Affetto e potere non vanno a braccetto

N/A: ehilà! 
E' passato giusto un po' di tempo, eh?
Giusto giusto... *controlla la data di pubblicazione* beh... *lancia lontano la data di pubblicazione* se avessi aspettato a settembre sarebbero stati 4 anni.
Oh, l'ho scritta durante l'anno del covidde, mentre ero ancora alle superiori!

E ora sono all'università, ben al secondo anno e questa settimana ricomincio dopo la sessione...
Già, di tempo ne è passato.

E sapete la cosa più buffa?
La maggior parte di questo capitolo è stato scritto nelle ultime due settimane!
E anche la prima parte del capitolo, per me "vecchia", è stato scritto moooolto dopo il primo capitolo. Sono andata a controllare. L'avevo iniziato nel gennaio del 2023...

Eppure dire che di solito sono costante. E' altresì vero che questo era il mio guilty pleasure che consisteva nel scrivere una cazzatina in cui mettere il mio amore aph Portogallo.
Che è ancora il mio amore e tutt'ora shippo con Lovino perché sì, è divertente.

E basta con le introduzioni e via con questo capitolo, anche più lungo del precedente perché ve lo meritate dopo tutta questa attesa (anche se dubito che effettivamente qualcuno stesse aspettando questo capitolo.)
Potrebbe esserci anche un terzo capitolo, dipende da quello che direte voi e soprattutto se siete disposti a rischiare l'aggiornamento in un periodo di tempo che va da un mese a oltre tre anni dopo la pubblicazione di questo.

Ok, la smetto!
Buona lettura!



Quella sera, Lovino tornò in casa stanco, sudato, sporco di terra ma entusiasta.
Era da chissà quanto tempo che non si divertiva così! Forse da quelle rare volte passate con il fratello, sbiadite dal tempo. A casa di Antonio era sempre solo, circondato da adulti o quasi che lo squadravano dall'alto in basso o bonariamente lo prendevano in giro. Il meglio era quelli che lo trattavano con accondiscendenza ed era tutto dire.

Tornati dentro, trovarono qualche cuoco che serviva in dei piatti una qualche zuppa molto densa.
<Cosa si mangia?> domandò Lovino a Celeste.
<Dall'odore è Caldo Verde.> rispose candidamente lei, togliendosi gli stivali e infilando delle belle scarpine pulite.

<Caldo che-?>

<Cavolo, patate e un po' di salsiccia.> illustrò Luciano, dirigendosi verso una fontanella abbastanza bassa da essere fruibile per loro. Controllò che la bacinella appena sotto fosse piena e si sciacquò le mani lì dentro. L'italiano lo imitò, domandando: <Non andiamo a farci un bagno?>

<Dopocena è meglio. Ma dato che hai la faccia tanto sporca, dai una lavatina pure a quella già adesso.> consigliò Celeste, sgocciolando le mani bagnate nella bacinella.

Lovino si sfregò un po' la faccia, usando l'unico lembo di gonna un po' pulito per asciugarsi e li seguì come un pulcino faceva con la gallina-mamma. Si sentiva un idiota nel farlo, ma allo stesso tempo non voleva fare la figura dell'idiota esplicitamente davanti agli altri perché mostrava come non sapeva né dove andare né che fare!

Arrivarono in una sontuosa sala, dove Henrique li stava aspettando, mentre discuteva con un anziano signore, che stava in piedi. Al vedere i tre bambini, l'umano si inchinò e li lasciò soli.

<Vi siete divertiti?> chiese João ai tre, che annuirono o fecero un verso in assenso.
Celeste si mise a chiacchierare mentre la zuppa veniva servita accompagnata da fette di pane: <Abbiamo giocato taaanto taaaanto e poi quando il sole stava calando siamo andati a vedere i miei fiori e a lì abbiamo annaffiati perché la terra era troppo secca.>

<Già, oggi è stata una giornata molto calda, ma sei stata attenta e i tuoi fiori possono continuare a vivere rigogliosi.> convenne la potenza coloniale, iniziando a mangiare.

Lovino girò la zuppa con sospetto. Ne prese un cucchiaio e lo trangugiò in fretta, non sentendo troppo sapore. Bevve un secondo sorso con più calma, masticando la verdura. Il cavolo aveva un sapore strano e la patata l'aveva mangiata poco, ma corrispondeva a quello che ricordava. Morbida e pastosa, meno acidula che dolciastra.

Strappò un pezzo di pane e lo unì al resto in bocca, contento. Non era male!

<Ti piace Lovino? Dubito tu l'abbia già provata.> chiede João, fermandosi un attimo nel mangiare.
Lovino provò a parlare a bocca piena, si fermò dopo una parola farfugliata, mandò giù imbarazzato e annuì velocemente.

<È buono, anche se il cavolo ha un sapore strano.> ammise il piccolo.
<È un cavolo del nord dei miei territori, ecco perché. Ti assicuro che però è cavolo.> sorrise la potenza coloniale.
<Ci credo, ci credo.> e Lovino riprese a mangiare.

Finita la cena, João li costrinse a portare i loro piatti in cucina, cosa che Lovino fece controvoglia (ma non voleva fare l'antipatico davanti Celeste e Luciano), e poi il portoghese li mandò a lavarsi.

Il portoghese l'accompagnò nelle sue nuove stanze, gli consegnò due cambi puliti, una vestaglia da notte femminile e in alternativa una maglietta e delle braghe, e gli indicò il bagno che condivideva con Luciano.

Entrare in compagnia nella vasca nudo come un verme fu molto imbarazzante, anche se l'altra colonia non mostrò nessuno fastidio.
Anzi, chiacchierarono pure un po', annusando qualche sale profumato e decidendo quale preferissero, mentre l'acqua calda li lavava e rilassava i loro muscoli.

Lovino realizzò che quella giornata era effettivamente finita quando, indossata la vestaglia (era molto liberatorio non avere i pantaloni!), si mise a letto, fissando il soffitto buio.
Quella giornata strana era finita, il viaggio con quel sopracciglione era finito, Antonio... era finito.

Cioè, la sua relazione con lui era finita! Non lui (vero?!)! Ma per davvero era finita? Probabilmente sì. Per lui era stato solo un accontentino, lo viziava per non aizzare ribellioni (e già ne capitavano senza il suo zampino). Valeva la pena dare fastidio anche a questo nuovo capo, per cui era il premio voluto?

E, per essere un premio, lo trattava bene.
Era stato gentile e paziente.
Avevano mangiato insieme come una famiglia.

Come sapeva che le famiglie umane normali facevano. Quindi non seduto sulle gambe del proprio capo contro la propria volontà mentre questi ogni tanto, se si sentiva tanto coglione e sadico insieme, provava pure ad imboccarti!

Si rigirò nel letto e si costrinse a dormire, pensando alla sua Palermo e ai frutteti di arancio dove adorava rifugiarsi e annusare il miglior odore del mondo.

Il giorno seguente fu strano avere una cameriera che lo avvisava di qualcosa. Purtroppo Lovino non capiva cosa. Non sapeva quella lingua. Aveva prima tentato inutilmente (e un po' tanto stupidamente) in napoletano, poi aveva balbettato con un calcato accento «No entiendo» che ovviamente la donna non aveva capito (o forse sí? Aveva parlato più lentamente, ma non aveva capito lo stesso!) e infine s'era arreso. Aveva inclinato la testa e l'aveva fissata con un sguardo dispiaciuto, anche se principalmente era frustrato con se stesso.

Per fortuna la donna non s'arrabbiò, uscì dalla stanza (e Lovino per un attimo pensò che l'avesse abbandonato al suo destino) ed esclamò qualcosa.

In fretta tornò con Luciano, una manna dal cielo, e riassunse che la robusta donna dal volto gentile lo aveva avvisato di rifare il letto per poter scendere a consumare la colazione, suggerendo inoltre che probabilmente sarebbe stata una giornata lunga.

Quanta fatica per una cosa così semplice (e fastidiosa come rifare il letto!).

Ma la cosa più strabiliante fu che fece come detto! Mise a posto il suo letto (non bagnato, evvai!) e, cambiatosi con un completo datogli dalla signora per cui la ringrazió (stupidamente, di nuovo) in napoletano, la seguì nella sala da pranzo.

<Celeste, Luciano, voi oggi avete lezione di latino, ricordate?> iniziò Henrique, aspettandosi i versi di scontento che le due colonie emisero.
<Non ci capisco niente! A che serve?> inquisì Luciano per l'ennesima volta.
<Apre alla più alta istruzione esistente al mondo, permette di potersi definire davvero intelligenti.> ripeté João per l'ennesima volta.

"Io il latino un po' lo so, ma comunque mi chiamano cretino." pensò Lovino, bevendo il suo latte misto ad avena.
João non stava facendo colazione, aspettando di mandare le due colonie dal loro precettore.

<E tu, Lovino...> iniziò, mentre l'interpellato alzava la faccia inebetito.
<Tu farai lezioni di portoghese con me.> concluse.
<Perché?!> si indignò l'italiano, poggiando la tazza e incrociando le braccia al petto.

<Perché devi sapere la lingua della Corona che ti comanda.> illustrò il portoghese con tranquillità <Se non riesci neanche a capire quello che ti dicono i domestici, sarà un problema. Non puoi sempre far affidamento su Luciano o Celeste.>

Il piccolo italiano s'imporporó sulle guance al commento, ma ribatté fiducioso lo stesso: <In secoli non ho imparato praticamente niente di spagnolo, buona fortuna.>
<Non rendere le cose difficili.> lo invitò l'impero coloniale, sospirando.
<Non voglio complicare le cose; è solo la la verità: faccio schifo a imparare lingue.>

E ancora una volta confermò la regola perché dopo una disastrosa introduzione con l'alfabeto, facendo una faticaccia a imparare le lettere e i suoni sconosciuti ai suoi dialetti e al fiorentino e al latino, ai numeri si bloccò. Era come se avesse un blocco nel cervello, una qualche pietra che aveva bloccato una parte della testa! Gli veniva da dirlo nelle sue lingue!

Anche Henrique era spazientito, ma non era arrabbiato. Sembrava più... triste. A Lovino dispiaceva.
Al massimo gli piaceva far arrabbiare le persone, mica farle piangere!
<Proviamo una tecnica alternativa.> tentò il più grande, rimettendosi dritto sulla propria sedia.

Rimase in silenzio qualche secondo, poi iniziò: <Ripeti dopo di me "Zero è o vacio".> e chiuse la mano a pugno.
<Eh?>
<Zero è il vuoto. E quindi il pugno chiuso. Zero é o vacio, su.> lo spronò, sorridendo leggermente.

