6
ROBERT
Dopo la morte di mia madre, mi ero promesso che non avrei più
sofferto. Il dolore era stato troppo forte. La paura di perdere ancora
qualcuno mi tormentava. E così, non mi ero più innamorato. Ero
scappato da qualsiasi tipo di relazione che durava più di una notte. Erano quattro anni che vivevo giorno per giorno senza pensare a
un domani.
Però quella mattina qualcosa era cambiato. La dolcezza dei suoi
occhi, i tratti del viso innocenti, la voce delicata. Non avevo mai
incontrato una ragazza così. Anzi, non pensavo nemmeno che potessi mai esserne attratto.
«Ehi, Jenny, posso farti una domanda?», chiesi massaggiandomi
il collo.
«Certo, qualunque cosa», sorrise.
Mi metteva disagio aprirmi così, ma ero curioso di saperne di
più. «Conosci per caso la ragazza con cui stavo chiacchierando
ieri mattina? So che si chiama Rosemary». Jenny non poteva non
conoscerla, lavorava lì da quattro anni. Era sempre informata su
tutto e tutti.
Mi scrutò pensierosa. «Perché ci tieni a saperlo?»
Feci spallucce e con aria indifferente le dissi: «Per curiosità. Non farti strane idee». Speravo non mi facesse il terzo grado. I suoi occhi la dicevano lunga, moriva dalla voglia di sapere.
Ammiccò. «Sento profumo d'amore nell'aria...», sussurrò dandomi una gomitata.
Schioccai la lingua. «Amore? Ora esageri».
Jenny annuì con uno sguardo poco convinto, poi prese un piattino dal bancone, si voltò e lo ripose nel lavello. «Comunque, è la figlia di un ex pianista ed è una delle allieve migliori qui alla MozArt».
«Anche lei è una pianista?»
Si girò. «Sì, ma non so altro su di lei. È una ragazza riservata».
«Grazie, mi basta sapere questo per adesso». Poi presi uno straccio e pulii il bancone.
Una pianista. Una delle migliori allieve.
Mi ricordava mia madre. Questo dettaglio mi incuriosiva.
Jenny mise una mano sulla mia spalla e bisbigliò: «Buona fortuna, rubacuori».
La guardai stranito. «Perché?»
Sorrise e si allontanò per parlare con uno studente. Ogni tanto
quella ragazza non la capivo.
***
La mattina seguente uscii di casa prima del solito. Dovevo aiutare Jenny in alcuni ordini per la caffetteria. Alle sette ero già seduto sulle scale della Moz-Art a fumare una sigaretta. Fissai il cortile spoglio di studenti, le strade gremite di macchine, probabilmente
dirette al lavoro. Dopo meno di un'ora su quelle scale ci sarebbero
state solo orme di ragazzi assonnati. E al bar, richieste impazienti
di professori a corto di caffeina. Volevo godermi per qualche altro
minuto il momento più silenzioso della giornata.
«Lo sai che il fumo fa male?», mi rimproverò una voce familiare.
Mi alzai e mi voltai verso di lei. «Sono tante le cose che fanno
male», le dissi mentre salivo gli ultimi scalini.
Socchiuse un po' gli occhi. «Cosa, per esempio?»
Gettai il mozzicone e guardai l'enorme libro che teneva tra le
mani. «Arrivare a scuola un'ora prima per studiare». Sollevai lo
sguardo e sorrisi.
Mi fissò confusa. «Beh, mica fa male ripetere per un esame...»
«Dici?», ridacchiai.
Sollevò un sopracciglio. «Ora comunque devo andare. Buona
giornata, Robert».
Annuii e la guardai entrare, poi la richiamai: «Mary, aspetta!»
Si voltò. «Sì?»
Infilai le mani nelle tasche. «Hai tempo per un caffè al ginseng?»
Esitò, poi annuì. «Va bene, ma dieci minuti non di più».
Sorrisi. «Allora vieni con me». E le feci un occhiolino.
«Non entriamo?»
«Non mi dire che ti piace davvero il ginseng della Moz-Art...»,
dichiarai stupito.
Mi guardò incuriosita. «Ce ne sono di più buoni?»
Risi. «Dai, andiamo».
Annuì e mi seguì con il librone vicino al cuore.
