una mano fuori dal finestrino

"Fa troppo male e voglio solo gridare."

E io vorrei poter Gridare.
Accendere la miccia ed esplodere. Urlare. Tutto quello che ho nello stomaco. Perdere la voce. Correre a
perdifiato. Ma non quando possiedi già la gola secca, le gambe traballanti, i vestiti bagnati e i capelli sudici di fuliggine. Mi duole il petto. Non lo so perché ma è un dolore ingombrante e riesce ad opprimermi, quasi a piegarmi la schiena. Non riesco a muovermi, a smuovermi, lì impalato nel mezzo del caos.

I miei occhi sono spalancati, sto lacrimando e sudando nello stesso istante. La vita mi scorre tra i palmi, la osservo sgretolarsi. Dissolversi, contaminarsi nell'aria e rovinare i polmoni di quegli stronzi dei fumatori.

Tossisco.

Una scintilla, la scintilla è in grado di evocare fuoco. Ovvio che sa evocare fuoco, bisogna soltanto
sfregare due pietre.

Certo, la scintilla non è paragonabile a un fulmine e nella sua semplicità basta così.

Una minuscola scintilla. Una particella seppur istantanea – l'attimo prima non c'è e l'attimo dopo pure – seppur, per la seconda volta, minimamente paragonabile a un fulmine, è incandescente.

E quando la particella istantanea è a fianco a del cartone, a leggeri passi e silenziosamente si aggrappa al cartone, piano piano e poi in un crescendo verso il forte. Così forte. Così, per caso, nella
frazione di un millesimo di un secondo in cui appare una scintilla.

Come se possa comporre musica, ha tastato con le dita quel dannato piano a muro, quel vecchio relitto di
legno abbandonato che ha ampliato nuovamente il suono di una semplice una particella istantanea. Bè, tutti hanno il diritto di abbuffarsi: medesimo discorso non esclude il fuoco che, svegliato, ha avuto pronto per sé un intero banchetto di cui cibarsi. Che festaiolo. Gli piacciono così tanto le luci, luci rosse, arancioni, gialle, blu.

Il fuoco blu è il fuoco più ardente che esista. E io l'ho osservato: è preciso, veloce, imprevedibile e brucia. Sì, brucia.

Per una stufa. Una stufarella a led attaccata al divano. E chi poteva mai essere stato lo stronzo che ha
dimenticato di spegnerla? Io. Sì.

È colpa mia? Colpa mia se dormivo da una vita intera e dimenticavo i compleanni, i compiti, le faccende
di casa? Se ero nato smemorato e con un miliardo di sogni da realizzare? Se avevo ancora dieci anni da programmare, l'università giusta, delle vacanze da invidia e... Sì, io avevo. Perché ora non voglio più. Perché ora non lo merito. Perché ora non voglio nemmeno constatare se casa mia è ancora in piedi, se si può salvare qualcosa. La maggior parte è andato in pezzi e la fortuna non esiste. Non mi interessa.
Non voglio vedere, non voglio sentire, non voglio parlare, non voglio dormire. No, io non voglio. Voglio solo poter gridare, questo sì, però non ci riesco. Non sono forte, ma impotente.

Ora che le cose stavano andando per il verso giusto, quando sembrava albeggiare il sole e quando le stelle si potevano contare sulle dita... I problemi sono come le stelle: indecifrabili, innumerevoli, enormi
sfere di gas che possono ucciderti solo con la loro vicinanza.

Odio il caldo, mi pizzica il naso, la pancia è in una morsa stretta e avverto le gambe vacillare. Gli occhi straripati. Non le controllo nemmeno, le lacrime. Scendono indisturbate poiché non muovo le pupille, non sbatto le palpebre e non fisso qualcosa di insopportabile come la luce. Fisso il buio. Le pareti sono nere, i soffitti neri, il pavimento è nero, il mio letto è di colore nero, assieme alle lenzuola e i cuscini e tutto il resto.

Puzza di plastica bruciata, le piume sono traboccate persino in terrazza. Pupazzi dai visini cremisi mi fissano ora con la pelliccia sporca e lo sguardo inanimato. Dopotutto, non c'è poi così differenza fra me e loro.

L'aria è umida, tutto è cosparso di acqua. L'acqua ha allagato il passaggio. E l'acqua dovrebbe lenire il dolore, in realtà ti ricorda esclusivamente che c'è perché deve essere guarito, perché l'acqua la tocchi, la percepisci. Brucia. Le ferite sono pressoché poche e tutte uguali. Quindi l'acqua non serve, non aiuta a un cazzo.