Vedendo il suo entusiasmo ci provò, con un accento non troppo storpiato: <Zero é o vacio.>
<Um sou eu.> e si indicò con l'indice.
<Um... sou eu? Cioé?>
<Uno sono io. Invece, nòs somos dois.> e indicò entrambi.
<E noi siamo due? Nós somos dois.>

<Perfetto!> e proseguirono così, finché alla fine Henrique non gli chiese: <Ti ricordi tutte le frasi che abbiamo ripetuto?
<Forse...?>

<Tenta su, qualsiasi cosa ricordi va bene!> e gli sorrise rassicurante. Ricordava il fratello, ma João sorrideva così genuinamente più spesso. Antonio varie volte era... aveva uno strano brillio ad animargli le iridi.

Lovino chiuse gli occhi e provò a ricordare. Con lemma, ripeté: <Zero é o vacio; nós somos dos; três é o número perfeito; quatro são norte, sul, leste e oeste e cinco são os dedos de uma mão. Para os seis não é suficiente; sete são os mares; oito é a ampulheta; nove são os meses para uma criança e com dez ficamos sem mãos.>

<Sei stato strabiliante!> si congratulò João, applaudendo brevemente, per poi incalzare con: <Ora potresti dirmi i numeri da 0 a 10?>

E Lovino li disse tutti perfettamente, con sicurezza, e una certa fierezza (che crebbe al vedere il sorriso dell'altro allargarsi). Alla fine quest'ultimo lo abbracciò, sollevandolo dalla sedia, girando su se stesso mentre lo tenne a braccia alzate nell'aria.

<Così si fa!> si congratulò Henrique.
<Per oggi basta così! Ripassa i numeri con la filastrocca e l'alfabeto->
<Possiamo scriverla? Così imparo meglio l'alfabeto!> si difese Lovino, ora curioso di fare di più, perché finalmente capiva.

Non era un cretino, bisognava solo capire come interessarlo! E mentre scrissero la filastrocca, l'italiano realizzò che il portoghese aveva capito in una mattinata come prenderlo dal verso giusto, invece lo spagnolo non l'aveva capito in secoli e secoli di convivenza!

(Che non ci avesse mai messo impegno, Antonio, con lui?)

Il portoghese, nelle settimane (e mesi) seguenti, tra lezioni e attività libere, gli rimase simpatico, nonostante le conoscenze richieste si complicassero. Quello perché Henrique trovava sempre il modo per arrivare alla sua testa.

•~-~•

Invece la testa di Antonio era impostata su un punto fisso.
Lovino.

Dopo l'umiliazione, almeno l'inglese aveva mantenuto la parola e li aveva lasciati liberi. Ma l'iberico si sentiva in gabbia. No, peggio, era sott'acqua. Annegava. Si dimenava ma la superficie rimaneva lontana.

La sua mente girava, girava e girava, per tornare sempre lì: Lovino.

L'oro, il tabacco e lo zucchero sì, erano stati una perdita, ma colmabili. Sarebbe bastato aspettare la prossima partenza da Siviglia mezz'anno dopo.
Ma Lovino non era un metallo prezioso o un prodotto della terra.

Era il suo Lovinito, unico, irripetibile.

Ma era troppo debole economicamente, di nuovo sul bilico dell'ennesima bancarotta e chissà quale altra rivolta, non poteva svenare le casse per un territorio come il Sud Italia.
Non perché non volesse. Se avesse potuto ordinarlo da in mezzo l'oceano, l'avrebbe fatto seduta stante.

I suoi capi gliel'avrebbero impedito. E, anche se avesse insistito, appena avrebbero calcato la voce nella maniera corretta, lui sarebbe mutato in un cagnolino ubbidiente. Dannata responsabilità verso le proprie terre e i propri capi! Lui voleva solo una cosa! Una persona! Un territorio.

I primi tre giorni dopo il saccheggio, rimase chiuso nelle sue stanze, accarezzando il candelabro che coraggiosamente Lovino aveva brandito come arma. Era andato contro il suo stesso carattere estremamente pauroso perché voleva il suo bene. E lui non era riuscito a proteggerlo.

Per fortuna, i venti furono in loro favore e il viaggio fu più breve del previsto. Ma quel sollievo non risollevò l'umore nero della decadente potenza coloniale. La sua ciurma lo evitò al meglio e, una volta tornato a casa, dato che tutte le cameriere e i camerieri avevano già (chissà come) appreso il fattaccio, rimasero saggiamente fuori dalla sua vista.

Si fiondò nel suo studio, che spesso usava per dare lezioni di spagnolo a Lovino, e il cuore gli si strinse in un doloroso contorsionismo al notare un quadernino lasciato su un tavolino a misura di bambino.

Sfiorò la copertina con riverenza.
La boccetta d'inchiostro era chiusa e la piuma d'oca poggiata lì vicino.
(Finalmente solo; libero di sfogarsi.)

Prese la boccetta d'inchiostro, come a saggiarla. Poi la scagliò a terra. Il rumore del vetro infranto fu una gradita interruzione dal silenzio assordante della stanza. Prese la sedia su cui si sedeva, ogni tanto riuscendo a tenere sulle ginocchia il dolce Lovino, e la scaraventò contro la porta. Si era incrinato lo schienale. Raggiunse in due falcate la sedia, la agguantò e la sbatté per terra. Lo schienale si staccò dal sedile. Prese la seconda parte e staccò le gambe una ad una, alimentato dalla furia. Poteva immaginare che il suono del legno spezzato fosse quello delle ossa del britannico. Una volta finito, buttò a terra il sedile e riprese lo schienale.

Lo sbatté a terra una volta, due volte, tre, e ancora e ancora, ripetendo ogni volta un insulto o un augurio di morte ai danni del sopracciglione. Smise solo quando ormai in mano non gli erano rimasti che due pezzettini di legno.

Si guardò intorno, frenetico, le sue mani che prudevano e non potevano afferrare il responsabile.

Spalancò la vetrina del mobile contenente stimate porcellane asiatiche. Ne prese quante più poteva insieme e le lasciò cadere a terra. Calpestò i cocci più grandi finché non divennero polvere fine. Si diresse verso l'attaccapanni, lo brandì come la sua amata ascia, e prese a mazzate la vetrinetta. I vetri sulle mani e sulla faccia lo graffiarono ma non gli interessò. La sua ira gli annebbiava i sensi, alimentando il suo desiderio di distruggere tutto.
Avrebbe raso al suolo il mondo, pur di poter riabbracciare Lovino.
Ma non poteva.

Non poteva toccarlo.

Poteva solo spaccare. Dopo aver rotto anche l'attaccapanni, si fermò, ansimante.

Un pensiero gli sbucò in testa. Come stava Lovino? Quello stronzo l'aveva torturato? Lo picchiava e sfruttava?
Il terrore lo agguantò alla gola.

Doveva sapere come stava. E lui poteva apprendere la temibile verità. Se Lovino stava male, i suoi territori ne risentivano.

Si fiondò nell'ufficio del suo sottoposto che lo aggiornava periodicamente sulla situazione politica interna ed estera, la seconda comprendeva anche i principali avvenimenti del continente.

Trovò l'omuncolo lì, nascosto dietro la sua scrivania.
Questi impallidì al vederlo.
Non che non avesse ragione.

Le pupille dilatate dello spagnolo inghiottivano quasi per intero l'iride. Il volto, paonazzo, era contratto nella rabbia. Le mani erano chiuse a pugno. Tutti i muscoli della schiena tesi. Lo sguardo era quello di un folle.

<Come sta?!> inquisì, urlando, disperato.
Il povero umano farfugliò qualcosa di incomprensibile.
<Lovino. Sud Italia. Come sta.> scandì, avvicinandosi, aggrappandosi alla scrivania. Con la giusta pressione, l'avrebbe tranquillamente spezzata.

L'uomo rispose in un filo di voce: <Non ci sono state ribellioni da quando è passata alla Corona Portoghese e->
<Portoghese?!> strilló Antonio.

Il pover'uomo annuì frettoloso e spiegò: <La Corona britannica ha concesso in regalo le corone di Napoli e Sicilia ad uno dei più longevi alleati, la casata Braganza. E loro le hanno accetta->
Antonio non rimase ad ascoltarlo. Si staccò dalla scrivania, urlò come un animale ferito e uscì dalla stanza.

Portogallo. João. Quel bastardo.
Gli aveva rubato tante cose nella sua vita, non gli avrebbe lasciato tenere nelle sue manacce il suo innocente Lovinito!

Doveva solo trovare il modo di reperire soldati, armi e vettovaglie necessarie per iniziare e vincere una battaglia contro il fratello e, con ogni probabilità, pure il sopracciglione. Come se fosse semplice!

Ma avrebbe trovato i mezzi, pur di riavere ciò che aveva di più prezioso al mondo, dopo le sue genti. Avrebbe volentieri venduto l'anima a Satana: era già condannato all'Inferno, si era macchiato di mostruosi peccati (alcuni indicibili): almeno sarebbe stato un dannato felice.

Le gambe si mossero da sé, possedute, e piombò nelle stanze di Lovino. Spalancò l'armadio, quasi scardinando l'anta, e afferrò un vestito di ricambio della colonia (non era "ex", non avrebbe permesso a quelle due letterine di radicarsi nella sua testa). Ammirò quel verde chiaro, che tanto adorava sul corpicino del piccolo italiano, paffutello in volto ma dalle membra sempre più sottili, pronto ad entrare nella fase della pubertà.

(Non si sarebbe perso un simile cambiamento nel corpo e nella mente del suo dolce Lovino, per nulla al mondo.)

Inspirò il tessuto, odorando solo il profumo del sapone del bucato. Ingenuamente aveva sperato di poter annusare il profumo del suo pomodorino lì. Si alzò, il vestito stretto in mano, e si avvicinò al letto, cercando l'odore tra le coperte. Una flebile fragranza, riconosciuta e amata, gli accarezzò le narici. Affondò il naso nelle coperte, inspirando ed espirando e inspirando ed espirando. Di lì a poco sarebbe svanito del tutto anche dalle coperte, lo sentiva ora a malapena solo per via dei suoi sensi sovrumani, in cui il suo Lovinito adora rigirarsi invece di uscire dal letto e vestirsi.

Si allontanò dal letto, ma strinse ancora il vestitino che aveva scelto con così tanta cura e che, aveva proprio ragione, gli aveva sempre donato. La sua risoluzione si fece più forte che mai, sormontando la rabbia e la gelosia provata nei confronti del suo "vicino".

Avrebbe riportato al suo fianco il suo pomodorino. L'avrebbe bardato di guardie, rinchiuso in casa per tutta la sua eterna vita se necessario, pur di poterlo tenere al sicuro.