Arrivammo al Tate Bakery & Café, due isolati più avanti, e ci
sedemmo l'uno di fronte all'altra. Quello era il mio bar preferito.
Amavo i colori vivaci e la musica trasmessa dal jukebox.
Si avvicinò Mark, uno dei baristi che lavorava lì da più tempo.
«Ciao, cosa vi porto?», ci chiese con un sorriso.
«Per me un caffè al ginseng e un cornetto ai cereali», rispose subito lei. Poi si rivolse a me: «Tu che prendi, invece?»
«Il solito caffè, grazie».
Mi guardò sorpresa. «Non hai fame? Guarda che paradiso c'è dietro di te!»
«Sì, lo so, ma mi basta un caffè».
«Ah? Riesci a resistere a quella montagna di tentazioni?»
Annuii. «Sì, posso farne anche a meno». Feci tamburellare le
dita sul tavolo. Mi sentivo un po' nervoso.
Tic, tac, tic, tac. Il tempo sembrava non scorrere mai. Nell'attesa, ci fissammo in silenzio. Io riuscivo a reggere di più lo sguardo;
lei ogni tanto cedeva e arrossiva. Perché mi fa quest'effetto? Maledizione! Ero a disagio.
Mi alzai. «Vado un attimo in bagno». Mi guardai allo specchio.
È solo una ragazza. Poi mi gettai dell'acqua fredda sul viso per
riprendermi dall'imbarazzo. Quando ritornai, Mark stava servendo
la nostra colazione. Era ora!
Dovevo rompere il ghiaccio. Bevvi il caffè e mi schiarii la voce.
«Da quanto suoni?»
Mi guardò confusa. «Come fai a sapere che suono?»
«Beh, sul tuo libro c'è scritto "La musica e il pianoforte". Quindi, deduco che lo suoni».
Abbassò lo sguardo sul testo. «Ah. Hai ragione».
«A meno che tu non ti diverta a portare in giro libri altrui», ridacchiai.
Ritornò a guardarmi, sorrise e si infilò un pezzo di cornetto in
bocca. Ricambiai il sorriso. Poi finì di masticare e rispose: «Suono
dall'età di undici anni grazie a un infortunio».
La fissai sbigottito. «Ah, davvero?»
Ridacchiò. «Sì, mi ruppi una gamba a un corso di danza».
«Ma balli ancora?»
«No, per fortuna. Mi ci aveva iscritta mia madre. Voleva fare di
me una ballerina professionista».
«Quindi, non avrà preso molto bene questo cambiamento...»
«Beh... non tanto».
«E tuo padre, invece?»
«È stato lui a trasmettermi la passione per il pianoforte. Era un
pianista».
La guardai con curiosità, anche se ero già a conoscenza di questo dettaglio. «Bello».
«Sì, una mattina fui svegliata dalle note di John Lennon. Conoscerai Imagine».
«Chi non la conosce?»
«Ecco. Era mio padre. Mi misi al suo fianco e lui mi posò le
mani sui tasti del piano». Gli occhi le brillavano di felicità. «Non
mi ero mai sentita così bene».
Rivedevo me stesso nel suo sguardo. Quel vivo entusiasmo che
avevo smarrito da un po'. Sorrisi e lei terminò il cornetto.
«Tu invece cosa fai, oltre a due lavori?», chiese prima di iniziare
a bere il ginseng.
Risi. «Ottima domanda». Poi guardai l'orologio a muro e mi alzai.
Cazzo, è tardi! «Magari te lo dico un'altra volta. Meglio che andiamo».
«Già, hai ragione», bevve l'ultimo sorso, prese lo zaino e si alzò.
«Aspetta qui che vado a pagare».
«Ho fatto già io, andiamo», mi informò toccandomi il braccio.
«Perché?», chiesi sorpreso.
Sorrise. «Tranquillo, non è la fine del mondo. Fai finta che ti
abbia invitato io».
Sbuffai. «Va bene».
Uscimmo dalla caffetteria e ci incamminammo verso la Moz-Art.
«La prossima volta ti inviterò io, signorina, così non potrai pagare tu», le dissi quando arrivammo.
Rise. «Vedremo, Robert». Si girò, salì le scale ed entrò.
Mi fermai qualche secondo a ripensare a quella mattina inaspettata. Poi guardai l'ora e corsi in caffetteria.
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