E voglio solo perdermi. Perdermi nel giorno di prima.

Cerco di rimembrare l'ultima volta, l'ultimo ricordo buono che sia in grado di farmi evocare l’Incanto
Patronus contro il buon Dissennatore che mi sta baciando l’anima.

Era stata la giornata di ieri.

La giornata di ieri lontana, persa nello spazio e nel tempo.

Eravamo in auto, a notte fonda, io e mio fratello Diego. Sfrecciavamo veloci, incuranti della strada e degli altri.
Cantavamo a squarciagola le canzoni della nostra infanzia, di quando eravamo bambini con i sorrisi malandrini. Imitavamo i dialoghi fra Shrek e Ciuchino e litigavamo per chi fosse il più carismatico, il più bello, il più birichino. A un certo punto avevamo iniziato una gara di rutti e lui ruttava mostruosamente impregnandomi del suo marchio di fabbrica: gli puzzava l'alito di albicocca, la sua auto puzzava di
albicocca, lui e i suoi succhi di frutta. Non penso che vorrò berne ancora: mi sale la nausea al solo
pensiero.

Il giorno prima avevamo acquistato qualcosa che ci sembrava perduto: un sorriso tenue e non sforzato.

Sulla via, librati in azzurro abbiamo sorvolato ciò che ci aspettava a casa. Avevamo entrambi fatto viaggiare la mano fuori dal finestrino, sì, perché i problemi non potevano inseguirci lì. Nel punto in cui era fuggita la malinconia, l'oltreppassare della finestra con quella parte che ci sarebbe appartenuta per sempre. Fuori da ogni luogo, insidia e i tormenti che non finivano. Avevamo lasciato ciò che sono le nostre radici. Sporche. Maledette. Impregnate dell'odore di droga, come i miei parenti.

Ero soddisfatto per la prima volta, mi sentivo libero, la spensieratezza di essere sospesi in aria senza dubbio di caduta con lui e solo lui: il mio compagno di malefatte, quello che mi accompagnava a scuola in moto, mi squadrava camminare verso l'istituto con il suo inseparabile casco grigio e con sopra l'adesivo di un pollice in basso. Diego, Diego Russo non frequentava l'Università, neanche poteva. Voleva che io fossi il migliore, colui che ci rialzasse. Ma probabile che avessero ragione gli altri: io sono il peggiore, colui che ci ha fatti sprofondare. Non mi sono lanciato in mezzo alle fiamme, non ho spento il contatore in due scatti. Non ho percosso cuscini in tutta fretta.

Tu, bastardo irresponsabile e stupido eroe, mi hai ordinato di andarmene, di lasciarti fare perché tu sai come comportarti, perché tu sei il maggiore. Ti ho obbedito perché sei l’adulto, quello bravo, dalla mente fredda ed equilibrato su ogni lato.

Ma sei stato battuto al tuo stesso gioco. Hai voluto acqua per dissetarti, acqua per spegnere e hai ricevuto in cambio bruciature, fuoco che si nutre, fuoco che aumenta. E non quello della vita ma il fuoco delle turbolente emozioni, che incendia aggresivamente, che ha come obbiettivo distruggere, ferisce e porta con sé l'odore di fumo espandendolo nella cenere.

Ci sarà un domani in cui comprenderò cosa mi sta succedendo, in cui accetterò cosa ho fatto. Sarò in grado di sapere in che modo
vola il vento e probabilmente indovinerò la sua traiettoria al solo scopo di prevedere un'altra esplosione, un altro incendio e di poter gestire altre piccole scintille. Ci sarà. Forse troverò un modo per cantartelo, cantarti le mie scuse, i miei sforzi. Ci sarà. Ma oggi no, oggi non voglio, non oso guardare in alto.

Oggi fa male.

Sei morto tu, fratellino. Nero, nere le unghie, neri gli occhi, rosse le ferite ad appena 21 anni. Un animo bianco ricoperto di immondizia come origini, morto con la sporcizia sui vestiti. Un bambino che non ha fatto altro che prendersi cura del fratello stupido.

Ti ho visto crescere e ti ho visto accenderti, come il fuoco e appiccarlo a chiunque ti fosse stato intorno.
Ti ho visto spegnerti, come il fuoco.

Ti ho visto morire con il fuoco. Tutto per una scintilla che non sono riuscito a prevedere.

E vorrei poter solo gridare, ma non ci riesco, non ho la voce. Voglio gridare che ci sarà, ci sarà quel giorno in cui saremo di nuovo insieme a viaggiare nell'auto con la mano fuori dal finestrino.

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