Aveva solo bisogno di trovare il suo Diavolo al quale vendere la propria anima.

•~-~•

Lovino salutò con dispiacere Celeste, stringendola forte per lunghi istanti. La bambina sorrise comprensiva, accarezzandogli i capelli come una sorella maggiore, e lo tranquillizzò: <Starò via per poco tempo, lo giuro, giusto qualche mese. Sarà più il viaggio che altro.>

<Però mi mancherà poter chiacchierare con te degli altri.> borbottò l'italiano.
<Forse così farai amicizia anche con gli altri. Luciano non tornerà per un altro po' di tempo e non voglio saperti solo!> lo mezzo-ammonì lei.

L'europeo abbassò la testa come un furfantello reo di aver rubato dei dolcetti e ammise: <Proveró a non evitarli.>
<Me lo farò bastare.> commentò l'asiatica, allontanandosi e salutandolo con la mano, prima di salire in carrozza.

<Vuoi tornare in casa?> domandò João nella sua lingua, poggiando una mano sulla testa dell'italiano.
Quest'ultimo annuì, comunque dispiaciuto, e replicò nel medesimo idioma: <Sì, non torna se guardo.>

Il portoghese gli sorrise soddisfatto e rientrarono: anche se erano agli inizi, nelle ultime settimane avevano fatto passi da gigante. Infatti, già che riuscisse a conversare più o meno correttamente, era un grande passo, soprattutto considerando la difficoltà dell'italiano con l'approccio tradizionale alle lingue.

<E, come ha detto Celeste, potresti fare amicizia con gli altri! Li hai sempre evitati!> aggiunse Henrique.
<Hanno... qualcosa di strano. Guardano male.> bofonchiò Romano, incrociando le braccia al petto mentre camminava.

<Vedono che sei diverso da loro, forse pensano che tu abbia un trattamento diverso. Dimostra loro che non è così!>
<Come?!> si lamentò la colonia.
<Mostrati amichevole.> suggerì Joao.

Ma Lovino non ebbe tempo neanche di replicare con un verso dubbioso, che il respiro gli mancò nei polmoni e le gambe divennero deboli.

Con un versetto stridulo, strozzato, cadde in ginocchio sulla terra battuta. Portò una mano al petto, stretto in una morsa del tutto innaturale. Una morsa crescente, che non lasciava spazio neanche ad un soffio di vento. Cosa gli stava succedendo?!

<Lovino!> urlò Henrique, chinatosi in fretta vicino alla colonia disperata.

Aveva bisogno di aria!
Aria!
ARIA!
A R I A !

Lovino alzò la testa, gli occhi spalancati, quasi fuori dalle orbite, lucidi. Rantolò, anzi, più che altro mimó con il labiale: <Aiuto.>
Poi esalò un respiro che non esisteva, gli occhi si rivoltarono e cadde all'indietro. João lo afferrò in tempo e corse in fretta in casa, mille dubbi che si affollavano nella sua testa.

E il peggio era che non avrebbe avuto una risposta immediata: doveva aspettare e sperare che le condizioni di Lovino non peggiorassero.

Lo portò nella sua stanza e ordinò ad una cameriera di preparare una bacinella d'acqua e un panno da strizzare. Uscì poi dalla cameretta e sfrecciò nel suo ufficio, scrivendo una lettera ai sovrani e ai loro ministri nella capitale. Doveva ricevere al più presto informazioni sulle condizioni del Sud Italia. E qualunque fosse il problema, doveva essere risolto.

Era diverso dai territori oltreoceano, laggiù nessuno sapeva come li gestiva se non dopo svariati mesi. Ma in Europa tutti vedevano quel che facevano gli altri: non si sarebbe fatto calpestare per via di una qualche cazzata e diventare lo zimbello delle potenze europee!

Il povero Lovino, intanto, s'era svegliato quasi sobbalzando sul letto. La colonia e la cameriera lanciarono un gridolino insieme, ma mentre l'umana ebbe l'opportunità di rimanere sotto shock, l'italiano fu preso da spasmi.

La donna si mosse dopo lunghi secondi e provò a farlo parlare, ma s'arrese quando l'unica risposta furono rantoli incomprensibili in mezzo agli spasmi.
Dopo alcuni minuti, per fortuna, il corpo s'acquietò.

Ad occhi chiusi e madido di sudore, Lovino prese grandi boccate d'aria e contò mentalmente, per distrarsi dai muscoli stirati che pulsavano.
La cameriera gli bagnò la fronte qualche altra volta, s'accertò che gli spasmi non riprendessero e lo lasciò solo, indicando però una campanella magicamente comparsa sul suo tavolino.

Lovino annuì a occhi chiusi, capendo metà del discorso, e lasciò che la disperazione lo abbracciasse una volta richiusa la porta.

Strinse forte le manine al petto e pregò tra i denti che il buon Gesù e la vergine Maria lo aiutassero. Certo, aveva avuto i suoi difetti, ma negli ultimi tempi era incredibilmente migliorato! Meritava di meglio di quella merda, no?

"Sto ancora espiando i peccati fatti con l'idiota, vero?"
Sospirò tremolante, aggrottando le sopracciglia.
Era ingiusto; a distanza di tempo dalle sue colpe, quando era felice... e poi, perché solo a lui?!

Scommetteva che il cretino stava benissimo, sano come un pesce e fresco come una rosellina, nonostante fosse stato un capo ben peggiore rispetto ad Henrique, ora che poteva fare un paragone più onesto!

I bizantini li ricordava ben poco (conosceva per sentito dire che Maximus, chiunque fosse, era stato ben più menefreghista di suo nonno nei confronti suoi e di suo fratello. E per quanto lo riguardava, era tutto dire.). Gli arabi invece erano stati ingannati dalla sua Sicilia che fosse lei la capa e non lui (le era ancora grato e per questo ancora non sapeva bene come l'avessero trattata; sapeva solo che gli avevano lasciato costruzioni ben diverse da quelle che conosceva). Sorprendendo tutti, i normanni l'avevano reso biondo come un barbaro per circa un secolo (e anche Sicilia. E lei, povera, ne aveva ancora i rimasugli; lui almeno era tornato come prima!), quindi erano stati terribili ma distanti (anche se avevano fondato l'università di Napoli e dato inizio ad una nuova corrente poetica nella penisola italica; in qualcosa lo avevano aiutato, glielo doveva concedere)!

E Francia era Francia, quindi una merda pervertita. Non sapeva se posizionarlo nella lista delle cose che odiava sopra o sotto l'essere stato biondo.

Potendo ora oggettivamente confrontare l'idiota per eccellenza con un'altra potenza nel Nuovo Mondo e nell'Oriente non poteva più essere messo in discusso che lo spagnolo fosse una mezza segha!

Oltre che era una merda perché aveva provato a venderlo perché era insopportabile, mentre Henrique non aveva mai dato segno di essere esaurito per colpa sua.

Non aveva ancora perdonato totalmente lo spagnolo, nel suo cuore e mente, per quel colpo basso (e forse non aveva neanche perdonato se stesso per sapere che se l'era meritato; era una merda di colonia, innegabile).

Il colonizzatore che gli stava più simpatico sbucò con la testa nella sua stanza, richiamandolo a voce bassa. L'italiano emise un mugugno per far intendere che fosse sveglio.

<Sta per arrivare il marchese della politica estera, probabilmente saprà dirci qualcosa in più.> avvisò il portoghese.

Lovino annuì, anche se arricciò il naso. Le persone coinvolte nella corte non gli erano mai piaciute, lo trattavano come un moccioso. Aveva la faccia di un bimbo, lo riconosceva, ma era più vecchio della loro tanto amata dinastia, e che diamine! Meritava rispetto.

Quasi sovrappensiero, il bambino si massaggiò il petto e borbottò in quella lingua che parlavano solo loro creature oltre l'umano: <Ora... ora fa male, ma molto meno di prima. Sembra... qualcos'altro. Ben più potente ma non sul corpo. È lo stesso tipo di dolore provato quando Antonio aveva messo la bandiera dei suoi capi e bruciato quella dei Valois a Napoli.>

Il portoghese spalancò preoccupato gli occhi, anche se il piccoletto non lo vide. Poi li assottigliò nella rabbia. Anche di questo Lovino rimase ignaro. Però il bimbo percepì qualcosa stonare nel tono del capo quando rispose: <Speriamo sia solo un'impressione sbagliata. Devo andare, torno dopo.>

João tornò nel suo studio pestando i tappeti con violenza ad ogni passo, la rabbia che montava dentro di lui come la burrasca alimentava onde pericolose tra cui una volta o due (moltiplicate per un numero indefinito) era affogato.

Sbatté la porta con violenza. Evocò la sua mazza gotica, ma non si mise a distruggere niente. Costava tutto troppo ed era troppo poco arrabbiato per arrivare a quel gesto. Era incazzato, sì, ma non così tanto.

Si sarebbe accontentato di armeggiare la sua amata mazza e immaginare di brandirla in battaglia e sconfiggere il suo fratello.
Il suo carissimo fratello.

Il medesimo fratello che s'intrometteva nei suoi affari e nei suoi territori come suo solito. Era in qualche modo condannato ad averlo tra i piedi, ne era certo! Prima con il Trattato di Tordesillas (e successivamente non fu l'unico in mezzo ai piedi, anche se Arthur era perdonato... circa), poi con l'unione delle Corone dei loro due Regni per 80 anni e ora quello?!

Non riusciva proprio ad accettare una sconfitta al primo tentativo fallito.

Si passò una mano tra i capelli, sciogliendo il fiocco, e si morse il labbro inferiore. Poteva stare per scoppiare una nuova guerra che lui non voleva combattere da solo. Ma se non ci fosse qualcosa di papabile in palio, Arthur non sarebbe intervenuto al suo fianco. E, dato che suo fratello era andato in bancarotta non sapeva più quante volte, l'aiuto dell'Inghilterra era già sfumato ancora prima di una proposta; non avrebbero avuto abbastanza tornaconto per i costi che avrebbe dovuto sostenere. Ma lui non aveva tante risorse per portare avanti una lunga guerra e nessuno dei due, per potenza navale, sovrastava l'altro abbastanza da avere uno scarto significativo!

L'unica strada era tentare la diplomazia, sperando di riuscire a girare la situazione a suo vantaggio o, per lo meno, di non ritrovarsi ridicolizzato a vita di fronte a tutta l'Europa.

•~-~•

Henrique si stupì quando Antonio in persona raggiunse la corte dei Braganza, appellandosi alla diplomazia, senza che nessuno l'avesse richiesto. Era ancora più strano se considerato che il piccolo Italia aveva smesso di essere ammalato, eccezion fatta per qualche acciacco momentaneo e leggero. Era chiaro che lo spagnolo stesse impedendo alle sue truppe di depredare i territori appena ottenuti.

