Una nuova casa (e vita?) per Lovino
Il sole splendeva alto in cielo e le onde di schiuma bianca si perdevano nel scuro oceano su cui il vascello navigava con leggiadra maestria, nonostante la stazza.
Una piccola nazione fissava la grande massa d’acqua con fare annoiato, borbottando piano qualcosa a denti stretti. La piccola figura, fisicamente quella di un bambino, indossava un vaporoso vestito da cameriera rosa confetto e aveva imparato qualche mese prima che era meglio ignorare tutti i commenti dei marinari piuttosto che provare a lottarli. Perdeva miseramente ogni volta.
Tale figura era l’impulsivo Sud Italia, o Romano, il cui nome umano era Lovino Vargas. E si stava tremendamente annoiando a morte, impaziente, perché sapeva che erano quasi alla fine del loro viaggio di ritorno e finalmente lui e il bastardo avrebbero potuto essere sulla terraferma, a casa loro, con lui che si mangiava dei freschi e succulenti pomodori mentre l’altro sgobbava.
Per chi se lo chiedesse, il “bastardo” era Spagna, Antonio Fernandez Carriedo, un potente pirata e conquistatore… che praticamente si scioglieva come burro davanti la piccola colonia e faceva di tutto per lui. Come, per esempio, finalmente cedere alle sue richieste e portarlo con sé in un viaggio per il Nuovo Mondo, le Americhe, dove la corona spagnola aveva vaste colonie.
Ecco, Romano si era pentito e ora era fermamente deciso a rimanere a casa ogni volta che il bastardo fosse partito.
Odiava stare per così tanto per mare, era assolutamente noioso, non aveva nulla da fare (oltre a delle schifose mansioni domestiche che si rifiutava categoricamente ogni volta di svolgere) e, una volta arrivati nelle nuove terre, non aveva visto nulla!
Antonio l’aveva lasciato in casa mentre lui viaggiava per le sue terre “per affari”.
Lovino gli aveva tenuto il broncio per varie tempo nel lungo viaggio di ritorno per l’affronto subito: il viaggio era la parte noiosa, di mare ne vedeva pure stando a casa!, il bello sarebbe stato esplorare il nuovo mondo… e lo stronzo lo priva di quell’unica prospettiva!
Un vero, grandissimo, infinito bastardo.
Aveva però smesso di tenergli il broncio quasi una settimana prima perché voleva più attenzioni dallo spagnolo, l’unico che conosceva su quella “bagnarola”, e allora si era costretto a chiedere di fare pace.
Sì, si era dovuto chinare a tanto!
Però l’abbraccio che Antonio gli aveva dato dopo che aveva chiesto scusa non l’aveva interamente disgustato (e non era arrossito, come sosteneva il bastardo, assolutamente no!).
Lovino venne strappato ai suoi pensieri (leggeri e vaganti, impossibili da riportare scritti e comunque probabilmente privati-) quando qualcuno urlò qualcosa in spagnolo. Più volte.
La piccola nazione si costrinse ad aguzzare leggermente l’udito e tradurre quel che sentiva (sì, sapeva lo spagnolo, ben più di quanto dava a vedere ad Antonio! Si allenava con il personale della grande casa, laggiù, a Madrid, possibilmente con delle ragazze carine).
<¡Nave extranjera a lo lejos! ¡Nave extranjera a lo lejos, a babor!> ripeteva la vedetta, che probabilmente si era da poco svegliata dal suo pisolino fuori programma (Lovino lo vedeva sempre ma non diceva niente, tutti meritano di fare il proprio riposino, specialmente se era per l’abbiocco!).
“‘Nave straniera in lontananza, a babordo’... e fu così che era solo una nave nostra senza la bandiera svettante per colpa dei pirati che girano. Per fortuna non ci è mai capitato che-”
Ma Lovino non finì il pensiero perché la vedetta prese a dire: <¡Nave inglesa a babor! ¡Nave inglesa a babor! ¡Y se está acercando a gran velocidad! Capitán, ¿qué hacemos?>
“‘Nave inglese a babordo, si sta avvicinando a grande velocità, capitano che si fa?’... Finalmente un po’ di azione, sarà una piccola nave del cazzo e ‘sti cretini l'abbatteranno sicuramente!” si disse l’italiano, staccandosi dal bordo della nave e andando verso prua, dove gli altri uomini si stavano raccogliendo attorno ad Antonio, una gemma nel fango con la sua divisa da capitano.
<La respuesta es solo una, mis hombres… ¡lucharemos y ganaremos! Veràn que la corona española es la más magnífica del mundo!> rispose Antonio con enfasi e i suoi uomini accolsero il breve discorso con euforia, prendendo ognuno le proprie armi e andando al posto spettato.
Antonio rimase fermo sul ponte e si girò verso Lovino, che aveva in volto un'espressione ancora leggermente annoiata (era perchè non aveva visto la nave, altrimenti avrebbe avuto una tremenda fifa).
<Tu, cariño, andrai nella mia cabina e lì resterai finché non ti dirò di uscire.> affermò lo spagnolo.
<Ma io voglio vederti fare il culo a qualche deficiente…> borbottò la piccola nazione.
<Cariño, è pericoloso per te restare fuori. Non sei abbastanza grande per combattere, non ti ho d’altronde mai ancora insegnato, e… probabilmente su quella nave sono in più di noi, quindi dovremo faticare tanto. Voglio combattere sapendoti al sicuro, ok?> insistette la nazione più grande.
<Ma sarà una bagnarola del cazzo-> affermò Lovino, bloccandosi quando girò leggermente il volto e notò il vascello sempre più vicino, dove la bandiera inglese svettava fieramente. Era grande, più della loro, cazzo. Impallidì leggermente e sentì la paura prenderlo.
Senza dire altro, sfrecciò verso la cabina di Antonio, dove dormiva pure lui ogni tanto (solo perchè odiava la puzza degli altri a bordo, non perchè voleva stare vicino al bastardo…) e si chiuse la porta dietro. Rimase vicino la porta, così da sentire e, aprendo un filo la porta, vedere all'occorrenza.
Strinse i pugni nella stoffa della gonna al sentire, non troppo tempo dopo, delle urla di battaglia e poi degli spari. Ecco, lo scontro stava iniziando e Lovino sentiva il proprio cuore battere all’impazzata nel suo esile petto.
Non aveva paura solo per sé… un pochino (giusto un pochino) era preoccupato pure per il suo capo. Non voleva che venisse ferito come l’aveva visto una volta a casa, quando era tornato in gran segreto da una guerra.
Romano ne era venuto a conoscenza e aveva deciso che si sarebbe vendicato nella notte, andando di nascosto nelle stanze dove sapeva fosse, lontano da dove stava Lovino per non farsi vedere.
Ma una volta arrivato in camera dello spagnolo, l’italiano si era fermato perché aveva visto l’orribile stato pietoso del capo, al cui fianco rimase per tutta la notte, seduto contro il letto (e poi steso a terra, nella sonnolenza).
Ecco, non voleva vedere una seconda volta Antonio ridotto in quello stato, coperto di bende, pallido e apparentemente morto, steso sul letto.
L’ansia crebbe nell’italiano quando sentì gli spari finire e le urla farsi forti e molto più vicine di prima. Dagli attacchi a distanza si era passato al corpo a corpo sul loro ponte. Aveva sentito qualche altro piccolo sparo (pistole, che fossero pistoleri del suo o dell’altro schieramento era impossibile da dire da così) e principalmente clangore di metallo contro metallo.
Si sentirono imprecazioni, minacce e grida varie per un tempo indeterminabile per l’italiano lì rinchiuso. Ad un certo punto, il silenzio calò sul ponte e una sola voce prese a parlare. Lovino non capiva di chi poteva essere, era distante dalla sua porta, o cosa lontanamente dicesse.
Fatto stava che l’improvviso silenzio, ora diventato leggero brusio, e l’unica sconosciuta voce che parlava non lo rassicuravano.
Doveva vedere e capire.
E dare una mano, dannazione!, anche lui era su quella nave, no?
Doveva anche se avrebbe preferito nascondersi sotto le coperte e pregare che tutto andasse per il bene.
Cercò freneticamente per la stanza qualcosa da usare come arma e l’unica cosa che trovò di lontanamente efficace e da lui utilizzabile era un lungo candelabro di ferro a tre bracci, che risultò un po’ pesante fra le sue mani.
“Se lo do in testa, sul piede o nelle palle dovrebbe fare male. Meglio mirare al terzo punto, per sicurezza. Lì basta poco per far male.” rifletté Lovino, concentrato nel fissare la sua prima arma di fortuna.
E questo fu uno sbaglio, perchè ignorò l’avvicinarsi leggermente di quella voce alla sua cabina e l’entrata in scena di una voce ben più familiare.
Lovino, ancora tagliandosi fuori dal resto del mondo, strinse con forza il candeliere nella mano destra e prese un respiro profondo. Poi, con la mano libera, aprì la porta e ne uscì fuori, facendo qualche passo in avanti prima di arrestarsi.
