosso qualche vestito e portarla a fare colazione nel suo locale preferito, dove era solita andare per tirarsi su il morale. Di certo non era sufficiente a farmi perdonare, e non pretendevo di certo che lo facesse, ma almeno mi sarei messo sulla giusta rotta per ottenere il suo perdono.
Arrivai alla porta, e sentii la sua sveglia trillare. Suonò per qualche secondo, e poi qualche minuto. La cosa era strana. Era solita alzarsi quasi subito, e non permettere a quell'aggeggio infernale di suonare per troppo tempo. E dico infernale perché impostava delle canzoni in grado di farti alzare con la PTSD. Provai a suonare il campanello un paio di volte, senza successo. Ero preoccupato e, a quel punto, entrai in casa con la chiave di riserva che mi aveva lasciato, ma che mi aveva chiesto, anzi, ordinato categoricamente di non utilizzare se non in caso di emergenza. E quella la reputai più che un'emergenza.
Volai in camera sua, ma di lei non c'era traccia. C'erano solo le sue bianchissime lenzuola spiegazzate e disfatte sul letto. Sul comodino il suo telefono, la sua borsa e il suo portafoglio erano dove li riponeva sempre. Subito pensai che l'avessero rapita, ma in casa non c'era traccia di nessuna effrazione, di nessuna colluttazione, niente di niente. Ogni cosa era al suo posto, tranne lei.
Poi un urlo. Uscii dall'appartamento e trovai la donna dell'appartamento di fronte che stava uscendo traffelata in camicia da notte. Diceva che suo marito e i suoi figli erano spariti.
E avanti così, nella mattinata, ognuno di noi "Rimasti", come ci chiamiammo in seguito, aveva perso qualcuno. Figli, genitori, amici, amori. Tutti quanti. E la cosa peggiore era che non erano sparite famiglie o gruppi interi di persone, ma che era sempre rimasto qualcuno che avesse qualche legame con lo "Svanito".
Dopo quel giorno si susseguirono i "Sette giorni del Silenzio". Per una settimana nessuno riuscì a parlare, e sembrò che il pianeta stesso avesse smesso di emettere suoni; alcun cinguettio, tantomeno un filo di vento. Ogni giornata era un susseguirsi di silenzio e vuoto.
L'ottavo giorno qualcosa scattò. La gente iniziò a diventare rabbiosa, aggressiva e violenta. Aumentò il caos per le strade, ci furono furti, stupri e omicidi. Fummo sempre meno, e per cercare di salvarci dalle barbarie di cui la razza umana stava diventando vittima, decidemmo di costruire la Rocca della Memoria, dove ci troviamo ora.
Sono passati undici anni da quel giorno, quello che ora chiamiamo il "Giorno dei Dissolti". Undici anni in cui abbiamo perso ancora più gente, e in cui abbiamo dovuto reinventare gran parte delle strutture qui nella Rocca per riuscire a rispondere alle esigenze di tutti. Nove anni in cui abbiamo effettivamente creato la Rocca e cacciato le "Tracce", quei sopravvissuti che non furono in grado di reggere il dolore della perdita e regredirono a uno stato animale, e che ogni tanto tornano a provocare danni.
In tutti questi anni non ho mai pensato una volta che il mondo fosse finito, nemmeno quando la Cina sganciò tutto il suo arsenale nucleare, alleata alla Corea del Nord e al Giappone, per attaccare gli Stati Uniti, annientandoli e cancellandoli dalle mappe,
Per me il mondo è finito quando l'ho rivista. Per qualche strana ragione, gli "Svaniti" avevano iniziato a tornare. Coloro che riapparirono vennero chiamati i "Ripresi"; ripresi dalla realtà a cui erano stati sottratti, tali e quali alla notte in cui svanirono, senza alcun ricordo del tempo passato, come se si fossero addormentati e svegliati il giorno dopo. Quelli più fortunati apparivano all'interno della Rocca, e spesso ritrovavano i loro cari, quelli meno si trovarono fuori dalle mura, alla mercé delle Tracce.
E un giorno la rividi. Mi trovavo sulla torre di pattuglia est, e controllavo l'attività all'esterno del perimetro delle mura. Era una giornata soleggiata e tranquilla, e il lieve calore mi stava scaldando dalla notte di pioggia appena passata. D'un tratto, vidi una nota di blu elettrico nei colori spenti della strada avvolta dal manto erboso. Controllai con il binocolo.. Era lei, bellissima come il giorno in cui svanì, nel suo orribile pigiama, che però in quel momento mi parve la più bella creazione dell'uomo.
Corsi giù dalla torre e mi precipitai al cancello, pronto per poterla riabbracciare nuovamente, e quando riuscii a oltrepassarlo, rimasi momentaneamente impietrito dalla sua folgorante presenza. Ci guardammo, e mi persi nei suoi occhi verdi giada, che inizialmente mi studiavano confusi e che poi, riconoscendomi nonostante i cambiamenti, mi sorrisero con la forza di mille Soli. Quel sorriso, però, si spense poco dopo. Delle braccia attraversarono il suo addome, e delle Tracce iniziarono a cibarsi della sua carne. Una folla di Tracce si era appostata furtivamente dietro la foresta di condomini poco più avanti, probabilmente pianificando di attendere il momento in cui avremmo aperto il cancello, così da poterci assaltare. E così fu. Mentre i primi banchettavano sul corpo di lei, le altre corsero verso il cancello. Erano una trentina in tutto, nulla che il mio fucile non potesse affrontare.
Le abbattei tutte, una a una, e rimasi inorridito dalla scena che avevo davanti. Il ventre della donna che amavo, dilaniato e squarciato da quelli che un tempo furono umani. Il pigiama blu strappato, che restava attaccato a penzoloni alle braccia e al petto di quella che, da viva, era la mia ragazza. I suoni soddisfatti delle Tracce che si cibavano soddisfatti delle sue carni mi svegliò dal mio stato di trance. Il dolore mi avvolse, e un selvaggio e rotto grido di furia si fece largo tra le mie membra, trovando via di fuga dalla mia bocca. Quel suono si tramutò velocemente in un ringhio e caricai le cinque bestie che si spartivano il corpo della mia amata. Non so in che modo, uccisi ogni singola Traccia, e al dissipamento della mia ira, ero avvolto in un lago di sangue, e la nota blu elettrico che aveva rubato la mia attenzione era svanito, lasciando il posto a un lago rosso scuro e profondo.
Mi inginocchiai davanti al suo cadavere, non riuscendo a provare nulla. La presi tra le mie braccia. Il suo sangue si mischiò a quello delle Tracce sui vestiti. Gli occhi erano rimasti sorridenti, ma vitrei. Strinsi il suo corpo a me, piangendo lacrime invisibili, incapace di manifestarle dai miei occhi. L'odore della sua pelle era quello solito, e nonostante l'olezzo di sangue riuscì ugualmente a distinguere l'odore dei suoi capelli, così fresco e dolce, che sapeva di un giardino primaverile tempestato di fiori, quello che avevo sempre chiamato scherzosamente "olezzo di prato" e che in quel momento era il profumo più buono che avessi mai sentito.
L'avevo finalmente ritrovata.
Era svanita di nuovo, e stavolta non sarebbe tornata.
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