Il portoghese si chiuse dietro la porta e, voltandosi verso il "fratello", domandó: <Che vuoi?>

<Lovino.> fu la laconica risposta altrui. Però il modo in cui i suoi occhi lo osservavano, desideroso di farlo a pezzi, tradiva il suo semi-mutismo.
<E?> indagò Henrique.
<E basta.>

Il portoghese scosse la testa, incredulo. Aveva sbattuto irrimediabilmente la testa e non sapeva più come giocare alla guerra?
<E a Francia cosa darai? Dubito fortemente che gli darai Lovino.> commentó.

<Non sono fatti tuoi. Dammi Lovino e facciamola finita.> sibilò Antonio. A Henrique non doveva interessare che si era indebitato fino a tempo indeterminato con Francis (più una decima del raccolto della Castiglia per 10 anni). Non voleva udire i suoi commenti, con cui si mostrava sempre altezzoso, come se non facesse mai errori.

Francis era stato il suo Satana, colui che gli aveva porto la mela proibita che lui aveva morso senza esitazioni pur di avere. Avrebbe affrontato l'ira dei suoi capi e il dolore della sua gente come Eva subì l'ira di Dio e la consapevolezza di aver dannato l"umanità, se come lei avrebbe potuto compiere il suo più dolce peccato. Nel suo caso, ristringere tra le braccia il suo Lovinito.

<Antonio, ti sei davvero dimenticato come funzionano gli ultimatum? Ci deve essere un pericolo per costringermi a darti dei miei territori senza prima una guerra.> puntualizzò il portoghese, schioccando la lingua contro il palato in disappunto.

<Francia è più che pronto ad invaderti e vincere e sottrarti delle colonie. Si sta espandendo ed è più forte di te. Non ti conviene affrontarlo.> ritorse Antonio.
<E se chiamassi Arthur?>

Lo spagnolo rise cinico: <Cosa ho da offrirgli di interessante? E dopo una guerra, se per assurdo la vinceste, neanche Francia avrebbe i soldi per ripagarvi e non ha già colonie così ricche o strategiche da stuzzicare inghilterra. Dovresti sempre dare qualcosa tu. Quindi decidi: vuoi perdere solo Lovino, che a te non interessa, o ti dovrai fare strappare dal tuo stesso alleato, nel migliore dei casi, dei terreni?>

•~-~•

<No.> pigolò Lovino.
Strinse i pugni.
<No!> urlò.

Henrique annuì mesto, mentre dietro di loro un domestico raccoglieva i pochi averi che al piccolo italiano era stato concesso portarsi via, ossia qualche veste quotidiana e il quadernetto delle loro lezioni di portoghese, con una vecchia penna ma nessun inchiostro.

Lovino fece un passo indietro e incrociò le braccia: <Non c'è stata una guerra. Mi hai ceduto subito.>
<Sì.> affermò senza mezze misure.

Lovino tirò su con il naso, sfregandosi gli occhi con i pugni doloranti.
Aveva tante domande. Tutte simili. Tutte collegate a...
<Non ne valevo la pena.> decretò Lovino.

<Non c'era modo in cui ne uscissi vincitore, questo era il modo per subire meno danni.> corresse il portoghese.
Lovino si voltò, andò verso l'umano che ringraziò con voce stridula e agguantò il proprio bagaglio.

Avrebbe voluto lanciarlo a terra. Spalancare il sacco. Calpestarne i contenuti. Piangere mentre insultava quegli oggetti, quella scelta e quello stronzo che aveva spiegato il tutto con un tono serio ma neppure triste. Avrebbe voluto trovare un acciarino e appiccare fuoco a quella casa, al suo proprietario e alle proprie memorie. Spazzare via tutto, gettandone le ceneri al vento.

Avrebbe fatto di tutto pur di cancellare quel cocente tanto quanto conosciuto dolore.

Non ne valeva mai la pena.
Era sempre la solita storia, la solita delusione.
Era solo stata nascosta dietro una facciata più articolata.

Tirò su con il naso e si rigirò verso l'impero coloniale.
<Allora andiamo. Non ha senso perdere tempo.>

Henrique ebbe la faccia tosta di sembrare dispiaciuto. Sospirò, raddrizzò la schiena e notò: <Mi spiace. Perché è facile immaginare ciò che senti e hai tutto il diritto di essere arrabbiato con me. Credimi quando ti dico che era l'unico modo. Anche se avessi combattuto e avessi vinto, ne sarei uscito distrutto. Ne avremmo risentito io, te e anche le altre colonie perché sarebbero state dissanguate per provare a rimpinguare le casse reali. Avresti voluto questo?>

Lovino pensò al dolore provato per poco tempo mentre veniva riconquistato. Rievocò il dolore della peste e delle razzie e delle guerre sui suoi territori. Le cicatrici sbiadite e le membra spaccate e ricomposte e di nuovo distrutte e la testa che gridava e ruotava e come voleva solo che tutto svanisse e il mondo venisse inghiottito-

L'italiano scosse mesto la testa.

<Capisco.> ammise <Non ne varrebbe la pena. In nessun caso.> ("Eppure guerre vengono fatte lo stesso, anche per meno.") <Non vorrei che Luciano e Celeste ci rimettessero. O gli altri.> ("Nessuno merita di stare male per me.")

Uscirono celeri e silenziosi da quella stanza, giù per le scale e fuori dall'edificio. Una carrozza lo aspettava per ricondurlo a Porto, dove avrebbe preso una nave spagnola per Siviglia e da lì, di nuovo in carrozza con ogni probabilità, fino a Madrid. Da Antonio.

Mentre Lovino fissava venir buttato il proprio bagaglio nella modesta carrozza con lo stemma portoghese, provò a pensare positivo. Suo fratello era sempre apprezzato perchè, a quanto pareva, ogni regno o impero poi ne decantava la sua bontà ed ottimismo.

Lovino lo trovava stupido. L'ottimismo edulcorava la realtà.
La lucidità e la rapidità di pensiero rendevano vincenti.
Arricciò le labbra: alla fine, tra i due, chi stava meglio?

Tecnicamente anche parte dei territori di Feliciano erano sotto la Spagna, se non ricordava male, ma essendo Venezia libera, Feliciano rimaneva libero, rifugiato nel suo cantuccio di mondo.

Quindi gli conveniva pensare positivo; chissà, forse un giorno almeno Palermo sarebbe stata libera. Gli sarebbe dispiaciuto abbandonare momentaneamente Campania, Puglia, Calabria e Basilicata, ma sicuramente avrebbero capito, no?

Quindi pensò che, almeno, per quanto paradossale, Antonio era stato disposto a muovere guerra, alleandosi con l'acerrimo nemico Francia, pur di riprenderlo.
Qualcosa di buono doveva significare, no?

<Lovino.>

Il piccolo si fermò con il piede a mezz'aria, in procinto di toccare la scaletta per issarsi. Si voltò e fissò quell'uomo che gli aveva dato in fretta speranze e una nuova vita, solo per disintegrarle altrettanto velocemente.

<Non mi devi perdonare. Voglio solo che tu capisca. Quindi, ti prego, rifletti sul perché sia successo, non solo come. E aggiungo: per quanto potresti tenere a me, ricorda che comunque ero il tuo capo. E chiunque può ordinarti a destra e a manca non può tenere in modo totalmente sincero a te. Ci sarà sempre qualcos'altro.>

<Non mi hai mai voluto bene? Né a Celeste o a Luciano o agli altri? Non li ami come un padre o un fratello maggiore?>
La sua nuova ira scemò tra le risate vuote di Henrique, che replicò: <Amare è una parola forte che non credo di conoscere.>

Il sorriso si spense e quello sguardo stanco che era già lì gli invase il volto e aggiunse: <Però so voler bene. Ma non è semplice, non quando controlli chi hai davanti. Non può mai essere totalmente sincero, perché voler bene vuol dire anche litigare. E non puoi litigare quando uno dei due ha sempre il coltello dalla parte del manico.>

<Ci penserò su.> e salì, chiudendo con forza la porta.
Rimase immobile per lunghi istanti, contati con cura, come maledetto ad essere una statua. Ma passati quei precisi secondi, l'incanto si ruppe e Lovino si girò di scatto verso la villa.

Riconobbe lo stesso la porta d'ingresso venir chiusa e una figura entrare.
Osservò fino a che l'edificio non divenne un puntino, ma la sua mente era rimasta persa in quell'immagine.

E in quelle parole.

•~-~•

Quelle parole non l'avevano mai abbandonato. Le aveva scritte nel suo quadernino, in tutte le lingue che conosceva, anche se il suo portoghese sicuramente non era corretto.
Non che avesse riscritto l'intero discorso; solo alcune frasi.

Anche perché era difficile scrivere senza inchiostro. Essenzialmente aveva inciso con la penna dei segni nel foglio che poi aveva ripassato con un pezzettino di legno che aveva annerito su una punta.
Ogni pagina scritta aveva impiegato quasi un giorno per asciugarsi senza sbavature. Aveva imparato a sue spese come evitare le sbavature.

Lovino a malapena sfiorò con il dito i propri segni, ritracciando quei caratteri.

Dicevano in palermitano: "Hai tutto il diritto di essere arrabbiato con me" e appena sotto seguiva "Voler bene vuol dire anche litigare e non puoi litigare quando uno dei due ha sempre il coltello dalla parte del manico."

Erano parole amare, poco piene di quel benedetto ottimismo che il suo fratellino tanto adorava, eppure gli piacevano. Con le settimane, il dolore e la rabbia s'erano attutite, lasciando spazio a quella sgradita consapevolezza che aveva caratterizzato il tono di Henrique.

E con il tempo a sedimentare e la distanza a diluire, era arrivato alla conclusione che gli era piaciuto il portoghese. Anche se ormai dubitava di poter anche solo provare quel sentimento per quell'uomo, date le parole che accarezzava.

Era convenuto che aveva voluto bene a Henrique-capo, non a Henrique.
Con ottimismo, fantasticava che un giorno avrebbe conosciuto anche il secondo. Quando mai saranno stati pari.

Venne risvegliato dal tono brusco di uno della nave che lo sollecitò a scendere, ora che erano totalmente attraccati.
Anche se confuso su come non ci fosse nessuno a scortarlo, non fece tante storie. Ributtò il quadernino nella sacca che si mise in spalla e celere scese dalla nave, evitando i mozzi che trasportavano le merci, incuranti del suo passaggio.