Una figura gli troneggiava davanti. Alzò lo sguardo ed un colosso lo fissò per un secondo prima di provare ad acciuffarlo. Lovino, uno scricciolo agile, schivò la prima mano e stava sollevando il candelabro con entrambe le mani (per darglielo con forza proprio là dove non batte il sole) che l’altra mano lo prese per il retro del vestito e lo sollevò da terra.
<Lasciami, bastardo!> strillò in italiano la nazione, tentando di scalciare, ancora pieno di grinta.
<Oh, ora tutto ha un senso! Ecco il tesoro che nascondevi nella tua cabina! Patetico, Spagna, patetico.> commentò una divertita voce maschile nella lingua universale delle nazioni.
Lovino distolse lo sguardo dall’omaccione che ancora lo teneva sollevato da terra e girò la testa verso la voce, raggelandosi alla scena che gli si parò davanti. Lasciò cadere a terra il candelabro, tanto era lo stupore che provava.
Poco distante dall’omaccione (e quindi da sé) si trovava trionfante e ghignante Arthur Kirkland, Inghilterra (anche se non lo aveva mai visto prima, quei sopracciglioni gli toglievano ogni dubbio su chi fosse; Antonio gli aveva descritto che le sue sopracciglia facevano provincia e aveva assolutamente ragione).
Vicino a lui un altro omaccione teneva fermo, in ginocchio, Antonio, ferito in varie parti del corpo, sanguinante, con i vestiti rovinati e che lo stava fissando con una enorme paura negli occhi.
<Dato che oggi sono caritatevole, lascerò vivere te e il resto della tua combriccola, beh, almeno quella già non uccisa dalla potente corona britannica.> commentò Arthur, avvicinandosi con tutta la calma del mondo a Lovino, il quale lo fissava ad occhi sbarrati, terrorizzato da cosa volesse (e potesse) fargli.
<Ma, ovviamente, lasciarvi in vita ha un prezzo. Quindi mi prenderò la tua piccola colonia e qualche altra cosa che i miei uomini riusciranno a trovare su questa barchetta.> decretò l’inglese, un mezzo ghigno in volto.
<Lascialo in pace, Kirkland! Questa è una questione fra me e te, lui lascialo fuori!> quasi urlò Antonio, gli occhi verdi carichi d’ira, mentre tentava di liberarsi dalle catene con cui era stato catturato e dalla presa dell'energumeno dietro di lui che lo teneva fermo.
<Tutto quello che naviga per mare diventa parte della questione, git. Quindi lui è parte della questione e me lo prendo io.> affermò Arthur, sempre sprezzante.
Lovino parve animarsi di una nuova furia e prese a divincolarsi di nuovo, provando a calciare l’uomo che lo teneva sollevato come se nulla fosse. Non voleva essere catturato e diventare una colonia del sopracciglione! No!
Forse era peggio del pervertito e del mr. mascherina-super-inquietante!
<Lasciami!> strillava ancora in italiano.
Arthur ruotò gli occhi e ordinò all’uomo che teneva la piccola nazione in aria: <Bring him to the ship’s dungeon and make him shut up. I don’t want to bear a screaming brat until we reach the safe port.>
L’uomo annuì e andò verso una delle tavole riuscite a mettere per passare da un’imbarcazione all’altra. L’italiano, ritornando un peso morto nella presa del grosso uomo, cercò di girarsi indietro il più possibile e guardare lo spagnolo negli occhi.
<¡Antonio! ¡Ayúdame! ¡No quiero ir con él! ¡Sálvame!> pregò Sud Italia in spagnolo, le lacrime che si stavano formando agli angoli degli occhi. Per Antonio quella vista fu orribile e si dimenò ancora, sperando di potersi liberare, miracolosamente salvarlo e uccidere quel dannato britannico.
Ma l’unica cosa che potè fare era arrendersi, una volta che l’uomo che lo teneva prigioniero lo strattonò per la fine della catene che lo tenevano legato, e solo guardare il suo Lovino venir portato via.
<Cariño…> sussurrò Antonio, abbassando la testa e guardando il pavimento del ponte della sua nave, ora definitivamente sconfitto.
• ~ - ~ •
Lovino venne buttato di malagrazia in un angolo buio e umido nel sottocoperta della nave inglese, gemendo dal dolore per la caduta.
L’uomo forzuto lo tenne intrappolato a terra prima che potesse vanamente tentare di ribellare e gli legò i piedi insieme, cosicché non potesse fuggire.
Poi prese un coltello e lo calò su Lovino, con il terrore della piccola nazione (lo volevano uccidere lì e non prenderlo come colonia?!).
Però l’uomo non lo trafisse nelle carni, solamente tagliò un pezzo di stoffa di fondo della sua gonna e lo usò come bavaglio per zittirlo.
Dopo lo prese di nuovo per il retro del vestito e lo scaraventò per sicurezza nell’angolo della piccola cella più lontano dall’uscita. L’italiano colpì la testa e la sua vista si appannò per lo stordimento dalla botta e le lacrime di dolore e paura.
L’uomo uscì e chiuse con una chiave la porta di spesse e ravvicinate sbarre verticali ed orizzontali di metallo della cella e se ne andò da lì, lasciando l’italiano da solo, in una penombra che gli metteva paura, scosso e piagnucolante.
Svenne.
Si risvegliò solo quando sentì il clangore della porta di ferro sbattuta contro lo stipite sempre di ferro della cella. Dei passi si avvicinarono a lui e lo misero a sedere. Lovino spalancò gli occhi e si ritrovò l’omaccione di prima che gli porgeva una ciotola di qualcosa di indefinito e gli slegava il bavaglio.
Troppo terrorizzato per fare nulla se non seguire l’implicito ordine dell’uomo di fronte a lui, bevve la brodaglia in fretta, evitando così di sentirne troppo il suo sapore.
<Good boy, you’re clever enough to know that it’s pointless to fight.> commentò a mezza voce l’uomo in inglese con un leggero accento non britannico. L’italiano lo guardò confuso, non sapendo cosa stesse dicendo. Ma il tono di voce era calmo, quindi suppose fossero mere istruzioni o consigli che neppure gli passarono per le orecchie, dato che non capiva la lingua.
<No sé… que estás diciendo. Yo sé hablar español… e so l’italiano, perchè è la mia lingua.> parlò in un sussurro Lovino, parlando in entrambe le lingue che conosceva (oltre il latino a spanne, che evitò di dire perchè chi cazzo vuoi che sappia il latino su una barca di pirati?!).
<Oh, claro, claro. Pues, tenìa que saberlo, estabas sobre una nave española...> commentò l’omaccione in spagnolo, la voce bassa ma non minacciosa.
<¿Por qué sabes hablar en español? Creìa che en Inglaterra nadie querìa aprender esta lengua, porque los dos países son enemigos.> chiese curioso Lovino, cercando di calmarsi.
L’uomo non rispose e si alzò, senza mettergli di nuovo il bavaglio in bocca.
<Póntelo cuando el capitán viene aquí para verte. Creo que tu eres bastante listo para saber que gritar es inùtil, mh?> domandò l’uomo e la piccola nazione annuì.
Poi l’uomo uscì dalla cella, chiudendo la porta a chiave e tornandosene di sopra, lasciando ancora una volta Lovino da solo.
• ~ - ~ •
Dopo un tempo interminabile, finalmente erano attraccati, Lovino lo sapeva.
Aveva percepito la nave chiaramente ancorarsi nella bassa baia di un porto e un gran movimento sopra e attorno a lui.
Gli uomini stavano scaricando le varie cose presenti nella stiva accanto a lui. Per qualche attimo, fra il cinico e il preoccupato, si convinse che l’avrebbero abbandonato lì, a morire di fame e sete o ad impazzire (quello che capitava prima).
Ma a un certo punto il capitano Arthur scese sottocoperta e si avvicinò alla cella dove era rinchiuso l’italiano facendo girare sull’indice una lunga e sottile chiave di metallo, quella che gli apriva la cella.
Aprì la porta ma lasciò entrare prima l'energumeno che lo seguiva (non quello che Lovino conosceva, era l’altro che aveva tenuto fermo Antonio mentre lui veniva trasportato sulla nave inglese), ordinando: <Let free his legs, now he has to walk, but instead tie his wrists. Firmly.>
L’uomo fece come dovuto e Lovino non provò ad opporsi, era totalmente inutile. Quell’omaccione l’avrebbe subito ripreso, attorno a lui c’era un via vai di altri marinai pronti a riprenderlo e non sapeva neppure dove fosse, quindi essere passivo era l’unica maniera per tirare avanti.
Ringraziò di poter finalmente lasciare libere le proprie gambe, ma la gioia fu subito smorzata quando le medesime corde gli segarono i polsi, legandoglieli stretti dietro la schiena. L’uomo lo prese per il retro del vestito, oramai molto sporco e logoro, e lo mise in piedi. Per poco Lovino non crollò in ginocchio sotto il proprio peso, talmente tanto era diventato disabituato all’uso delle proprie gambe.
Inghilterra sbuffò instadito, schioccò la lingua contro il palato, decretò: <Just drag him to the carriage, if this uselessness can’t even walk properly.>, girò sui tacchi e tornò di sopra. Lovino, come sempre, non aveva capito nulla, ma ne intuì il messaggio principale quando l’uomo, tenendolo per il retro del vestito, prese a tirarlo e a farlo camminare verso l’uscita, quasi tenendolo sollevato da terra.
Lovino tentò di usare le sue gambe, ma a malapena riusciva a stare dritto senza sentire i muscoli dolere, quindi lasciò che l’uomo lo trasportasse a peso morto fin fuori dalla nave, dove la piccola nazione chiuse gli occhi e non li riaprì per più di un minuto buono, oramai abituato al buio/penombra della stiva.
Stava riacquistando la vista alla luce del sole che venne sollevato da terra di mezzo metro e buttato malamente dentro una piccola struttura lignea. Dato che le gambe stavano giusto appena riabituandosi a sostenere il peso del suo corpo, quell’instabilità data dalla spinta lo fece traballare e cadere, finendo per fortuna col culo su uno dei sedili posti lateralmente nella piccola carrozza.
Subito dopo salì Arthur e un uomo che assolutamente Lovino non conosceva ma il mr. sopracciglia-da-provincia sì, perché vi stava fluentemente e civilmente parlando in inglese.
In un angolo della testa l’italiano si chiese se quello fosse un umano o una nazione che semplicemente parlava una lingua straniera. Era molto più propenso alla prima che alla seconda.
La carrozza partì e Lovino si rimise un po’ più dritto, guardando storto un attimo Inghilterra e il tipo sconosciuto, per poi fissare fuori dal veicolo, osservando come si stessero lasciando alle spalle il porto e andando fuori dalla città, in mezzo a terre di nobili o di chiunque comandasse quel luogo.
Non gli sembrava l’Inghilterra, però. Antonio gli aveva raccontato che era un posto cupo, dove c’è sempre nuvoloso e dove la gente è scorbutica. A lui quel porto pareva un bel posto, a vederlo dal finestrino.
C’era un bel sole, palesemente caldo, gente allegra… e le scritte sembravano spagnole!
Questa era la cosa che più lo sconcertava.
Non potevano essere in Spagna, era ben più che semplicemente idiota sperarci, quindi doveva essere un altro posto che usava un simile alfabeto.
Però era assolutamente passato troppo poco tempo per esser arrivati ad un porto delle sue terre o del fratello e quello non gli sembrava la sua lingua o qualche dialetto armonioso del fratello.
Però l’unico altro che sapeva utilizzasse il suo alfabeto e con una lingua simile era il pervertito… ma i due non erano in buoni rapporti! Era una piccola nazione e pigra, sì, ma le notizie girano e di ostilità fra Francia e Inghilterra pareva non esserci mai una reale carenza.
Quindi dove diavolo potevano essere? Quelle scritte davvero gli parevano spagnole!
Lovino sospirò, con il tessuto che gli bloccò il gesto un po’ teatrale, e provò a svuotare la mente e lasciare che il paesaggio gli passasse davanti agli occhi senza sforzarsi di capire, accettando passivamente.
Ad un certo punto venne tolto dai suoi pensieri quando sentì la voce di mr. sopracciglia rivolgersi a lui nella lingua delle nazioni: <Ascoltami, perchè non ripeto le cose.>
Lovino voltò la testa pigramente verso di lui, prendendosi un colpo vedendolo sporto verso di sé, una daga in mano e la lama rivolta verso di sé.
<Possiamo rendere tutto questo facile o difficile, la scelta è di entrambi. Io ti posso pure liberare le mani, così ti puoi anche togliere quel bavaglio, a patto che tu stia seduto composto e che risponda solo se interpellato e in modo pacato. Chiaro?> propose Arthur, guardandolo dritto negli occhi.
L’italiano annuì freneticamente.
<Girati così ti taglio le corde allora.> impose l’inglese e l’italiano, smanioso di ottenere un minimo di libertà, fece come detto, mettendosi in piedi (e quella volta le gambe lo ressero, alleluia!). Sentì le corde recise e con grande gioia Sud Italia si risiedette, sciogliendo il bavaglio e massaggiandosi i polsi, doloranti.
<Stammi a sentire ora, chiaro?> domandò retorica la nazione adulta e Lovino si costrinse ad alzare lo sguardo dalle sue ginocchia a Inghilterra, fissandolo dritto nelle iridi con una sicurezza che era tutta apparenza (stava morendo di paura dentro).
<Bene, qui non siamo nelle mie terre. Siamo nei territori di un mio grande alleato, il quale mi ha informato della nave con a bordo Spagna che sarebbe salpata per le Americhe e che sarebbe tornata in questo periodo. L’accordo era di dargli una parte del bottino. Se non fosse già chiaro, tu sei una parte del suo compenso. Diventerai una sua colonia e lì resterai. Non ti conviene ribellarti, perché è una nazione potente.> spiegò Kirkland.
“Pft, lo farò ammattire e sarà lui a supplicarlo di darmi indietro a Spagna, in un modo o nell’altro, se prima il bastardo non prova a recuperarmi!” pensò Lovino con boria, conscio di essere davvero fastidioso se voleva.
Ma in risposta al suo rapitore, la piccola nazione annuì.
<Domande? Nessuna? Perfetto, ora resta in silenzio.> disse successivamente in fretta l’inglese, tornando a parlare con il terzo viaggiatore.
Sul volto di Romano si dipinse l’emblema dell’assoluto fastidio. E si sentiva giusto un poco preso per i fondelli (ma giusto un poco… la sensazione era grande giusto giusto quanto le proprie terre!).
Sbuffò piano e tornò a guardare fuori dal finestrino, questa volta grato di avere tutto il corpo libero. Ma quella era una vittoria e perciò (e non per la paura di Arthur, assolutamente non quello) evitò di protestare nella più minima maniera.
E poi quella carrozza gli faceva venire decisamente sonno.
Ma rimase sveglio, perchè qualche neurone nel suo cervello era curioso e prese a chiedersi ancora una volta chi poteva essere colui dal quale stavano andando.
Almeno aveva azzeccato, era in un altro Paese che non fosse Inghilterra o Spagna e che era alleato del primo dei due citati… ma chi era questo alleato?
Di tutto quello che concerneva la politica (estera o interna che fosse) non ne sapeva che poco o nulla. Quindi non aveva assolutamente idea di chi fosse alleato con mr. sopracciglia.
Era già tanto che sapesse chi erano i nemici giurati del bastardo! E lui ora era in una carrozza col suo più acerrimo nemico, diretto alla casa di un alleato di tale nemico e portato come trofeo!
La cosa riguardante il trofeo avrebbe dovuto ferirlo?
Forse, ma ormai era abituato ad essere considerato un trofeo… anzi, più che un trofeo, era un accontentino, se la persona che se lo aggiudicava conosceva pure suo fratello Veneziano.
In un piccolo angolo della sua testa, quello pessimista (senza amore per se stesso e prospettive positive per il futuro), pregava che il suo nuovo capo non fosse a conoscenza del talentuoso e ricco e più potente di lui Nord Italia (detto pure Veneziano o Feliciano Vargas, suo fratello minore, il preferito di suo nonno e di tutti quelli che conoscevano entrambi).
Se proprio doveva essere considerato come un oggetto e non come una persona, voleva almeno essere un oggetto di valore, per una volta. Preferiva essere considerato un trofeo, piuttosto che un accontentino.
Come lo era stato pure per Antonio…
Il ricordo di sentire lo spagnolo parlare con i suoi capi che avrebbe preferito avere le proprie mani più su Venezia che su Palermo e Napoli lo tormentò.
Anche per lui era un semplice accontentino, un titolo o un soprammobile da avere esposto ma inutile.
Probabilmente era il suo destino (di merda, assolutamente, ma comunque destino) venir trattato così. L’unica cosa da fare era arrendersi all’evidenza e accettare che chiunque a quel mondo lo avrebbe ferito.
Passò un tempo indefinito per l’italiano (ma non doveva essere passato così tanto tempo, perchè il sole era ancora luminoso nel cielo) quando passarono oltre un semplice ma alto e solido cancello di ferro, passando per una viuzza di ciottoli su cui la carrozza prese a ballonzolare.
Se Lovino non fosse stato abituato al moto ben peggiore del mare, sicuramente si sarebbe sentito male.
La piccola nazione osservò con bambinesco interesse quello scorcio di mondo che ammirava dal finestrino della carrozza, notando varie persone lavorare per il grande campo di cui non vedeva il limite (sicuramente segnato dal proseguimento del cancello di ferro, sarebbe stato da idioti avere solo l’ingresso e non circondare l’intera proprietà).