Poggiati i piedi sulla terraferma, avanzò mentre si guardava intorno alla ricerca di una carrozza. Arricciò il naso e si fermò qualche istante, indeciso se girare a destra o sinistra. Curvò a sinistra e costeggiò il porto, sempre alla ricerca di una carrozza con lo stemma spagnolo.

Non che fosse preoccupato; qualcuno doveva esserci per portarlo da Antonio, non avrebbe avuto senso se avesse rischiato una guerra per riprenderselo e poi abbandonarlo a Siviglia, no? Doveva solo camminare.

Non che gli dispiacesse. Sul ponte non si aveva granché spazio e una volta trovata la carrozza, avrebbe dovuto fare chissà quanti giorni di viaggio seduto prima di tornare a Madrid. Meglio godersi l'aria (anche se non quella saluberrima di porto) finché poteva.

<Lovinito!>

Ebbe a malapena il tempo di girarsi che dei passi pesanti lo raggiunsero e due braccia forti lo strinsero e sollevarono dal terreno. Strillò in spavento e rabbia mentre la terra roteava attorno a sé contro il suo volere.

Si trattenne nel lanciare insulti quando la giravolta finì e, ancora a mezz'aria e avvolto in un abbraccio spaccaossa, Antonio lo fissò negli occhi e sorrise vistoso.

Ma si ritrovò in fretta spiaccicato contro il petto del maggiore, il cui odore s'infiltrò nelle narici contro il suo volere (e sempre contro volere i suoi muscoli si rilassarono un po', lo poteva giurare su Iddio! (Anche se non c'era bisogno di scomodare Gesù per comprovare le sue parole, su!)).

La voce altrui gli arrivò limpida nelle orecchie, ma pure gli vibrò nel petto mentre esclamava: <Non sai quanto mi sei mancato! Ti ho pensato giorno e notte e mi dispiace profondamente per non essere riuscito a riprenderti subito! Ma ora sei qua, ed è questo l'importante, no?>
E lo tenne stretto a lungo, il volto di Antonio contro i capelli di Lovino, il quale percepiva il respiro caldo dello spagnolo accarezzargli la cute.

Nonostante tutto, non riuscì a non pensare a quelle parole di Henrique. Davano tutt'altra luce su quell'uomo che lo abbracciava, una luce che forse dava senso a quelle stranezze che Lovino aveva imparato ad accettare.
Una luce che però lo spaventava.

Finalmente venne riappoggiato a terra, ma lo spagnolo non lo lasciò per altri lunghi secondi. Quando si staccarono, spostò solamente le mani e gliele appoggiò sulle spalle. Lo squadrò con occhio attento.
Lovino provò a rimanere fermo, anche se si sentiva in soggezione.

E tutto quello che riuscì a pensare fu: "Voler bene non può mai essere totalmente sincero, quando sei controllato da chi hai davanti. Voler bene vuol dire anche litigare. E non puoi litigare quando lui ha sempre il coltello dalla parte del manico tra i due."

Uscì dalla trance quando lo spagnolo espirò: <Sei cresciuto. Sei un pochino più alto. E il tuo viso è meno tondo. Quello stronzo o chi per lui ti ha dato da mangiare, vero?!>

Lovino accantonò quei cupi pensieri per ghignare e argutamente ribattere: <Tu invece hai la solita faccia da scemo. E sei tu quello che non ha mangiato tra i due! Guarda che faccia che hai, hai lo stesso fascino di una spigola!>

Antonio scoppiò a ridere, gli arruffò i capelli e constatò: <Oh, non sei cambiato così tanto; son contento!>
Fu un po' più facile spingere via quelle elucubrazioni.

•~-~•

<Cosa c'è lì dentro?> chiese Antonio appena ripresero a camminare e notò la sacca che Lovino aveva ripescato da terra, caduta nel trambusto.
<Cose mie.> sbuffò Lovino.

<Fammi vedere.>
<No.>
<Essù!>
<No.>
<Non costringermi, eh!>

"Non puoi litigare quando uno dei due ha sempre il coltello dalla parte del manico."

Come scottato, Lovino quasi lanciò contro lo spagnolo la sua sacca, che prontamente venne afferrata.

La potenza coloniale, curiosa, anche se a malincuore tolse la mano dalla testa di Lovinito (avrebbe voluto prendergli la mano o tenerlo in braccio, ma l'italiano s'era rifiutato e s'era appellato al fatto che sarebbe stato scomodo per entrambi), e curiosò. Ad attirare il suo interesse fu il quadernetto e impallidì al girarlo, ancora la mano dentro la sacca, e notare la scritta scarabocchiata (e un po' sbiadita) in portoghese.

Ridiede, muto, la sacca all'italiano, eccetto il quadernetto che prese a sfogliare, fissando con orrore tutto quello che il suo Lovino aveva imparato da quel cane di suo fratello. Oh, l'aveva contaminato più del previsto! Come aveva fatto?

Oppure era come per lo spagnolo e non sapeva niente e perciò il quadernetto era solo il suo manuale da cui non apprendeva niente? Sperò tanto nel secondo caso, almeno così ci sarebbe stato poco lavoro da fare nella speranza che Lovino, a furia di sentire, apprendesse la sua magnifica lingua e nessun'altra.

Arrivò alle ultime pagine scritte e fu stranito. Sembravano le stesse frasi ripetute, a giudicare dalla lunghezza, ma con linguaggi diversi. Forse Lovinito s'era annoiato per mare e non poteva biasimarlo.
Ma lui quel quadernetto non voleva vederlo lo stesso!

Quindi riacciuffò la sacca dal piccolo italiano (che protestò), ci ficcò dentro il quadernetto, caricò il braccio e lanciò tutto il più lontano possibile.
Lovino non ebbe tempo di urlare o disperarsi che si sentì tirato per l'ombelico e si ritrovò davanti la villa di Madrid.

Ah, vero, c'era quel vantaggio nella loro natura. Nei loro territori, infrangevano qualsiasi regola di spazio e tempo.

Si girò lo stesso verso Antonio, anche se un po' nauseato, e urlò: <Perché?!>
<Perché ora sei tornato da me e non voglio che tu abbia più niente a ricordarci quel brutto periodo.>

Le parole di Henrique ripresero a rimbombargli in testa.

•~-~•

Lovino in fretta ritornò a quella che per secoli era stata la sua routine.
Dimenticò quel poco portoghese appreso e lo spagnolo rimase una lingua ostica.
Ma non disse mai delle lezioni con Henrique.

Ad Antonio non piaceva il fratello, era chiaro.

E più andava avanti, più era facile immaginare che fosse stato quasi un sogno il suo alloggio dal portoghese.
In ciò, Antonio era complice e il maggior artefice.
Lovino, all'iniziò, ricordo le parole del portoghese.

Ma come il quadernino fu scaraventato fuori dalla sua vita da Antonio e i suoi ricordi relegati alla nebbia della sua mente, anche quelle parole si persero.

•~-~•

O forse qualcosa rimase?

•~-~•

I secoli passarono e Lovino crebbe, senza però essere risparmiato dai cambiamenti tipici degli umani (come il cambio di voce non repentino, portando ad imbarazzanti momenti in cui la voce più bassa veniva spezzata da un acuto) e poca grazia dei movimenti dati dall'abituarsi alla nuova statura (e già Lovino non partiva da una situazione di particolare leggiadria).

Però alla fine crebbe anche lui, come tutti.
E divenne un giovane adulto.
Ormai per età, ad occhi umani, era pari ad Antonio o quasi, ma il potere era ancora nelle mani dello spagnolo.

Fino al 1713, con il trattato di Utrecht.
<Quindi... è un addio?> sospirò Antonio, che subito dopo allungò un braccio e repentino gli afferrò il polso.
Che controsenso, quell'essere, pensò Lovino. L'italiano scrollò le spalle.

<Forse? Tanto non cambierà granché, personalmente.>
Infatti non era ancora la libertà tanto agognata. Aveva solo fatto un passaggio ed era stato lanciato nelle mani austriache.

<Non ti mancherò?> domandò oltraggiato lo spagnolo, che lo attirò ancora più vicino, tirandolo per il polso.
Lovino lo lasciò fare, roteando gli occhi di fronte alla sua infantilità, e replicò: <Mi mancherà poterti ingannare e dormire fino a tardi.>

<Maleducato!> ma nonostante ciò lo attirò a sé in un abbraccio.

E lo tenne stretto, appoggiando il volto contro il suo, guancia contro guancia. Non parlarono. Cosa avrebbero dovuto dire? Ascoltarono i loro respiri regolari. Antonio sembrava intenzionato a imprimersi sulla pelle il ricordo di come fosse stringerlo. Lovino lo lasciò fare; sarebbe stato come negare un'ultima richiesta ad un umano morente.

Quando si staccarono, Antonio gli riservò un sorriso mesto e si congedò con un: <Buona fortuna, Lovinito.>
Lovino lo seguì con lo sguardo uscire mentre si sfiorò la guancia.

Pareva umida.
Strano.

Per sperare di poter avere il coltello dalla parte del manico bisognava ancora aspettare.

•~-~•

Il destino o chi per lui adorava prenderlo in giro, dato che nel giro di un battito di ciglia i Borbone erano tornati nei suoi territori. Non erano i regnanti effettivi della Spagna, ma erano parenti e quindi legati alla corona spagnola.
Di nuovo.
Si sentiva preso in giro.

E non lo consolava che anche un pezzettino di Feliciano fosse stato coinvolto nella sfera d'influenza di Antonio, dato che era un territorio piccolo e insulso come il ducato di Parma (che, tra l'altro, non sapeva esistesse fino a poco tempo prima! ... Non ne poteva avere colpe; non erano suoi territori!).

Ma, doveva convenire, era comunque un (purché insulso) pezzettino a favore dello spagnolo, no?

Rivedere il proprio capo e venire di nuovo abbracciato, come se il loro ultimo saluto non fosse stato un addio ma solo un arrivederci, era assurdo.

Eppure non era sorpreso, nemmeno in minima parte.
Quando tra loro due qualcosa era stato logico?
E quindi Lovino ricambiò l'abbraccio.

Forse il suo cervello s'era sciolto come quello dello spagnolo, ma quell'idiota era stata una costante per non sentirlo come necessario.

Era un pezzetto della sua vita.
Lì, fastidioso, strano, ma pur sempre un pezzettino che gli apparteneva.
Era il protagonista di troppe memorie per non esserlo.

<Mi sei mancato.>
<Non fare il melodrammatico. Alcune volte è capitato che non ci vedessimo per ben più tempo.> sbuffò l'italiano.
<Non era lo stesso.>

Ah, allora ne avrebbero parlato.