Romano totalmente ignorò l’inglese e la sua conversazione mezza confabulata con quell’umano con cui stavano viaggiando. Non era entusiasta di essere sotto il potere di uno sconosciuto alleato con il mr. sopracciglia, ma almeno la casa sembrava un bel posto.
Sarebbe stato semplice sgattaiolare e andare a fare un bel riposino all’ombra di qualche siepe, cespuglio o albero, durante le ore più calde della giornata; rifletté la piccola nazione.
Finalmente, la carrozza si fermò e con lei lo sballottamento dei suoi passeggeri. Il cocchiere, che aveva guidato per il viaggio assolato, scese in fretta dal suo posto e si precipitò ad aprire la portiera ai tre ben più comodi passeggeri.
L’uomo sconosciuto fu il primo a scendere, seguito da Arthur che nel mentre impartì a Romano: <Scendi e fa’ il bravo, eseguendo i miei ordini> e terzo fu costretto a ubbidire di malavoglia.
L’uomo estraneo estrasse da una delle sue tasche un consistente mazzo di chiavi e ne scelse una abbastanza tozza, che aprì la porta della casa davanti la quale erano scesi. Lovino solo allora alzò lo sguardo e realizzò che quella era una casa enorme, grande almeno quanto quella in cui abitava con Antonio (il pensare a lui fece inspiegabilmente male al petto).
Non potè ammirare per molto l’edificio, perchè sentì i passi dei due più grandi allontanarsi; perciò si costrinse ad abbassare il capo e li seguì dentro casa come meglio potè, le gambe che ancora non erano totalmente sicure (ma mica lo poteva dare a vedere, eh!).
L’uomo disse un’ultima cosa ad Arthur, che annuì, e se ne andò.
Inghilterra camminò a passi lenti, quasi ponderati, verso un’altra parte dell’abitazione, commentando: <Seguimi, sgorbio.>
<Non sono uno sgorbio, bastardo!> non riuscì a trattenersi Lovino, offeso, restando a un metro di sicurezza dietro il britannico.
Questi si girò e commentò: <Quanto sei maleducato ed insolente, più che un premio sei una condanna, sai? Non capisco perché quel cretino tenesse tanto a te e volesse impedirmi di raggiungerti, quando tu per primo sei uscito con uno stupido candelabro da tavolo in mano.>
Lovino incassò la testa nelle spalle, guardando in basso, sentendosi in colpa (aveva vanificato gli sforzi di Antonio, vero? Era stato solo un peso, giusto?), borbottando a mezza voce: <Non sentivo più nulla e sono uscito per voler aiutare e capire che succedesse…>
Arthur parve ignorare le sue parole e si sedette su una poltrona una volta arrivato in un grande e decorato salotto, ma non eccessivamente sfarzoso.
Lovino fu indeciso su dove sedersi, infine optando per un divano (non troppo lontano dalla poltrona dove stava il mr. sopracciglia), vicino al bracciolo (gli dava una sicurezza in più stare contro qualcosa di solido come il lato del divano).
Dopo poco tempo dei passi si fecero man mano più vicini.
L’italiano ipotizzò fossero due persone, supportato nella sua idea dal sentire due voci diverse conversare (non capiva che dicessero, ma le pronunce gli sembravano così tremendamente familiari).
Nel salotto entrarono due persone; una di esse era l’uomo che li aveva accompagnati nel viaggio e l’altro… per qualche istante Lovino pensò di avere davanti gli occhi Spagna, Antonio, proprio uno dei più grandi nemici di Arthur. Realizzò che era qualcuno che vi assomigliava tremendamente.
Aveva una faccia e corporatura simile a quelle del bastardo, stessi capelli lunghi tenuti raccolti in un nastrino e occhi di un verde brillante.
A guardarlo meglio, però, si accorse la piccola nazione, i suoi occhi erano leggermente più scuri e meno grandi di quelli di Antonio, il volto era leggermente più allungato e aveva un neo sotto un occhio.
“Chi cazzo è ‘sta sosia venuta male del bastardo?!” si chiese Romano, confuso.
Mentre ragionava, l’umano se ne era andato e il-tipo-troppo-simile-ad-Antonio si era messo ad osservarlo incuriosito, ma in ogni caso sedendosi su una poltrona vicino Arthur, guardando l’alleato leggermente perplesso.
Lovino ricambiava il suo sguardo perplesso dalla sua posizione contro il bracciolo del divano (praticamente usato come appiglio di salvezza).
<Questo è il mio alleato di cui ti ho spiegato.> fece Arthur, interrompendo il silenzio, guardando la piccola nazione.
“Spiegato è un parolone, stronzo…” pensò acidamente Lovino, senza però osare a parlare. Era giusto un pochino in soggezione e ancora confuso (una parte del suo cervello era concentrata sul capire perché l’alleato di mr. sopracciglia fosse così simile al suo capo. O forse doveva dire ex-capo…?).
<Questa è una frazione della tua parte. Il resto lo stanno già scaricando e portando dentro, me l’ha assicurato il tuo maggiordomo.> spiegò Arthur, tornando a guardare l’alleato, che annuì e disse: <Sì, me ne ha accennato venendo qua.>
<Beh, allora il mio lavoro è finito.> decretò Arthur, alzandosi.
L’altra figura si alzò e gli chiese, cortese: <Non vuoi fermarti per la notte? Sarai stanco.>
<No, mentre parliamo la mia nave viene già caricata con nuove vivande e i miei uomini si stanno prendendo una piccola pausa prima di riprendere il viaggio. Abbiamo tutti voglia di tornare a casa. E ho dei nuovi possedimenti della corona britannica da rendere noti ai miei sovrani.> spiegò Inghilterra.
La figura ancora senza nome per l’italiano annuì e congedò l’alleato: <Allora non ti fermo; va pure alla porta, sai dove è. Alla prossima, Arthur.>
L’inglese annuì e uscì dal salotto, rispondendo: <Alla prossima, Henrique.>
“Il suo nome è Henrique, quindi…?” si domandò (abbastanza retorico) Romano, osservando la persona con cui era rimasto nella stanza.
Quando il-così-chiamato-Henrique sentì la porta di casa chiudersi, si rivolse verso la sua neo-colonia (doveva ancora capire dove mandare le sue truppe per stabilire lì il controllo ufficialmente… ma una cosa alla volta). Gli sorrise cordiale e fece: <Sei una novità inaspettata, lo ammetto, ma piacere di conoscerti. Sono Portogallo. Tu?>
La piccola nazione lo fissò truce, intanto pensando: “Portogallo… questo nome non mi è nuovo, però non so dove potrei averlo sentito”.
Il portoghese, davanti il suo mutismo, si avvicinò al divano, facendo irrigidire dalla paura la piccola nazione. Lovino si rilassò leggermente solo quando il portoghese si sedette un po’ distante da lui, ma rivolgendo il volto verso di lui.
Almeno gli lasciava un minimo di spazio vitale.
<Ok, non deve essere semplice, anche perché so che non avrai avuto un viaggio piacevole, prima di tutto, Arthur non è rinomato per essere molto curante di quello che strettamente lo riguarda, è un po’ sbadato.> fece Henrique, cercando di trovare campo per iniziare una conversazione.
La piccola figura (palesemente un maschio, ma perché indossava un vestito rosa? E perché gli era familiare?) lo guardò con un'espressione che praticamente urlava fastidio e retorica incredulità. La vedeva sull’alleato britannico in tutte le sue sfumature, era abile ormai a riconoscerla.
<Non ti costringo a raccontarmi i tuoi segreti più oscuri ora, vorrei solo sapere chi sei. Ma suppongo tu voglia sapere un po’ più su di me, quindi eccoti accontentato. Il mio nome umano, come avrai potuto capire, è Henrique. Però è solo una "piccola" parte; ho un nome abbastanza lungo per gli standard altrui, a quanto pare. Il mio nome completo è João Henrique Lisboa Carriedo, ma->
<Carriedo?> chiese l’italiano, interrompendo a suo malgrado il mutismo in cui aveva cercato di calarsi. Ora era decisamente più confuso.
Perchè quel tipo che pareva Antonio ne condivideva (anche se solo in parte) il cognome?
<Sì, Carriedo, come Spagna. Lui però è Antonio Fernandez Carriedo, ma suppongo tu lo sappia già.> spiegò il portoghese.
Romano annuì e domandò, incalzante: <Perché hai il suo stesso cognome?>
<Perché siamo fratelli, lui è il minore.> rispose Henrique.
Lovino lo guardò ancora perplesso ed esternò (involontariamente) il suo dubbio in un borbottio: <Non mi ha mai detto di avere un fratello maggiore…>
<Se non fosse chiaro dal fatto che il suo peggior nemico è un mio grande alleato, non siamo in buoni rapporti. Non te lo avrà detto per questo.> suggerì João.
Lovino annuì, assorto nei suoi pensieri.
<Se siete fratelli, vuol dire che siete vicini con i territori, no?> domandò Lovino, guardandolo in volto con genuina perplessità. Henrique convenne fra sé e sé che quella piccola nazione era almeno un minimo sveglia e rispose: <Sì>
<Eppure mi ricordo di aver guardato una cartina, una volta… e l’unico con cui confinava era quel bastardo pervertito che ride in modo inquietante!> asserì risoluto il piccolo Vargas.