<Ma non è importante!> aggiunse subito Antonio (Come non detto...) <Quello che conta è averti qui!>

Lo spagnolo sciolse l'abbraccio solo per appoggiare il viso contro la clavicola di Lovino, archè questi si preoccupò. Era un gesto molto intimo (anche per il loro normale), perché stava accadendo?
E subito Antonio lo abbracciò di nuovo, cingendogli la vita e stringendo forte.

Lovino abbozzò un sorriso intenerito, nascosto dallo sguardo altrui. Ricambiò di nuovo la stretta, ma con una mano gli accarezzò i capelli sulla nuca.
L'italiano sussurrò: <Ti sono mancato così tanto?>
<Ho combattuto guerre o le stavo per creare per averti o tenerti.>

Eppure nella mente di Lovino un'altra scena passò. Smise di accarezzarlo.
<Però hai anche provato a vendermi.>
Antonio s'irrigidì, ma non s'allontanò. Girò la testa di lato, il volto meglio premuto contro il collo del più basso.

Agitato, l'iberico ribatté: <Tutti facciamo cazzate. E, credimi, Lovino, non c'è decennio che passi senza che io ci ripensi e mi senta in colpa non so quante volte. Alcune volte abbiamo paura di quello a cui teniamo e allora facciamo cazzate.>

<Hai avuto paura di me?> indagò Lovino, con una punta d'ironia.

Sentì contro la pelle del collo il sorriso sulle labbra di Antonio: <Circa. Eri e sei un piccolo uragano. Ma ti voglio bene. Non sai quanto. E non ho mai smesso di provarne. Avevo solo paura di non essere all'altezza.>

Lovino riprese ad accarezzargli i capelli mentre sbuffò: <Sei proprio un idiota.>
Antonio rilassò i muscoli, ma non cambiò posizione.
Anche quella volta, rimasero così per chissà quanto tempo.

Il manico del coltello era tornato nelle mani originali. E mai aveva sfiorato quelle di Lovino.

•~-~•

Finalmente era libero! Nessun Borbone o austriaco aveva la corona di Palermo o Napoli; tecnicamente non esistevano più.
Finalmente aveva il coltello dalla parte del manico, per la prima volta nella sua vita!

E allora perché sembrava di nuovo di stare con i Borbone o gli austriaci?
No. La vera domanda era perché se lo chiedeva. Lo sapeva benissimo.

Quello stronzo di Garibaldi, lui e i suoi mille che avevano distrutto la vita delle sue genti, con inganni e rovinando le vite dei poveri e lasciando intatti i nobili, il cancro del suo sistema economico che lo mantenevano arretrato rispetto al resto dell'Europa. E tutto solo per sbrigarsi e consegnare le corone di Napoli e Palermo (subito dopo destituite) ai Savoia.

Più che una liberazione e unificazione dell'Italia, era una conquista della casata sabauda nei confronti del resto della penisola, che aveva sfruttato le idee risorgimentali dei borghesi come facciata.
Come al solito, ci rimetteva lui.

Tanto il perfetto Feliciano non aveva problemi, il Nord non era industrializzato come altre parti d'Europa, certo, ma era sempre meglio del Sud. E le leggi promulgate erano quelle sabaude, senza neanche pensare di modificarle, come se ignorassero lo stato dei suoi territori.

Forse da bambino avrebbe creduto alle sue stesse parole. Se le stava dicendo solo per ingannarsi, solo per non dover guardare in faccia la cruda realtà.

Gli umani conoscevano la realtà del Meridione. Erano consci di quanto fosse arretrato economicamente, di quanta corruzione e povertà e analfabetismo ci fossero (una miscela perfetta per il fallimento).
Virare scelte del genere era come accoltellarlo e lasciarlo morire.
E le facevano consciamente.

Eppure non riusciva neanche ad incazzarsi totalmente con Feliciano.

Quando Garibaldi li aveva "gentilmente" riuniti, dire che era stato un incontro imbarazzante era un eufemismo. Era stato strano, davvero strano.
Era come guardarsi in uno specchio curvo, distorcente. E insieme era stato come incontrare un santo, una figura leggendaria. Il mitico Feliciano. L'affabile e buono Veneziano.

Chissà se Feliciano, osservandolo, l'aveva catalogato come "l'indisponente e antipatico Romano". Non l'avrebbe mai chiesto. E, anche se non conosceva tanto Feliciano, era sicuro che non gliel'avrebbe mai detto.

Veneziano gli aveva stretto impacciato la mano e aveva commentato: <Immagini tanto qualcosa e poi quando accade... non è per niente come vorresti.>

<Volevi conoscermi?!> (e che nessuno lo accusasse per quel tono stupito, ne aveva tutto il diritto! Nessuno aveva mai visto il conoscerlo come un piacere... no? Forse c'era stato qualcuno...)

<Certo! Tu no? Sei mio fratello!>
<Ho sentito abbastanza in giro su di te, mi sembrava di averti sempre davanti. E ci siamo visti, comunque.>

<Mai così.>
<Così come?>
<Liberi. Da eguali. Senza altri che ci definissero.>

Lo fissò storto e replicò cinico: <Non sono libero, non siamo eguali e ormai siamo troppo grandi per non essere etichettati.>
Il sorriso di Feliciano crollò e in quel momento fu davvero come fissarsi allo specchio. Non aveva davanti il gemello perfetto, l'inimitabile Feliciano. C'era solo un essere, poco più che ragazzo, disilluso e stanco come lui.

<Hai sbagliato. Non siamo liberi. Venezia non è ancora qua.>
<Almeno è più florida di quanto mai lo sono Napoli e Palermo per quegli umani stronzi.>

Feliciano lo fissò con due occhioni lucidi per le lacrime ma insieme così vitrei. Era quasi terrificante. Questi sussurrò: <Ma l'unico che mi ha sempre visto come solo Feliciano non è qui con me, a sostenermi in questo momento assurdo e complesso e difficile e-... e non so cosa fare. Mi manca.>

Lovino ripose in un angolo, momentaneamente, la sua rabbia per riflettere sulle sue parole. Immaginò non avere il sostegno di Sicilia in quel momento, furiosa con la corona sabauda, ben più di lui; era giustificato nella sua rabbia, la provava pure lei. Pensò anche ai suoi lunghi abbracci e alle ore passate spalla contro spalla, sotto un aranceto. Senza parole, senza gesti. Solo la presenza di qualcuno così vicino e vivo a fare da ancora.

Cancellarla dalla scena, rimuovere Sicilia... era insopportabile. Come perdere un arto.
Promise, ardente e impulsivo: <Prenderemo il Veneto. E il Lazio.>

<E il Friuli. E il Trentino.>
<Davvero?>
<Sì, gliel'ho promesso. E li conosco. Sono miei. Non di Austria.>
<Hai ragione a riprenderteli.>

Silenzio.

Feliciano spostò una ciocca e commentò: <Sarà imbarazzante. Quando incontreremo tutti. Gli unici che conosco non sono qua.>
Lovino ebbe un piccolo moto di simpatia e arricciò le labbra in un sorriso mesto.

<Non sei il solo, credo. Sai, quando ho visto qualcuno... li ho riconosciuti come miei. Anche se hanno il ricciolo dalla tua parte.>
<Che strano.> abbozzò un sorriso Feliciano.

<Non mi sorprenderei troppo. Siamo in due a comandare un Regno traballante e relativamente povero. Credo che la strana divisione di potere sia il minore dei nostri problemi.>
<Capiremo come fare. Ma serve collaborazione. Tra di noi e tra di loro.>

Lovino alzò le sopracciglia: <Non sarà facile.>
<Non ho mai detto che lo sarà.>

E dopo quella conversazione, sarebbe stato semplice puntare il dito su Piemonte, l'apparente e unico vincitore in mezzo a quello schifo.
Anche se contro i piani di Lovino e soprattutto Feliciano, Sicilia e i suoi altri territori l'avevano vessato per lunghi anni in un vano tentativo di costringerlo ad aiutarli.

Lovino non aveva avuto il cuore di fermarli. Feliciano non aveva mai lamentato esplicitamente nulla e anche lui voleva un capro espiatorio. Per una volta che aveva il coltello in mano, voleva puntarlo contro qualcuno e farlo valere.

Però poi Sardegna, uno dei suoi-territori-non-suoi, li aveva rimproverati duramente. Insieme anche a Liguria e Valle d'Aosta. Ma i suoi territori non avevano demorso, solo disteso e diluito gli attacchi.

La situazione era rimasta tesa fino a che Sardegna un giorno non s'era palesata nella sua residenza a Torino (odiava stare lì, ma almeno Feliciano sembrava a disagio quanto lui), un quadernetto in mano e uno sguardo pronto ad uccidere.

Lovino avrebbe potuto scacciarla. Far valere il coltello che aveva.
Eppure non ce la fece. Un brivido sottopelle lo aveva fulminato.

Sicilia, e non solo, gliel'aveva detto. Sardegna era vecchia. Molto vecchia. Nata prima di Impero Romano e Antica Grecia, era sopravvissuta a loro. Anche Toscana era abbastanza vecchia (e se per quello anche Piemonte), ma era diverso. Era un'isola e Lovino sapeva bene come ciò influenzasse un territorio. Soprattutto un'isola come Sardegna, ben più distante dagli altri rispetto Sicilia.

Sardegna era una donna fiera, attaccata alle sue genti, orgogliosa di mostrarsi per come era il suo popolo, in continuo scontro con gli stupidi Savoia, antica e potente a modo suo. Un essere così vecchio, che ha visto imperi nascere, splendere e crollare senza perire è giusto un po' pericoloso. Anche solo da un punto di vista simbolico.

E s'era presentata come una belva di fronte alla sua porta, demandando una bella chiacchierata. E lui come si poteva rifiutare?
L'aveva ascoltata, mentre mostrava le prove presenti sul quadernetto, lo stesso mostrato ai suoi territori.

Lovino aveva odiato farlo.

Sardegna aveva ribadito che nonostante Piemonte stesse meglio di, per dire, Campania o Sicilia, non voleva dire che la sua personificazione fosse un viziato. Era in una gabbia. Dorata, agiata, ma pur sempre dorata.

Ma Lovino aveva chiuso ogni compassione; avrebbe voluto (e quasi dovuto) continuare ad odiarlo, e l'aveva pure detto.
<Intanto lui è industrializzato e noi, perchè sei coinvolta pure tu, siamo nella merda, abbandonati a noi stessi e alla nostra corruzione.>

Ma Sardegna lo fissò nelle pupille, gli entrò nel petto e gli stritoló l'anima mentre affermava: <Tu non hai idea di cosa abbia sopportato per quei pezzi di merda nella speranza di essere amato. Gli hanno dato ricchezza, sì, ma ti assicuro che quello che ha dato non c'è prezzo, non c'è un ricompenso adatto. E ti assicuro che appena potranno, l'abbandoneranno. Come hanno fatto in partenza con noi. Aspetta e vedrai.>

E quando poco tempo dopo la capitale venne trasferita a Firenze, Lovino capì. E smise di odiarlo con quel briciolino di anima.
Erano tutti solo pedine.
Anche lui, che aveva il coltello dalla parte del manico.