Il portoghese lo guardò un attimo confuso, prima di rifletterci e dire: <Probabilmente hai visto una cartina di quando eravamo “sposati” o, per come preferisco dire, uniti sotto la stessa corona. E non vorrei azzardare, ma tu o, per meglio dire, il tuo vestito non mi è nuovo. Abitavi con mio fratello nella grande villa fuori Madrid, giusto? Ci ho abitato per un po’ anch’io.> chiese Henrique.
Lovino annuì, una epifania lo colse e chiese: <Aspetta…! Giravi nei dintorni dei giardini da solo o con Olanda, forse…?>
João annuì sorridendo leggermente, aggiungendo: <Esatto>
<Tu e Antonio siete molto simili, soprattutto di spalle!> affermò Lovino candido, senza pensare di poter in alcun modo ferire la nazione che ha davanti (però poteva pensarci: d’altronde, lui odiava essere definito una copia del fratellino). Poi una sorta di rabbia lo colse ed esclamò: <Mi sono preso tantissimi spaventi inutilmente, allora!>
Il portoghese lo guardò confuso.
Lovino distolse lo sguardo, incrociò le braccia e bofonchiò: <Pensavo fossi quel bastardo e che se mi avessi visto mi avresti rimbeccato perchè stavo bighellonando invece di lavorare come mi avevi detto.>
Henrique ridacchiò al modo di fare tipicamente bambinesco (con quei cambi di umore e atteggiamento normali dell’età, ma che in una persona adulta sarebbero visti male) della piccola nazione e fece: <Beh, non sono lui>
<Sì. A vederti bene sei diverso! Mi hai ingannato da lontano e di spalle, ma non lo farai mai da vicino!> rispose come trionfante Lovino, un piccolo sorrisetto soddisfatto sulle labbra.
Il portoghese scosse leggermente la testa, ma sorridente. Era un tipetto un po’ strano la colonia che Inghilterra gli aveva portato, ma tutto sommato doveva essere facile tenerla in riga!
Poi si accorse consciamente del ricciolo vistoso che spuntava dal lato della testa. Lovino lo guardò storto e si imbronciò: <Che hai da fissare?!>
<Il tuo ricciolo, è familiare… sei legato a Impero Romano? Mi ricorda quelli che lui a-> João venne interrotto dal più piccolo che fece: <Sì, sono suo nipote… Sud Italia. O Romano.>
<Allora ci avevo visto giusto! Hai anche un nome da “umano”, Sud Italia?> domandò Henrique. Lovino borbottò qualcosa di incomprensibile dopo un lungo silenzio.
<Cosa? Non ho capito.> fece il portoghese.
<Lovino Vargas.> borbottò l’italiano.
<Nome carino e semplice da ricordare, mi piace! Posso chiamarti Lovino o preferisci essere chiamato in qualche altro modo?> chiese João.
Il piccolo italiano lo guardò leggermente confuso, il petto scaldato piacevolmente e senza motivo apparente.
Era… perché gli aveva chiesto la sua opinione? Era qualcosa di idiota, vero, ma lo faceva sentire bene. Tutti assumevano che in qualunque modo lo si chiamasse andasse bene o che si sarebbe abituato (ancora, qualche volta, si imbarazzava quando Antonio lo chiamava con quel nomignolo in spagnolo).
Lui invece si stava mostrando gentile, genuinamente gentile. Non lo aveva conquistato, era sì "solo" una parte di un bottino, ma non lo stava trattando da oggetto.
Lo stava trattando come una persona.
E sembrerà una cosa forse scontata, ma per lui era un po’ raro: solo Antonio gli aveva dimostrato tale interesse e non sempre.
“Forse questo qua non è così male.” riflettè la piccola nazione, per poi rispondere all’altro: <Va benissimo Lovino, ehm…- Portogallo…?>
<Chiamami pure Henrique o João, eccezion fatta se attorno c'é gente importante. Te lo dirò io casomai fossi presente, in quel caso dovrai chiamarmi signor Lisboa o Portogallo.> spiegò Henrique.
Lovino rimase in silenzio qualche secondo, poi decretò ad alta voce: <Lo fai complicato.>, scatenando una leggera ilarità in João.
<Dimmi, ti piace di più come nome Henrique o João?> domandò Portogallo col sorriso in volto.
<Henrique.>
<Allora io per te sono Henrique e, se ci saranno cambi di programma, te lo dirò per tempo.>
<Mh-h… Henrique.>
La nazione più grande sorrise radiosa e fece: <Allora benvenuto a casa mia, Lovino!>
<Grazie…?> rispose confuso Lovino. Poi il suo stomaco brontolò rumorosamente e le sue guance si fecero più rosee, sotto lo sguardo premuroso dell’altra nazione.
<Deve essere stato un viaggio lungo e Arthur ti avrà lasciato a te stesso! Non dovrebbe avere a che fare con le colonie, non sa davvero come comportarsi!> João rimproverò il britannico anche se lì non era presente, sotto lo sguardo giudicatore di Lovino.
“Era partito bene… ora sembra un idiota.” si disse l’italiano.
<Cosa vorresti da mangiare?> domandò Henrique alla piccola nazione, che pensò all’istante al suo cibo preferito ed affermò: <Dei pomodori andranno benissimo.>
Portogallo gli porse una mano e lo esortò: <Allora vieni che ti porto in cucina>
Lovino guardò male la mano che gli era porta ed incrociò le braccia, bofonchiando: <Sono grande, non ho bisogno della mano!> e provando a scendere dal divano e camminare da sé. Peccato che le sue gambe erano ancora un po’ deboli e al piccolo salto, dopo ulteriore tempo da seduto, esse cedettero e si ritrovò col culo a terra, dolorante.
La nazione si chinò accanto a lui e, prendendolo per ambedue le mani, lo aiutò a sollevarsi, chiedendogli nel mentre: <Ti sei fatto male?>. Lovino serrò gli occhi qualche secondo e poi li riaprì, fissando con orgoglio e sfida l’altro.
<Sto bene.> affermò Romano, anche se la voce leggermente gli tremò.
Henrique non insistette e, tenendolo per entrambe le mani, lo condusse in cucina, andando piano casomai la piccola colonia avesse un altro cedimento di gambe. Lovino, nel suo piccolo, apprezzò davvero tanto il gesto (anche se mantenne un piccolo broncio in faccia perché era fatto così).
Una volta arrivati in cucina, Henrique prese Lovino per i fianchi.
<Ehi! Lasciami!> protestò l'italiano, scalciando un poco.
<Voglio solo farti stare più comodo.> si difese l'iberico, poggiando il piccino sopra il tavolo e poi andando alla ricerca dei pomodori.
Lovino non disse piú nulla e scalciò leggermente le gambe nell'aria, osservando l'adulto andare verso una parte della cucina (ricca di cibarie varie) dove erano poste varie ceste di vimini coperte da piccole pezze di tela. Henrique prese qualche pomodoro bello grande e tornò da Lovino, chiedendo: <Li vuoi tagliati?>
L'italiano allungò le mani e affermò: <Van bene così!>
João sorrise cordiale e gli porse i tre grandi pomodori presi, che il piccolo prese subito. Ne poggiò due accanto a sé e prese a mangiarli voracemente, sorridendo (non sapeva da quanto non mangiava dei pomodori e quelli erano davvero buoni!).
Si sporcò un po' il volto e le mani col succo di quegli ortaggi che svanirono velocemente nel suo stomaco.
Henrique, mentre la piccola nazione mangiava, andò a prendere da una bacinella d'acqua un panno bagnato che strizzò fino a lasciarlo solamente umido.
Tornò dalla piccola colonia e glielo porse quando vide che aveva finito ("É stato una scheggia!" pensò l'iberico), spiegando: <Usalo per pulirti, ti sei un po' sporcato.>.
L'italiano afferrò il pezzo di stoffa, imbarazzato, e si pulì il viso e le mani mentre le gote si coloravano di rosso.
Henrique ridacchiò divertito, commentando: <Ora sembri uno di quei pomodori che hai mangiato… o un peperone!>
Il piccolo mise su un broncio indispettito e si pulì, bofonchiando: <Non chiamarmi così!>
<D'accordo, Lovino.> acconsentì l'adulto, dolcemente.
Romano lo guardò con indifferenza e poggiò la pezza sul tavolo accanto a sé. Henrique la prese e, mentre andò a rimetterla a bagno nel catino, esordì: <Ora che sei una mia colonia, avrai delle regole da rispettare.>
"Sei molto gentile e tutto quello che vuoi, ma son sicuro che quel bastardo sta facendo di tutto per venirmi a salvare quindi questo é inutile! Vero…? Però penserà che io sia con il bastardo dalle-enormi-sopracciglia!" si disse l'italiano (ma una piccola voce nel suo orecchio sussurrava "Tanto non verrà, in realtà é contento che tu non ci sia più").