•~-~•

Aveva ricevuto una lettera nella sua casa a Torino, chissà come, da Antonio, a giudicare dalla grafia e dal nome dell'emittente.
Lovino la mise in un cassetto.

Voleva chiudere quel capitolo.
Perché era debole e in quello stato pietoso anche per colpa di Antonio e della sua economia di merda.

(Anche se aveva la giusta impressione che contro i Savoia non avrebbe mai vinto)

•~-~•

Era maledetto?
Anche Feliciano era maledetto?
Perché non erano mai vincenti?
Perchéperchéperché?!

Erano entrati in una guerra, s'erano resi lo zimbello d'Europa e non solo per le loro (in)abilità militari e alla fine avevano perso eppur vincendo.

Avevano sconfitto gli austriaci, ma i patti non erano stati rispettati.

E l'aveva visto sul volto di Feliciano il dolore. Non tanto per il valore strategico e simbolico di quel territorio negato, a differenza degli umani. Piangeva l'addio di qualcuno di conosciuto, anche se Friuli, a detta di Campania, era il più devastato.

Anche se, c'era davvero una classifica?

Erano tutti stanchi, distrutti, devastati da quella guerra.
E non avevano ricevuto quello meritato.
Era un atteggiamento infantile? Probabilmente. Ma quel territorio era loro di diritto.

E poté capire la rabbia dei suoi cittadini alla fine della guerra, le rivolte e i conflitti.

Avevano tutti i diritti.
Perché loro, arrabbiati, delusi e feriti, erano quelli che non avevano mai il coltello dalla parte del manico.
Mai.

•~-~•

Non sapeva bene se dar fiducia a questo nuovo politico dalle grandi idee, Mussolini.

Non che avesse troppo potere decisionale, dato che erano le sue genti e i Savoia (e ciò lo faceva rabbrividire) quelli che dovevano decidere. Anche se, ormai, si poteva parlare di decisione del primo o del secondo gruppo dopo la marcia su Roma?

Temeva un po' anche per quello. Ricordava le lezioni di storia con Sicilia. Di come avere un solo uomo a scegliere, lì per potere e carisma, frutto di una novità e non successione, è sempre pericoloso. Anche quando l'umano fa del bene, perché poi tutto crolla.

Ma forse Lovino era stanco di seguire le lezioni di Sicilia o forse era solo più abbindolabile di quanto creduto, perché lasciò che quell'uomo elencasse a lui e Feliciano della potenza dell'antica Roma, di come dovrebbero seguire le orme di loro nonno (sapeva la loro vera identità e già quello avrebbe dovuto allarmarlo sul futuro) con racconti e aneddoti che sapeva che erano sbagliati.

Ma si era fatto abbindolare dall'unica cosa chiara che aveva capito: finalmente poter avere quel maledetto coltello nelle proprie mani.

•~-~•

Alla fine, era stata solo l'ennesima illusione.
Ed erano in una guerra, arretrati strumentalmente, stanchi ancor prima di iniziare per via degli aiuti mandati a Francisco Franco in Spagna (non aveva avuto il coraggio di cercare Antonio. La lettera aveva cambiato cassetto, ma mai era stata aperta.) e con l'ultimo brandello di cecità svanito.

Anche se avrebbe dovuto capirlo prima, cazzo, quando avevano conquistato (in modo penoso) quei territori africani. Sapeva cos'era essere assoggettato. Voleva vincere, sì, ma si era sentito un errore a portare avanti quel ciclo vizioso.

Ma come togliersi?
Erano entrati in guerra e avrebbero vinto (ne dubitava) o sarebbero stati sconfitti (forse morendo nel processo. Ne era terrorizzato, eppure sapeva che era una possibilità).

E Feliciano era perso per quel crucco, non c'era speranza di dissuaderlo. Sarebbe stato ucciso prima di tradire quel biondino, per un'infatuazione del cazzo.
Avrebbe dovuto cogliere la palla al balzo quando sarebbe arrivata.

•~-~•

Gli alleati in Sicilia erano la palla al balzo.

E lui corse laggiù.

Ora era nemico di Feliciano.
Non gli era mai piaciuto da piccolo, men che meno in quel momento.

•~-~•

La guerra civile, nel mezzo della guerra mondiale, fu dolorosa. Su di sé, ma soprattutto su Feliciano. Perché da qualche parte dentro di lui lo sentiva, il terrore e la ferocia che sconquassavano i suoi territori.

Non era mai capitato prima, ma forse in tempi di guerra tutto era diverso.

E non sapeva come Feliciano stesse ancora vivendo.
Arrancava perché troppo attratto da quel nazista per arrendersi alla realtà?

Non che lui potesse tanto parlare. Sia lui che Feliciano erano stati fascisti (tecnicamente, Feliciano lo era ancora, anche se per motivi tutti suoi).

•~-~•

Quel bastardo era stato impiccato e quella patetica scusa di famiglia reale bandita dall'Italia.
Ora erano un Repubblica.
Novizia, traballante, con ancora il nord e il sud divisi, come appartenenti a due realtà opposte.
Ma erano liberi.

Ma ormai non voleva più il coltello dalla sua parte.
Voleva solo vivere senza averlo puntato contro.

•~-~•

Non era semplice, con l'analfabetismo e la povertà e la corruzione e la mafia a dilaniarlo e ancorarlo al fondo di un mare di merda.

Avrebbe mai trovato una via d'uscita?

•~-~•

La CECA era sicuramente una novità.
Ed era stato estremamente imbarazzante il primo incontro, tra loro non umani.
Dopo tutto quello successo...

Lovino era solo grato che Francia (non voleva dargli troppa intimità e chiamarlo col nome umano) avesse mantenuto una certa formalità durante l'incontro, invece di essere come l'uomo delle sue memorie (e non solo sue).

Non avevano parlato tanto quella prima volta, lasciando il compito ai loro umani in un'altra stanza. S'erano alzati abbastanza in fretta e, almeno lui, era rimasto un po' interdetto.
Come anche Feliciano.

E ovviamente come Germania (assolutamente non Ludwig. Ludwig era per Feliciano. Ed erano fattacci loro).

Lovino sarà anche risultato una merda, perché in fretta aveva lasciato il fratello e il tedesco da soli, distanti, a disagio e immobili come statue, per andare a parlare con Belgio e Olanda.

Emma (sì, lei con piacere la chiamava per nome) l'aveva abbracciato e aveva commentato come fosse cresciuto e diventato un bell'ometto, imbarazzandolo di fronte agli altri due. Francia ebbe la decenza di solo abbozzare un sorriso, invece Abel (sì, anche lui meritava di essere chiamato per nome, anche se lo spaventava) rimase stoico.

Non gli rimproverarono niente, non accennarono alla guerra di così poco tempo prima. Non era dimenticata, ovvio, a giudicare anche dagli sguardi che lanciavano a Feliciano e soprattutto a Germania, ma non sembravano mostrare rimorso nei suoi confronti. Forse perché nella guerra civile era stato dalla parte dei buoni, anche se avevano "tradito" (anche se non era assolutamente vero! Volevano arrendersi e basta!)?

O forse era perché era così tanto ingranato per gli altri che fosse Romano e non Italia che avevano un po' cancellato i suoi crimini?
Se fosse stata la seconda opzione, per una volta era contento di essere ancora oscurato da suo fratello.

•~-~•

La CECA si modificò e relativamente in fretta divenne la CEE, che attirò anche l'attenzione di altri Stati, che s'unirono.

Quando venne annunciato che quel giorno si sarebbero uniti altri due Stati, la porta si aprì e vennero presentati, Lovino ebbe un tuffo al cuore.
Spagna e Portogallo.
Antonio ed Henrique.

Vedere Antonio lì, con il suo sorriso imbarazzato, era stata una secchiata d'acqua gelida. Ripensò a quella lettera mai aperta e che ad un certo punto era stata pure persa (volutamente era una grande parola, non del tutto vera) e a come non gli parlasse dal vivo da... da oltre un secolo. Quanto tempo.

Nel senso; un secolo non era tanto nella vita di uno Stato, ma era tanto anche per loro per non vedere qualcuno a cui tieni.
Ma non sentì solo l'affetto.
Anche confusione, stupore, vergogna (perché aveva costretto Antonio al suo Mussolini e per ben più tempo!) e paura.
Tanta, tanta paura.

E forse anche per quello che aveva distolto lo sguardo e aveva osservato Henrique.

E quei ricordi sfumati tornarono e lo travolsero e soffocarono come una marea, mentre tra le costole un dolore sordo gli ripeteva la lezione di Henrique che pensava di aver dimenticato, ma che aveva solo e sempre portato dentro al cuore.

Ma osservare il portoghese era ben più semplice che guardare Antonio.
Ed era molto diverso.
Sarà stato anche perché era lui stesso gemello ed era attento a quei dettagli, ma anche se i due iberici si assomigliavano, non potevano essere più diversi.

Il portamento, la luce negli occhi, l'incurvatura delle labbra... tutto era diverso. Il recipiente era simile, sì (e comunque neppure lì uguale), ma il contenuto era totalmente diverso.
E anche quello che Lovino provava.

Osservare e pensare ad Antonio era provare a contenere una tromba d'aria in un vaso per i fiori e perire provandoci.
Invece osservare e pensare ad Henrique... era riguardare una foto e pensare con nostalgia a qualcosa. Eppure qualcosa nelle braccia gli prudeva e gli mandava in defibrillazione l'anima. Ricordava il desiderio del sé bambino.

Conoscere il vero Henrique e non Henrique-capo. Era la sua chance.
Probabilmente l'uomo non lo ricordava più e lui sapeva così poco di lui.
Potevano iniziare da zero, non c'era nessun bagaglio emotivamente complesso.
Ma un sacchetto emotivo, sì.

•~-~•

Appena finita la riunione, Antonio gli fu addosso come una belva con la sua cena e lo stritolò tra le braccia. Appoggiò come tanto tempo prima la testa contro il suo collo e iniziò a vanverare contro il suo orecchio la gioia e l'entusiasmo di poterlo rivedere e di come dovessero recuperare il tempo perduto.

Henrique era rivolto verso Emma, Abel e Lux e stava chiacchierando animatamente con loro, un sorriso disteso in volto. Sapeva che anche lui era stato sotto una dittatura, come lui, ma per tanto tempo, come Antonio.