<Mh> rispose solamente l'italiano. L'iberico proseguì: <Punto primo, mi devi rispettare. Nel senso, io sono gentile e ti rispetto finché tu farai la medesima cosa. Non voglio essere un dittatore, se possibile vorrei vivere in armonia con le mie colonie. E così voglio pure con te, Lovino.>
Lovino annuì distrattamente, facendo però una piccola smorfia. Odiava avere ordini.
Henrique si girò e tornò da lui, proseguendo: <Punto secondo, avrai delle mansioni da fare. Principalmente, ti chiedo solamente di tenere in ordine la tua stanza e di avere cura delle tue cose. Con il passare del tempo avrai più responsabilità se mi dimostrerai di essere grande e maturo.>
"Ma io sono già grande e maturo! Però non voglio altre faccende!" pensò contraddittorio Romano.
Il portoghese, infine, poggiò una mano sulla sua spalla e gli sorrise dolcemente: <Punto terzo, comportati bene con me, con le persone che lavorano in casa e nei campi, con gli ospiti e con le altre colonie->
<Altre colonie?> domandò Lovino, curioso. Il portoghese annuì e spiegò: <Sì, ovviamente ho altre colonie. Sia qua, sia nei loro territori, perché se si comportano bene hanno il permesso, con una scorta, di tornare per una stagione nelle loro terre. Per ora, sono qua solo due colonie, più o meno della tua età, praticamente. Vuoi conoscerle?>
Lovino rifletté un attimo e chiese: <Sono due maschi?>
Henrique sorrise, pensando che la piccola nazione cercasse la compagnia maschile per giocare (o, se era un po' più grande mentalmente, stava già ricercando la compagnia del "gentil sesso").
<Sono un maschio e una femmina.> rispose João.
"Speriamo che la ragazza sia carina e che il tipo non sia antipatico!" pensò Lovino, per poi dire: <Va bene, voglio conoscerli!>
<Bene. Loro sono ancora in giardino, suppongo. Quando sono venuto da te e Arthur erano lì. Andiamo a vedere se sono ancora laggiú.> avvertì Henrique, prendendo di nuovo per i fianchi Lovino e poggiandolo a terra, porgendogli la mano.
Questa volta l’italiano prese subito la mano del portoghese (ben più grande della sua, abbronzata, calda e un po’ ruvida; notò la piccola nazione) e si lasciò portare fino ad una spessa porta di legno scuro.
Il portoghese l’aprì e si fermò sull’uscio, fuori, lasciando un attimo la mano a Lovino.
Il bambino lo guardò confuso e Henrique spiegò, mentre si toglieva le scarpe leggere che calzava: <Nei campi ci sono tratti sporchi di fango e per evitare di portare sporcizia in casa ci si cambia le scarpe fuori, mettendo su degli stivali.>
João sorrise dolcemente alla colonia, mettendosi il secondo stivale: <A pensarci, dovrò far fare degli stivali pure a te! Oltre a dei nuovi vestiti e pulire una camera per te!>. Lovino annuì piano, dicendosi che non ce ne sarebbe stato davvero grande bisogno, perché sarebbe stato recuperato da Antonio in fretta (e ancora una volta una voce sussurrò che era inutile sperare, che lo spagnolo non lo voleva più e che sarebbe rimasto lì).
<Allora ti dovrò portare io in braccio per un pezzo, non fin da subito, ok?> disse Henrique, prendendo di nuovo la mano a Lovino e andando in direzione dei campi, passando per una stradina di terra battuta nel corso degli anni da persone, animali e carretti.
Romano rispose in assenso con un verso, per poi realizzare una cosa che gli fece divenire le guance scarlatte dalla vergogna. Perchè non ci aveva pensato prima?!
<N-Non posso f-f-fa-farmi ve-vedere c-c-co-così!> esclamò fra i balbettii Lovino, puntando i piedi a terra e fermandosi. João lo guardò confuso, fermandosi a sua volta, e chiese: <Qual è il problema, Lovino?>
<N-N-Non è ovvio? É-É-É pe-perché i-in-indosso… questo!> rispose balbettando l’italiano, prendendo un lembo del tessuto della gonna e scuotendolo, le guance scarlatte. Sarebbe parso sicuramente ridicolo davanti quegli altri due ragazzini se si fosse presentato vestito con un vestito da ragazza!
<Con me non sei in imbarazzo.> affermò Henrique, confuso. Non aveva fatto molto caso a come fosse vestito e non lo aveva giudicato: dopo aver viaggiato per molte parti del mondo e aver visto molte culture, non trovava nulla di strano nel vedere un ragazzino indossare dei vestiti “femminili”.
<C-Con te è d-d-diverso, su-su-suppongo!> ribatté Romano, le guance ancora scarlatte, fissando a terra. João si chinò, così da essere più o meno col volto alla stessa altezza di Lovino, e gli poggiò una mano sulla spalla.
<Sono grato che tu non ti senta in soggezione davanti a me già adesso, significa davvero molto, ma ti assicuro che non devi sentirti imbarazzato dall’idea di presentarti così davanti le altre mie colonie. Vengono da varie parti del mondo, hanno imparato a conoscere modi di fare ed essere diversi dai propri. So che sanno che ognuno deve avere la libertà di esprimere se stesso liberamente, finchè non si fa del male agli altri, senza la paura di venire criticato. A loro, che tu indossi una gonna o delle braghe non cambia nulla. Al massimo saranno solo stupiti che hai i vestiti rovinati e saranno curiosi di quello, non del vestito in sé. Te lo giuro.> spiegò Henrique con un sorriso dolce in volto e in modo confortante.
Il tono era stato contenuto, aveva parlato a mezza voce, e premurosamente.
Lovino lo aveva ascoltato attentamente, rilassandosi nel corso della spiegazione, le guance ora di un colorito normale.
“Ha una voce davvero rilassante” asserì mentalmente la piccola nazione, chiudendo un attimo gli occhi e inspirando profondamente.
Era stato davvero… gentile e comprensivo.
L’unica altra persona che ha mai provato ad esserlo con lui è stata Antonio (“Deve essere una cosa di famiglia” si disse).
Successivamente riaprì gli occhi e rispose: <D’accordo, ti credo.>
João sorrise radioso, gli scompigliò leggermente i capelli in maniera affettuosa e si rimise in piedi, esclamando: <Bene! Allora proseguiamo, manca poco! Ah-!> e prese Lovino per i fianchi, per poi mettergli un braccio sotto come appoggio e tenendoselo contro il petto.
L’italiano arrossì all’istante, allacciando le braccia attorno il collo dell’adulto per essere più stabile, quasi sprofondandovi la faccia, a nascondersi nell’incavo.
Non se lo aspettava (cioè, sapeva che sarebbe dovuto accadere, ma non gli aveva dato un minimo di preavviso sul momento) e si sentiva strano (era normale che trovasse João un appoggio così comodo e confortevole?).
Henrique proseguì a camminare senza problemi, osservando attorno a sè, casomai le due piccole colonie che stavano cercando si fossero spostate dall’aiuola e fossero ancora nei dintorni. Per sua fortuna, intravide i due bambini ancora vicini all’aiuola, entrambe chinati attorno, una dei due chiaramente affaccendata.
<Siamo quasi arrivati, Lovino.> Henrique avvertì a bassa voce l’italiano, il quale si staccò col volto dall’adulto e girò la testa nella medesima direzione dell’altro, vedendo le figure dei due bambini chinati.
<Crianças!> li richiamò il portoghese nella sua lingua natia. Le due colonie si girarono e si misero in piedi, sorridendo qualche attimo prima di fissare in curioso silenzio la figura trasportata in braccio da João.
<Oggi si è unita un’altra colonia a noi!> incominciò Henrique, avvicinandosi ancora e poggiando l’italiano a terra, il quale sentì l’adulto praticamente sussurrargli all’orecchio: <Su, presentati!>
Lovino prese un po’ di coraggio e, senza torturare troppo la gonna della veste, fece: <Mi chiamo Lovino… piacere.>
<Ciao, io sono Luciano.> si presentò il bambino. Aveva gli occhi del medesimo color del miele, i capelli castani arruffati e la pelle abbronzata (almeno, più della sua).
Luciano porse la mano a Lovino, il quale la prese e la scosse piano, imitando il saluto che Antonio riservava ad alcuni umani tutti seri e vestiti di punto che ogni tanto venivano a casa loro (soprattutto nell’ora del riposino, dannazione!) e tenevano il bastardo occupato tutto il pomeriggio.
Poi fu il turno della bambina di presentarsi. Aveva i capelli lunghi oltre le spalle, ondulati e scuri (e un candido fiore bianco era incastrato appena sopra l’orecchio), mentre gli occhi erano praticamente neri, era difficilissimo distinguere la pupilla dall’iride.
Ella allungò una mano e sorrise radiosa, dicendo: <Il piacere è anche per me, io mi chiamo Celeste!>
Lovino la prese in fretta, sorridendo leggermente (cosa non gli faceva il gentil sesso!), dicendosi che era una bambina molto carina.
<Quel ricciolo è molto strano, non ho mai visto nessuno con niente del genere.> notò Luciano, guardando indagatore il volto del nuovo arrivato e il suo strano ciuffo di capelli ribelle.
<Questo ricciolo è una cosa della mia famiglia e basta! Infatti solo i Vargas ce li hanno! Per esempio, ne aveva due mio nonno, anche se più piccoli di questo, e ne ha uno anche mio fratello, anche se-> iniziò a spiegare Lovino, interrotto da Celeste che chiese: <Hai un fratello? Un fratello fratello?>
<Sì…> rispose Lovino, un poco incupitosi (“Feliciano attira più attenzioni di me anche solo se ne accenno! Non è giusto, per una volta volevo essere io l’importante!”).
<Beh, allora sei molto fortunato! Anche a me piacerebbe avere un fratello o una sorella con cui avere tanto in comune!> fece Celeste con tono quasi sognante.
<In realtà siamo molto diversi e non lo vedo da un bel po’.> puntualizzò Lovino atonale.
Sul volto della bambina si dipinse un'espressione che all’italiano non piacque e, piuttosto che essere la causa del rattristarsi di una così bella bambina, aggiunse subito: <Ma a me va benissimo così, ognuno ha le proprie vite e le proprie cose da fare. Non siamo mai stati moltissimo insieme neanche quando vivevamo con mio nonno. Poi lui se n'è andato e siamo rimasti a governare l’Italia. Lui il nord ed io il sud.>
<Italia? Dove si trova? Non l’ho mai sentita.> chiese Luciano, aggiungendo: <Tu non sei delle Americhe, vero?>
Lovino scosse la testa e rispose: <No, sono dell’Europa. Praticamente al centro, un po’ a basso. Sono al centro del mar Mediterraneo.>
<Sei un po’ lontano da qui…> commentò Celeste, riflettendo, cercando di ricordare le lezioni di geografia ricevute da Henrique.
<Suppongo…?> commentò incerto Lovino, dato che ancora non aveva capito benissimo dove si trovasse (doveva essere confinante con i territori di Antonio, peccato che non sapesse in quale parte precisa dell’Iberia fosse).
<Sì, è un po’ distante da qua, ma non moltissimo. Essendo sempre in Europa, arrivare ai suoi territori da qua comporta molto meno tempo che tornare nelle vostre terre, crianças.> spiegò João, sorridendo leggermente. Era rimasto muto, guardandosi un po’ in giro per notare se casomai qualcuno battesse la fiacca, per evitare di lasciare soli i bambini mentre non avevano ancora rotto il ghiaccio.
<Beh, su quello non ci piove…> commentò Luciano.
<Voi di dove siete?> chiese Lovino (il motivo non lo sapeva neppure lui… che per una volta volontariamente volesse conoscere delle persone?!).
<Vengo dalle Americhe, sono un posto chiamato Brasile. Per questo motivo ti ho chiesto se fossi un mio “vicino”, perché non mi pareva.> rispose il bambino.
<Cosa ti ha fatto pensare che non lo fossi?> domandò Lovino, incuriosito.
<Non lo so benissimo… istinto, credo.> suppose Luciano.
Romano annuì e successivamente si rivolse alla bambina: <Tu invece da dove vieni?>. Lei sorrise e spiegò: <Vengo da molto lontano, dall’Asia. Però non l’Asia che si conosce, io sono in mezzo al mare, sono un'isola fra tante chiamata Timor.>
<Che nome strano.> affermò Lovino, senza cattiveria o malizia; con candore e innocenza infantile.
<Per me è strano il tuo nome… Itala, giusto?> ribatté Luciano con calma.
<Italia, non Itala… Brasile.> affermò Romano, cercando di ricordare correttamente il suo nome. L’altro bambino annuì, a segnalare che l’aveva detto correttamente. L’italiano sentì un moto di orgoglio nascergli nel petto e dilagarsi, riempiendolo di piacevole tepore.
<Cosa ti piace fare, … Lovino?> chiese Celeste, sperando di non aver sbagliato nome. L’italiano, sorridendo leggermente all’essere chiamato per nome (correttamente), rispose: <Nulla di particolare.>
<Non deve essere qualcosa di straordinario, ma qualcosa che ti piace fare.> asserì Luciano che, scocciatosi di rimanere in piedi, si sedette a terra.
Subito lo seguì la bambina, che si sedette a gambe incrociate, cercando di tenersi coperta le cosce con la sua semplice veste di lino.
Lovino li imitò, sedendosi con una gamba stesa e una gamba piegata, appoggiando su quest’ultima il gomito del braccio con cui si reggeva il volto. Non gli interessava come era messa la gonna, tanto addosso aveva dei pantaloncini che arrivavano a oltre metà coscia (erano lunghi quasi quanto la gonna), quindi non aveva problemi nel far “vedere” cosa ci fosse sotto.
Intanto Henrique si era allontanato silenzioso, andando in cucina per far preparare loro qualcosa da mangiare, uno spuntino.
<Beh, mi piace disegnare, anche se non sono molto bravo, poi mi piace cucinare o comunque aiutare a cucinare, passo volentieri tempo ad occuparmi delle mie piante di pomodori, la mia parte preferita è raccogliere i pomodori e mangiarli… e mi piace fare pisolini al fresco, in piacevole silenzio.> spiegò Lovino agli altri due bambini.
<Beh, credo che a tutti faccia piacere dormire sereni.> commentò Luciano.
<Per me è molto importante ed è una cosa che adoro fare, non dormo solo perchè sono stanco.> ribatté Lovino.
<Ti piace tanto stare in giardino a prenderti cura delle tue piante? Anche a me, anche se alle piantine di pomodori o altro cibo preferisco i fiori.> si “intromise” Celeste, per mantenere il discorso sereno.
<Hai un fiore nei capelli anche adesso, ho intuito che ti piacessero. E quel fiore ti sta bene> rispose Lovino, un leggero rossore sulle guance, leggermente più gonfie perchè le labbra erano incurvate all’insù in un timido sorriso.
<Grazie, è uno dei fiori che ho cresciuto io! Un po’ mi è dispiaciuto strapparlo, ma ce ne sono altri come lui e mi piaceva così tanto! Se vuoi te ne posso dare uno, sembri apprezzare cose più da “femmina”.> propose Timor.
<Intendi per il vestito? Il mio-... precedente capo mi costringeva ad indossare questi vestiti anche se sapeva benissimo fossi un maschio… e dopo un po’ mi sono abituato. E poi ho sotto dei pantaloni corti, quindi sono sempre comodo.> spiegò Lovino, le guance più rosse per l’imbarazzo.
<Beh, ti piacciono cose più da “femmina” che a me. Non mi interessano i fiori o le piante, sono qui solo per passare tempo con Celeste.> affermò Luciano risoluto.
<Beh, cosa ti piace fare?> domandò Romano.
<Mi piace imparare nuove cose, stare all’aria aperta in generale, giocare con la palla-> ma il brasiliano venne interrotto nel discorso dall’italiano che fece: <Oh, anche a me piace giocare a palla! Ecco, mi sembrava di aver dimenticato qualcosa nella lista!>
<Sei bravo?> domandò Luciano.
<Non lo so, spesso gioco da solo o con qualche tipo delle cucine se il bastardo è impegnato.> rispose l’italiano. Alle sue parole Timor la brunetta si accigliò e chiese: <Bastardo?>
<Così è come chiamo il mio ca-... ex-capo.> si corresse ancora Lovino, ma già più incline di prima al pensare di avere il portoghese come capo (in fondo lui non sembrava niente male, Celeste era carina e Luciano- doveva ancora capire bene come inquadrarlo… però qualcosa ancora stonava e non ne capiva il perché).
<Non è carino.> puntualizzò l’ovvio la bambina. L’italiano scrollò le spalle; il bastardo mai si era veramente impegnato a fargli smettere di chiamarlo così e quindi lui aveva preso l’abitudine di usare quel nomignolo.
<In ogni caso…> cambiò discorso Luciano <ti andrebbe di giocare a palla con me? A Celeste non piace tanto e João non è molto bravo: forse te sei meglio.>. Il brasiliano si alzò e gli porse la mano, aggiungendo: <Ti va?>
Sul volto di Romano si dipinse un piccolo sorriso di sfida, rispose: <Certo!> e prese la sua mano per farsi aiutare a sollevarsi, per poi pulirsi il retro della gonna.
Anche Celeste si alzò, scrollandosi dal leggero vestito più polvere che poteva (anche se era già sporco prima di terra e ora lo era un po’ di più).
Successivamente prese per una mano Lovino, esclamò: <Allora ti portiamo al nostro campo da gioco personale!> ed iniziò a condurlo sulle stradine di ciottoli e terra battuta che dividevano i vari campi con la vegetazione.