Quando era entrato non aveva dato segno di riconoscerlo.
Forse non ne valeva la pena imbarazzarsi socialmente.
Si lasciò confortare dalla presenza familiare, anche se ancora scombussolante, di Antonio.

•~-~•

Antonio lo tenne stretto a sé come quando era piccolo. E anche se alcune dinamiche erano ovviamente cambiante, lo spagnolo era sempre il solito appiccicoso, lagnoso, stupido Antonio di sempre.

Era semplice ritornare nel suo ruolo.

•~-~•

Provava sempre a spingere quel desiderio infantile in fondo al cuore, ma ogni volta che Henrique entrava in sala e ogni qual volta per sbaglio il suo sguardo si posava nella sua direzione, Lovino era in defibrillazione.
Probabilmente era perché voleva qualcosa che non poteva avere.

Come Feliciano.

No, sbagliato, cancellare.
Non come Feliciano.

Feliciano amava Germania (non poteva ridurlo a infatuazione, non poteva e basta).
Lui non provava niente di simile! Niente inerente a quella sfera emotiva!
Era che, come al solito, voleva cose che non erano sue. Come se avesse diritto di possederle. Non che volesse ciò con Henrique.

Voleva solo conoscerlo.
Ma non valeva la pena andare lì con quel suo piccolo bagaglio emotivo quando il portoghese era a mani vuote.

•~-~•

Feliciano aveva ottenuto quello che voleva. Aveva ripreso a parlare con Germania. Anche se erano ancora in una fase piena di imbarazzo e silenzi tesi e occhiate che volevano urlare tutto quello che rimaneva incastrato in gola.

Lovino intanto continuava a lanciare occhiate verso Henrique.

Ovviamente Feliciano, anche se nel mezzo del suo turbine emotivo, l'aveva notato e l'aveva incoraggiato.
Aveva spento ogni replica con: <Se io sono riuscito a parlare con Ludwig, tu puoi tranquillamente parlare con João. E se non si ricorda di te e non vuole conoscerti, è un cretino e basta!>

Ma Lovino non era coraggioso come il fratello, anche se veniva additato come un gran fifone. Non era totalmente sbagliato, ma se Feliciano voleva qualcosa, lo otteneva.

Lovino?
Beh, Lovino si struggeva da lontano e basta.

Feliciano una volta l'aveva punzecchiato che avesse una cotta e si era poi sorbito mezz'ora tra urla e versi sconclusionati del fratello.
Lovino non aveva una cotta.

Come potevi tenere a uno che non conoscevi, a uno che ti aveva detto come ultime parole quel tipo di lezione?

•~-~•

Antonio era anche bravo, senza saperlo, a distrarlo. Alcune volte dimenticava che Henrique esistesse fino a che qualcuno non lo chiamava a voce alta e allora se ne ricordava. Ogni volta lo spagnolo lo toccava in qualche modo (una spallata o gomitata giocosa, una stretta di mano, uno sfioramento di dita da qualche parte) e riprendeva a parlare del più e del meno.

Ma il pensiero ormai era piantato in Lovino per quella mattinata, anche se relegato ad un angolino.
Anche Antonio aveva dei limiti nelle sue doti.

•~-~•

E poi un giorno tutto scoppiò.

Un giorno ben in là; il millennio nuovo era già arrivato da svariati anni.
Ma qualcosa, quella mattina, era diversa.
Non sapeva cosa.

Forse ogni tanto Dio lo ascoltava e l'aveva benedetto per quel giorno ed era conscio di ciò, oppure inconsciamente il suo cervello aveva smesso di sopportare le sue paturnie e che doveva metterci un punto, forse funzionava per grande (grandissimo) accumulo di frustrazione... fatto stava che quella mattina, prima dell'inizio dell'incontro dell'Unione Europea, aveva chiesto ad Antonio: <Lo so che ti chiederò un grande favore e so già che non ti piacerà ma devi tenere la bocca chiusa, ok? Perché lo so che ti sta antipatico ma lo conosci sicuro meglio di me e anche io voglio conoscerlo->

Ok, anche se era risoluto non voleva dire che dovesse andare dritto al punto.

Infatti Antonio corrugò le sopracciglia e domandò: <Chi vuoi che ti presenti, Arthur?>
Lovino arricciò il naso e ribatté: <No, no! Però è un suo amico! Portogallo- cioè, ehm, João-... sì, ecco, vorrei conoscere tuo fratello.>

Silenzio.

Un silenzio che preoccupò molto Lovino.
<Sicuro?> fu la domanda sussurrata dello spagnolo <Sa essere un grande stronzo. Non voglio ti ferisca. E lo so che hai detto che non te lo devo chiedere, ma lo chiedo: perché vuoi conoscerlo?>

<Perché l'ho già conosciuto. Circa. Ricordi?> e senza dargli tempo di esternare ancora di più le emozioni dipinte sulla sua faccia incupita, aggiunse: <Però era una situazione diversa e anche lui stesso l'ha detto. Questa sarebbe la situazione ideale, ecco. Siamo pari, nessuno dei due dipende dall'altro e... ecco. Sono curioso. Ci pensavo da un po'.>

Era una riduzione bella e buona, ovvio, ma sarebbe stato imbarazzante ammettere tutta la verità!

Antonio rifletté lunghi secondi e poi sospirò: <Va bene. Però se ti ferisce lo ammazzo per davvero.>
<No.> ribatté Lovino e lo sospinse verso il fratello.

Lo spagnolo sembrava stesse andando al patibolo mentre s'avvicinava al portoghese e al britannico. Con uno sforzo erculeo Antonio picchiettò sulla spalla il fratello mentre Arthur lo fissava confuso.

Henrique si girò e si trattenne dall'arricciare il naso di fronte al fratello.
Perché lo voleva infastidire?

<Non sono qua per mio piacere, ma per fare un favore. Dato che sei st-... sbadato come tuo solito, ti sarai dimenticato di lui.> e Antonio lo indicò <Però, beh, appunto, ti vuole conoscere e ha chiesto a me di fare le introduzioni. Quindi... Lovino, João; João, Lovino.>

E se ne andò a grandi passi.

L'italiano pensò che avrebbe potuto gestirlo meglio, ma almeno il portoghese non era ancora scappato via (né sembrava volesse strangolarlo).

Arthur capì l'implicita richiesta e si allontanò.

Ed eccoli, lì, soli.
Lovino aveva paura di morire di crepacuore da un momento all'altro. Non aveva idea di cosa aspettarsi.

Fu spiazzato dalle parole altrui: <Pensavi ti avessi dimenticato?>
<Non mi hai dimenticato?>
<Conosco sempre gente nuova, ma non scordo quella conosciuta prima. Pensavo che tu non ti ricordassi di me.>

<Come?!> quasi esclamò Lovino, offeso <La prima volta che sei entrato sembrava non mi avessi visto e non hai fatto nessun gesto di avermi riconosciuto.>
<Tu non sei stato tanto meglio.>

Lovino abbassò il capo, in fiamme. Non aveva tutti i torti.
<Scusa, è che...>
Henrique gli appoggiò una mano sulla spalla e Lovino si ritrovò come costretto a sollevare la testa.

Qualcosa tra due costole si strinse e agitò all'ammirare il rassicurante sorriso di João, che spiegò: <Non ti preoccupare. Capita. E capisco. Mi spiace solo che abbiamo sprecato così tanto tempo pensando che l'altro non si ricordasse di noi, quando invece avremmo potuto risolvere tutto parlandone. E non hai tutte le colpe. Avrei potuto parlarti, ma non l'ho fatto. Alla fine a rompere il ghiaccio sei stato tu, hai questo grande merito.>

Lovino abbozzò un microscopico sorriso (non era carismatico e luminoso come quello del fratello, ma sperò bastasse).

<L'importante è averlo fatto, no? Ti posso offrire un caffè dopo questo meeting? Non è granché come caffè quello qua attorno, senza offesa a Emma, ma è anche vero che non avrei voglia di niente più forte di mattina.>

Ecco, aveva fatto la grande proposta.
Ora sì che poteva morire d'infarto.
Stava giocando il tutto e per tutto.

<Volentieri! Ti do il mio numero così se ci perdiamo di vista ci possiamo contattare, ok?>
<Volentieri.> e Lovino gli porse il telefono in modo tale che digitasse il numero.

Ce l'aveva fatta, ce l'aveva fatta!
Poteva morire felice!
No, col cazzo! Voleva quel caffè.

Anche se avrebbe preferito qualcosa come uno spritz (o direttamente un limoncello se la situazione fosse diventata davvero disperata!), ma Bruxelles non era rinomata per avere bar che vendevano spritz (o limoncelli).

Henrique gli diede indietro il telefono e Lovino in fretta mandò un profondo "." nella loro chat, in modo tale che il portoghese potesse salvare il suo numero.
<Grazie.> pigolò.

Ludwig richiamò l'attenzione delle nazioni in sala. Era ora di iniziare.
Prima di andare a sedere ai rispettivi posti, Henrique riuscì a replicare: <E di che? Grazie a te. Non vedo l'ora di effettivamente conoscerti, Lovino.>

<Anche io.> e l'italiano sorrise.
Quella stessa cosa tra quelle due sfortunate costole si compresse e irradiò così tanto calore da avere il terrore di star diventando un peperone.

Quelle parole erano tutto quello di cui aveva bisogno per sapere che Henrique ricordava i suoi stessi insegnamenti, che entrambi ricordavano quel passato ma che non avrebbe dovuto e potuto interferire con il presente.

Sia per la sua brevità e poca profondità, anche se era quello che li aveva fatti conoscere, sia perché ora erano eguali e finalmente potevano conoscersi.

•~-~•

Lovino aveva salutato frettolosamente Antonio, ignorando il broncio che s'era approfondito una volta che gli aveva dato le spalle ed era sfrecciato verso Hernique.

Aveva anche evitato di osservare il fratello, che sicuramente gli sorrideva sornione ma contento.
Lovino ed Henrique andarono a prendere un caffè.

E il resto è storia, di quella non scritta nei libri ma che dà senso alla vita di tutti i giorni.

N/A: beh, spero vi sia piaciuto!
Mi scuso ancora profondamente per la luuuuunghissima attesa, ma spero che il capitolo vi sia piaciuto.

Purtroppo non c'è tutto tutto quello che volevo scrivere, è anche vero che potrei scrivere quello che manca in un altro capitolo, sempre se ne volete un altro e quindi aspettare chissà quanto altro tempo, ahahaha.
Ahah.

Scusate ancora qwq.
Sono una pessima scrittrice.

Vi chiedo solo, e lo so che pretendo tanto, di farmi sapere le vostre opinioni, se avete tempo e voglia!
Ciao ciao!

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