Lovino arrossì al contatto inaspettato ma non se ne sottrasse (non era affatto un idiota e una cosa del genere non se la lasciava scappare! E poi c’erano più speranze di avere da lei un bacino che da Belgio!), lasciandosi guidare dalla bella bambina.
“Se le chiedessi di baciarmi non credo di poter dirlo in spagnolo, non lo sa!, ma neppure conosce l’italiano… però dirlo in questa lingua comune è mediocre! Devo imparare a dirlo in portoghese! O si dice “portagnolo”...? Ma che domande mi faccio, è sicuramente “portoghese!” la parola giusta!” si disse Lovino.
Luciano lo tirò fuori dai suoi pensieri dicendo: <In realtà questo nostro campo da gioco è solo uno spazio dove la terra è troppo secca per coltivarci bene qualcosa e allora João ci lascia usarlo come vogliamo. Sempre meglio di niente, suppongo.>
Lovino mugugnò in assenso, ancora un po’ perso a godersi la camminata spedita mano nella mano con Celeste. Però il brasiliano interruppe ancora il momento speciale: <Sarai comodo a giocare con quella gonna? Voglio giocare alla pari.>
<Eh-?! Ah-!, sì sì, non ci dovrebbero essere problemi! Sono abituato a fare tutto quello che faccio con addosso questo tipo di vestito.> rispose Lovino, disincantandosi.
<Bene… Ah, comunque, ti spiego già le regole di come giochiamo a palla. Ascolta bene, non mi piace molto ripetermi.> Luciano introdusse l’argomento. Lovino annuì, ruotando gli occhi senza farsi vedere (“Chi cavolo si crede? Se non capisco qualcosa, ho il diritto di risentirla!”), e tese comunque le orecchie.
<Abbiamo una sola porta, che in realtà è un oggetto e basta. Un ulivo grande e che è storto in basso. Bisogna colpirlo all’altezza del tronco; da dove è dritto fino a che non inizia a diramarsi nei rami per fare punto, altrimenti la palla passa all’avversario, che la calcia da metà campo. Stessa cosa se la palla esce fuori lontano dall’albero. Però, per decretare a chi tocca la palla prima delle partite la si mette a fine campo, al centro della “linea” finale. Chiaro?> spiegò il bambino.
Romano rispose: <Chiarissimo> e dentro si sentì un po’ più triste quando Timor gli lasciò la mano, annunciando che erano arrivati e offrendosi di andare a prendere il pallone, che era in un capanno lì vicino.
Mentre lei si allontanava veloce, Luciano poggiò una mano sulla schiena di Lovino, in mezzo alle scapole (Lovino si trattenne dal fare commenti e si staccò di pochissimo dal contatto), e lo condusse verso il fondo campo.
<Quello è l’albero> e Luciano indicò un vecchio albero di ulivo (palesemente malato, nell’opinione dell’italiano) dall’altro lato del campo, quasi perfettamente al centro, e lo condusse fino alla fine del campo, fermandosi in un punto e affermando che lì si trovasse la linea finale del campo. Lovino annuì e si mise davanti l’altro bambino su quella linea immaginaria, pronto.
Subito dopo notò una cosa e chiese: <Sicuro che non sarai scomodo con quegli stivali?>. Il più alto scosse leggermente la testa e rispose: <No, sono comodo. Suppongo che sia la stessa storia di te con la gonna, mi sono abituato a fare praticamente tutto quello che solitamente faccio con addosso questi.>
<Bene.> fece in risposta Lovino, girandosi nella direzione da cui avvertì provenire dei passi. Dall’altra parte del campo c’era Timor con un pallone di stoffa fra le mani e disse a voce alta: <Provo a passarvela da qui!>
La poggiò a terra e le diede un poderoso calcio. La palla fece un discreto volo in alto e si avvicinò molto ai due bambini. Luciano scattò in avanti per primo e la parò di petto, facendola ricadere a terra vicino a sé e fermandola sotto il piede destro. Poi fece un breve passaggio nella direzione di Lovino, il quale fermò il pallone e lo poggiò al centro.
<Se vuoi, facciamo tirare la palla a Celeste, così siamo sicuri che nessuno dei due la lancia avvantaggiandosi.> propose Luciano, mentre la bambina correva come una scheggia per il campo, diagonalmente.
<Ma allora sarebbe stato inutile il suo calciarla verso di noi.> borbottò Lovino.
<Ci ha lasciato la possibilità di decidere. La lanciamo noi o la facciamo lanciare a lei?> domandò il brasiliano.
Romano non dovette pensarci più di tanto e fece: <Aspettiamola e facciamola lanciare a lei.>
Luciano annuì e intanto Celeste li raggiunse con un leggero fiatone.
<Lasciamo a te l’onore di lanciarla.> affermò il brasiliano, guardando la bambina, che sorrise grata e fece fra le grandi boccata d’aria: <Grazie… mille…>.
Poi si chinò a raccogliere la palla, regolarizzò un po’ il respiro ed esordì: <Siete pronti? Tre, due, uno… che la partita inizi!> e lanciò la palla in aria e in avanti.
I due bambini scattarono verso la palla. Il primo a prenderla fu Luciano, che si diresse subito verso l’albero. Lovino però lo tampinava e in fretta riuscì a sottrarre all’altro la palla, ridacchiando leggermente (per boria, per aumento di confidenza o per mera allegria? Chissà, neppure lui lo sapeva…).
Si scostò il più possibile dal suo avversario, sfrecciando veloce (la sua abilità a fuggire dai nemici tornava utile in qualsiasi gioco coinvolgente la velocità e gli scatti).
Sentendosi abbastanza fiducioso, l’italiano tirò la palla quando ancora mancava poco meno di metà campo dall’albero.
Per sua sfortuna Luciano, adorando stare all’aria aperta, amava di conseguenza arrampicarsi, correre e saltare, comportandosi più come un animale che come una persona civilizzata “di natura” (anche se probabilmente era lo spirito di quelle popolazioni nomadi e nascoste ai colonizzatori nelle sue terre, così in contatto e agili nella natura, a dargli quell’indole e abilità).
Perciò fece un salto bello alto, alzando una gamba più che poteva, deviando il percorso della palla, la quale schizzò come un fulmine verso l’alto, tornando indietro.
<Cosa-? No!> protestò l’italiano (senza però essersela davvero presa). Inchiodò i talloni a terra e si girò, venendo nel mentre superato dal brasiliano, che aveva dalla sua anche le gambe più lunghe (“Perchè devo essere così basso e con delle gambe più corte di quelle delle galline?!”). Luciano, senza voltarsi, sorrise vittorioso e si diresse verso la palla, che stava pigramente rimbalzando fino al bordo del campo.
<Dai, Lovino, batti Luciano! Ha bisogno di sapere che può essere sconfitto!> lo incoraggiò allegramente Celeste dal bordo del campo, seguendoli da lì, più lentamente, avanti e indietro per il rettangolo di terra.
Romano si sentì caricato dall’incoraggiamento e si costrinse a correre più rapidamente, raggiungendo Luciano, che era riuscito a prendere per sé la palla.
<Mia!> strillò Lovino, che calciò la palla lateralmente, tentando di allontanarla dal brasiliano, avendo successo.
<Ehi-!> protestò Luciano, mettendosi subito a inseguire il pallone, ma con l’italiano che era già più avanti di lui e stava per raggiungere la palla. Celeste da bordo campo ridacchiò e prese a fare di nuovo il tifo per l’italiano.
Lovino sorrise radioso, prendendo la palla e correndo diagonalmente per il campo verso l’albero, attento all’avversario. Si permise persino di sprecare fiato e ridere, ridere genuinamente, mentre si avvicinava alla porta.
Forse avrebbe potuto piacevolmente abituarsi a quella nuova vita, in quella nuova casa, in quella nuova nazione, con quelle nuove colonie e quel nuovo capo.
In fondo, non tutto il male viene per nuocere.
N/A: ok, questo capitolo é lungo oltre 10500 parole. É nettamente il più lungo che abbia mai scritto in quasi quattro anni di attività su Wattpad.
Ci tengo molto a dire che questa storia é nata da una piccola role fatta con la cara wolf_girl_ice mentre già ne stavamo facendo un'altra.
L'idea di base di tale role mi é piaciuta e quindi l'ho un po' espansa e modificata.
Mi sono divertita a scrivere tale capitolo e spero sia piaciuto pure a voi lettori.
Se mai voleste una seconda parte "conclusiva", scrivetelo pure nei commenti.
Lo chiedo giusto per sapere se vale la pena scrivere un altro capitolo o se ha fatto schifo a qualsiasi essere vivente che si é imbattuto in tale storia e che quindi sia più saggio che io investa il mio tempo nel proseguire a scrivere le mie altre fanfiction.
Detto questo, vi ripeto di commentare, se volete, dicendomi le vostre opinioni (o commentare in generale lungo il capitolo, io adoro leggere e rispondere ai commenti dei lettori) e vi saluto.
Ciao ciao e grazie per il vostro tempo!
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